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Congo, il mistero del tentato golpe e il popolo alla fame

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La Repubblica Democratica del Congo raccoglie i cocci dell’ennesimo terremoto politico dopo il recente tentato golpe, subito sventato dall’esercito. E torna alla consueta routine. Che però da queste parti significa “sofferenza, guerra e condizioni davvero misere, soprattutto a Est del Paese”. Una crisi permanente dovuta al conflitto neanche più tanto strisciante con il Ruanda, “Paese che finanzia le milizie armate dell’Est, rendendo la vita impossibile a milioni di persone”. Così commenta a Popoli e Missione padre Eliseo Tacchella, comboniano, per molti anni nel Paese africano, oggi rientrato in Italia.

Il comboniano si è sempre battuto per far luce sulle miniere illegali di coltan e sulle conseguenze nefaste dell’economia predatoria. Oggi va nelle scuole italiane per raccontare ai ragazzi i motivi della paradossale povertà e della guerra nel ricchissimo Congo. “I prezzi del coltan in loco sono bassissimi: i minatori vengono pagati nulla, ma il prezzo lievita quando il minerale arriva in Ruanda”, chiarisce. Poi da lì nei Paesi arabi o in Occidente. “Da fuori, dal mio punto di osservazione, non vedo affatto la buona volontà della presidenza congolese nel porre decisamente fine agli attacchi delle milizie armate” sui villaggi del Nord Kivu, dice.
L’Est del Congo appare come una no man’s land: un territorio vastissimo che sfugge al controllo dell’esercito e non è tutelato in alcun modo. Il Presidente Félix Tshisekedi e il suo entourage (di cui fa parte Vital Kamerhe, il parlamentare preso di mira nell’attacco del 19 maggio scorso), non sono considerati abbastanza decisi e forti nel contrastare la guerriglia. “Il presunto golpe di domenica a me è sembrato una commedia tragica”, dice Tacchella. “È stato subito sventato, il governo ha reagito in modo cruento, uccidendo delle persone, ma non c’era la benché minima preparazione da parte di chi lo ha organizzato”. La Chiesa congolese, per bocca dei suoi vescovi, ha da subito preso le distanze da quanto accaduto, precisando, in un comunicato che “questi atti ignobili non coinvolgono la Chiesa cattolica, né da vicino né da lontano”.


Ben altre tragedie colpiscono invece il popolo di Goma senza che si provveda ad esso: esattamente un mese fa nel campo di sfollati di Mugunga centinaia di persone sono rimaste senza casa perché una bomba aveva colpito i loro accampamenti già precari. Lo stillicidio di sofferenze cui sono soggetti i più poveri tra i congolesi preoccupa i missionari più di quanto non faccia un tentativo di golpe fallito. “Attorno a Goma la situazione è tremenda, la gente nei dintorni della città sta molto male”, ripete Eliseo Tacchella. Appena un giorno prima del coup d’Etat, il 18 maggio, a Butembo, la società civile che rappresenta le famiglie di sfollati, si era riunita per denunciare inascoltata “la situazione umanitaria che peggiora di giorno in giorno”.

Centinaia di migliaia di km di fango, accampamenti, vite precarie e paura di tornare nei villaggi al confine con il Ruanda, dove si muore. “Le famiglie sfollate ritengono che 13 dollari al mese per vivere sono troppo pochi”, denuncia la società civile organizzata. E in effetti così non si campa. Lo racconta una radio-web locale, Radio Okapi, mostrando nel sito le foto delle tende di fortuna, dei grandi pentoloni adagiati sul terreno, dove un fuoco brucia per le brodaglie e i bambini sono malnutriti, come nell’accampamento di Rutshuru. I motivi di insoddisfazione popolare sono tanti, conferma Tacchella, a partire dall’assoluta inazione o inefficacia della leadership congolese nel fermare il conflitto armato ad Est del Paese.

Nel Kivu l’emorragia di coltan, cobalto e oro, illegalmente sottratti al Paese dalle milizie infiltrate dal Ruanda, “non solo impoverisce l’economia – spiega padre Tacchella – ma alimenta la guerra”. Perché è proprio grazie alla rivendita (illecita) di questi “minerali proibiti” che le decine di milizie ribelli, in particolare l’M23, prosperano, si armano e proseguono il conflitto contro l’esercito regolare. Nel Sud Kivu invece è l’oro a costituire la maledizione delle popolazioni locali. Sei società minerarie cinesi da almeno cinque anni sfruttano illegalmente le risorse d’oro e legname “in modo anarchico, opaco e con la complicità delle autorità politiche e militari africane”. Questo denunciano quattro associazioni locali di Mwenga, guidate da Fian International. Ridotti alla fame, gli abitanti locali guadagnano appena un dollaro e mezzo al giorno in miniera e sono repressi se protestano.

Il fine settimana appena trascorso è stato tragico per i civili che abitano nei villaggi di frontiera del Nord Kivu. Una decina di agricoltori del territorio di Beni hanno perso la vita in due attacchi armati: sabato scorso sei persone intente al lavoro dei campi sono state ammazzate a colpi di machete dai miliziani. Subito dopo, in un secondo assalto ad opera di milizie ribelli tra le quali l’Adf e l’M23 nel villaggio di Upende quattro persone hanno perso la vita per un incendio doloso appiccato alle loro case. Lo raccontano le cronache del giornale online di Kinshasa, Actualite.cd. Il conflitto tra esercito congolese e milizie si è intensificato nelle ultime settimane anche grazie al sostegno dei wazalendo, letteralmente “i patrioti”, giovani civili chiamati ad armarsi dal presidente Félix Tshisekedi. “Dall’inizio dell’anno ad oggi – denuncia Marie Brun, coordinatrice di Medici senza frontiere a Goma – abbiamo visto fuochi incrociati ed esplosioni di granate dentro i campi profughi, sia di notte che di giorno. Abbiamo registrato 24 episodi violenti che comprendono veri e propri bombardamenti, sia dentro che attorno ai campi nei quali lavoriamo”.

(*) redazione “Popoli e Missione”

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