Uno sguardo oltre confine
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Newsletter del 21 MAGGIO 2024
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La questione di fondo è se sarà il Sudafrica a contribuire a mutare l’ordine mondiale o se sarà piuttosto il disordine mondiale a cambiare il Sudafrica. Perché dietro all’attivismo sudafricano sulle principali crisi internazionali – prima Ucraina, poi Gaza – c’è certamente la grandeur di un paese che si ritiene leader di un intero continente e pedina importante dei Brics (in realtà ultimo del quintetto per rilevanza), che si assegna l’autorità morale che deriva dal superamento dell’età dell’apartheid e si colloca in una posizione non allineata con alcuna grande potenza, eppure portavoce di quel Global South che ha terreno da recuperare e voce da far risuonare nel consesso internazionale. C’è però anche uno Stato che si prepara alle elezioni, il prossimo 29 maggio, con una prospettiva storica: l’African National Congress, il partito di Nelson Mandela, potrebbe perdere la maggioranza dopo 30 anni consecutivi al potere ed essere costretto a cercare un governo di coalizione. Il presidente Cyril Ramaphosa potrebbe veder mancare la terra sotto i suoi piedi dopo risultati molto più che deludenti. Tutto questo in una fase che vede il progressivo spostamento del Sudafrica dall’asse occidentale a quello delle autocrazie, più per questioni geopolitiche che commerciali. Il Sudafrica ha fatto parlare molto di sé in politica estera negli ultimi anni, a partire dalla mancata condanna della Russia per l’invasione dell’Ucraina e dall’astensione su ogni risoluzione relativa all’Ucraina adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, fino all’iniziativa presso la Corte internazionale di Giustizia perché Israele venga condannata per genocidio.
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Il venerdì è il giorno di preghiera e di riposo dell’Islam, e su questo non ci piove. Sull’altro giorno del weekend, invece, sono decenni che l’Iran discute in modo particolarmente animato: giovedì o sabato? Che, in fondo, altro non è che un dibattito fra identità culturale e interessi economici. Dal 2016 si contano sette campagne per modificare la settimana lavorativa. Nel 2018 una proposta era riuscita ad arrivare in Parlamento, senza però essere mai messa in votazione. Ha sempre prevalso la volontà della Repubblica islamica di mantenere il giovedì per farsi modello del mondo islamico, di far prevalere la propria identità, senza conformarsi alle norme internazionali.
La novità degli ultimi giorni è il via libera del Parlamento iraniano alla riforma che potrebbe modificare la settimana lavorativa per tutti i dipendenti pubblici: si passa dalle attuali 44 ore – con il riposo per mezza giornata il giovedì e poi il venerdì – alle 40 ore, col weekend fissato nei giorni di venerdì e sabato. Il Majles ha approvato la riforma in un clima di grande tensione, con 136 parlamentari favorevoli, 66 contrari, 3 astenuti e un’ottantina di assenti. Perché entri in vigore, però, serve il semaforo verde del Consiglio dei guardiani, l’Authority di tutela della Costituzione che detiene poteri di veto e decide se la legislazione sia conforme all’interpretazione della Sharia da parte della Repubblica islamica.
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Aveva 28 anni e ha portato la sua protesta in carcere contro la lesa maestà in Thailandia fino alle estreme conseguenze. Netiporn Sanesangkhom, per tutti Bung, aveva cominciato lo sciopero della fame il 27 gennaio scorso, per rivendicare con maggiore forza il diritto al dissenso e alla critica della potente monarchia thailandese. Per chiedere di mettere fine alle continue incarcerazioni di attivisti politici, che si sono susseguite soprattutto dopo il 2020, anno in cui è partita l’ondata di proteste pro-democrazia. Bung, attivista del movimento giovanile pro-democrazia ThaluWang (Sfondare il palazzo) era stata arrestata il 26 gennaio, prima condannata a un mese di detenzione per oltraggio alla corte, poi prorogata dopo averle negato la libertà su cauzione, a seguito di due imputazioni per lesa maestà, entrambe riguardanti la conduzione di sondaggi in spazi pubblici nel 2022 per conoscere l’opinione delle persone sulla famiglia reale. Per mesi ha portato avanti la protesta, rifiutando cibo, acqua e medicinali, anche se non sono chiari esattamente i modi e i tempi. Secondo la ricostruzione delle autorità, il 4 aprile era ricoverata in un ospedale universitario Thammasat di Bangkok quando aveva ripreso a mangiare e bere qualcosa, rifiutando però elettroliti e vitamine. Era già allora estremamente debilitata. Martedì 14 maggio è andata in arresto cardiaco ed è morta.
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DILEMMA D’AMERICA
Meglio un porto indiano in Iran o un porto cinese in Pakistan?
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Per capire la rilevanza del patto decennale siglato da India e Iran nel porto in acque profonde di Chabahar basta guardare una cartina geografica e poi leggere la reazione stizzita degli Stati Uniti. Finora l’intesa originaria indo-iraniana, risalente al 2016, ha prodotto pochi risultati, per effetto delle sanzioni Usa sull’Iran che hanno rallentato lo sviluppo del porto. Stavolta le parti sono convinte che andrà diversamente, dopo l’accordo firmato tra Indian Ports Global Limited (Ipgl) e Port & Maritime Organization per un valore complessivo di 370 milioni di dollari – circa 120 milioni di investimenti e 250 di finanziamenti indiani. Siamo nella provincia del Sistan e Baluchistan, costa sudorientale dell’Iran, nel Golfo di Oman: a pochi km a est c’è la frontiera col Pakistan che separa il territorio iraniano da quello indiano. Lo sviluppo congiunto del porto di Chabahar consente il trasporto di merci dall’India verso Iran, Afghanistan e paesi dell’Asia centrale, aggirando i porti di Karachi e Gwadar in Pakistan. “Un’arteria commerciale vitale tra India e Asia centrale” ha commentato il ministro del Commercio Sarbananda Sonowal dopo la firma dell’accordo.
Da Washington, il Dipartimento di Stato replica che “qualsiasi entità, chiunque stia considerando un accordo commerciale con l’Iran, deve essere consapevole dei potenziali rischi a cui si espone e del potenziale rischio di sanzioni”. Per dispiegare per intero il proprio potenziale commerciale e strategico il porto di Chabahar dovrebbe essere integrato nell’INSTC (International North–South Transport Corridor), avviato da Russia, India e Iran per collegare Oceano Indiano, Golfo Persico, Mar Caspio attraverso l’Iran, e poi verso il nord Europa via San Pietroburgo in Russia. Un progetto che dopo la guerra in Ucraina si è inevitabilmente arenato. Finora 2,5 milioni di tonnellate di grano e 2.000 tonnellate di legumi sono stati spediti dall’India all’Afghanistan attraverso il porto di Chabahar.
L’Iran considera l’India un partner affidabile e persegue relazioni strategiche bilaterali sulla base di una cooperazione a lungo termine nell’ambito dei Brics e della Sco (Shanghai Cooperation Organization). Chabahar è un porto in acque profonde, un accesso facile e sicuro per le grandi navi mercantili, per Nuova Delhi rappresenta una parte importante della sua strategia volta a migliorare i collegamenti con le repubbliche dell’Asia centrale ricche di risorse e l’Afghanistan, il cui accesso è stato ostacolato a causa delle relazioni ostili che durano da decenni tra l’India e il Pakistan.
Secondo alcuni analisti indiani, come Manoj Joshi (Observer Research Foundation), la minaccia di sanzioni potrebbe smorzare le speranze di trasformare il porto in un hub commerciale: “Chabahar ha un potenziale a lungo termine. Ma a causa delle sanzioni statunitensi sull’Iran, non si è rivelato il punto di svolta che l’India aveva sperato perché le società private indiane sono state e saranno riluttanti a utilizzare il porto”. L’effetto è che “non c’è stato un vero e proprio forte aumento del commercio dell’India con l’Asia centrale”. Per quanto riguarda l’India, “i buoni legami con l’Iran rappresentano una reazione contro il Pakistan, che ha un blocco territoriale nei confronti dell’India”. Chabahar è visto però anche come un ostacolo allo sviluppo cinese del porto di Gwadar in Pakistan, che dista meno di 100 chilometri. Gli investimenti di Pechino nei porti e nelle infrastrutture nell’ambito della Belt and Road Initiative, hanno sollevato preoccupazioni a Nuova Delhi e l’hanno spinta ad espandere la propria presenza marittima. Per questo ci sono altri analisti indiani, come Sujata Ashwarya (Jamia Millia Islamia) per cui Washington potrebbe considerare strategico non ostacolare un progetto con rilevanza anti-cinese nella regione indiana. “L’India terrà di fatto la Cina fuori dal progetto. Se noi siamo lì, allora la Cina non ci sarà e gli Stati Uniti non imporranno sanzioni”.
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LE GIUNTE MILITARI DEL SAHEL SI STANNO CONFEDERANDO
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Burkina Faso, Mali e Niger stanno definendo la creazione della Confederazione dell’Alleanza degli Stati del Sahel (AES). I ministri degli Esteri Abdoulaye Diop (Mali), Karamoko Jean-Marie Traoré (Burkina Faso) e Bakary Yaou Sangaré (Niger) hanno raggiunto un accordo a Niamey, capitale nigerina, su una bozza di testo, che dovrebbe essere adottata dai capi di Stato di questi tre regimi militari “nelle prossime settimane”. Le tre ex colonie francesi hanno voltato le spalle a Parigi e si sono progressivamente avvicinate alla Russia e all’Iran. A gennaio hanno annunciato l’uscita “irreversibile” da Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale), che a loro dire è sfruttata dal neocolonialismo francese. Il loro territorio, il Sahel occidentale, è funestato dalle violenze e dagli attacchi terroristici dei miliziani jihadisti. Il Niger ha chiesto alla Francia e, più di recente, agli Usa di ritirare il proprio contingente militare dal suo territorio: si tratta di una posizione strategica per gli americani nel Sahel, specie per il lavoro della base vicino Agadez, da cui droni e aerei americani effettuano missioni di sorveglianza contro i movimenti militari e i traffici illeciti. Il destino delle riserve di uranio del Niger, il settimo produttore al mondo, preoccupa i funzionari americani.
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