Caro Niccolò, siamo più vicini di quanto sembri
Caro Niccolò, che dolore che ho provato quando ho letto il titolo dell’intervista che hai rilasciato recentemente sul Corriere della Sera! Sentire dire a te, uno dei cantautori italiani più influenti della mia generazione: “Non conosco coetanei che votino o vadano in chiesa, essere giovani è tremendo” mi ha turbato molto, tanto da farmi saltare la lettura dell’intervista stessa nel mio fugace scorrimento quotidiano delle pagine di giornale.
Dopo qualche giorno, alla fine, l’ho letta.
Ora, vorrei spiegarti da dove nasce il mio disagio: sono un tuo coetaneo romano e vivo anche io di musica, nel mio piccolo. Mi sento molto vicino a te. D’altra parte, poco prima dei miei vent’anni, ho iniziato un cammino di fede e ogni giorno sperimento la bellezza che può nascere leggendo la mia vita attraverso lo sguardo di Dio.
Ciò che scrivi mi turba per due motivi.
Il primo si lega alla spiacevole constatazione che quanto tu dici, ahinoi, racconti il punto di vista effettivo di tanti giovani.
D’altra parte, però, il dolore più grande sorge dalla mia esperienza personale, fortemente opposta a quanto tu racconti.
Ho avuto la grazia d’incontrare nella mia vita un percorso spirituale che mi ha preso sul serio sin da quando ero giovanissimo, guidato da un sacerdote e frequentato da centinaia di ventenni romani, come noi. Mi sono fidato della possibilità di potermi fermare e fare silenzio, per ascoltare quanto avevo nel cuore, sperimentando, forse, l’unica vera forma di libertà. Mi è stata data la possibilità di convivere con ragazzi coetanei, condividendo con loro le sfide della quotidianità e la condivisione profonda che può nascere da un percorso di fede comune. Per inciso, è grazie a questi strumenti che ho avuto il coraggio di lasciare la carriera intrapresa nel management aziendale per seguire la musica, ciò che di più mi ha da sempre acceso il cuore (ci intendiamo, no?). Tutti strumenti dati a me dalla Chiesa romana, la stessa di cui probabilmente tu hai fatto esperienza.
E allora mi chiedo: “Caspita! Ma perché Niccolò la vede così?”. Mi rispondo che a volte è solo una questione di punti di vista, che si sceglie di avere. Certamente, se la realtà la si vuole leggere attraverso gli occhi dei telegiornali o dei social, come ci hanno insegnato a fare, ci sarebbe da perdere ogni speranza. Ricordo anche io di essere cresciuto con le bombe in Iraq, calciopoli, le “invasioni” dei migranti e varie telenovelas su serial killer banali come il male.
La buona notizia che sto scoprendo è che possono esserci nuovi punti di vista, oltre a ciò che il senso comune ci consiglia.
Ad esempio, pensa, quello di Dio!
Trovo che per raccontarti di quest’esperienza il modo migliore sia quello di collegarmi ad una tua canzone, la mia preferita: “Sabbia”.
Innanzitutto, qui racconti: “Avevo bisogno di un Dio e l’ho ritrovato sentendomi in colpa”. Già, a causa del modo in cui siamo stati educati (da tutte le realtà educative) è molto facile credere che Dio sia in realtà il compendio delle buone maniere e di come ci si debba sempre comportare “bene”. Se poi ti comporti male, vai in punizione e a letto senza cena. Ti capisco, l’ho vissuto anche io. Poi mi è stato insegnato che Dio parla nel cuore attraverso i sentimenti e che per comunicarmi il suo punto di vista su di me non utilizza mai un sentimento in particolare: il senso di colpa. Quello opprimente, in cui ci si sente persi e schifosi. Parli di quello?
Andando avanti nel brano c’è la mia frase preferita: “Ma ti giuro che da sempre io punto all’eccellente. Se devo avere poco scelgo di avere niente”. Bellissima. Il mio voler sempre il massimo è proprio ciò che mi sta portando a riconoscere che, in fondo, solo aprire il mio cuore a Dio può donarmi quella gioia che nessuno può togliermi. Perché di esperienze ne ho fatte diverse, ho provato tante cose buone: un buon vino, una serie televisiva, una relazione d’amore, la musica… Ma ho notato che, quando non credo di essere amabile (e mi capita spesso!), tendo ad assolutizzare anche le cose belle, chiedendo a loro la risposta ai miei problemi di senso. Purtroppo, così le perdo.
Ed ecco che fare esperienza che lo sguardo di Dio vede la bellezza in me mi aiuta a vivere l’eccellenza di ogni piccola cosa. E poi, Dio mi insegna a godere in abbondanza dei piccoli doni della vita:“E benché fossero tanti, la rete non si spezzò” (Gv 20, 11). Altro che niente!
Nel ritornello esclami: “E costa cara la fragilità, per chi un posto nel mondo non ha, in questo viaggio nell’infinità, so che l’amore no, non passerà”. Che ti devo dire, mi sembra che tu sappia già tutto allora.
Sì, la fragilità costa cara. Il mio percorso di fede mi ha insegnato che la fragilità apre al rischio della morte. Ma, ancora meglio, apre anche al rischio della vita.
Infine, sono d’accordo con te: l’amore non passerà! Guarda un po’, è proprio quanto la Chiesa mi ha insegnato e mi ricorda ogni giorno.
Niccolò, siamo ancora più vicini e concordanti di quanto appaia!
Sto facendo esperienza, che nel suo amore, Dio ci ha fatto liberi, così liberi da non imporre Lui stesso un senso nella realtà ma lasciando a noi la scelta (libera) di darlo noi stessi, il senso alla realtà.
Quindi, se ci va, possiamo scegliere di dargli il senso che Dio desidera. Ma come fare? Il modo mi sembra semplice: aprendoci alla possibilità che Dio esista e che ci ami. Il resto lo farà Lui.
Tanti giovani lo fanno, lo stanno facendo, accettando di lasciare spazio a quel desiderio che recalcitra dentro al cuore.
Vuoi provare?
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