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Nuove linee guida su procreazione assistita: mantenute due norme a tutela embrione e nascituro ma rischio eugenetica

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Lo scorso 9 maggio sono state pubblicate in Gazzetta ufficiale le nuove Linee guida del ministero della Salute contenenti le procedure e le tecniche di procreazione medicalmente assistita. Le precedenti Linee guida risalivano all’anno 2015 e in questi nove anni sono intervenute alcune decisioni della Corte costituzionale e taluni interventi normativi che ne hanno richiesto l’adeguamento.

Ricordiamo che già nel 2015 le vecchie Linee guida avevano recepito altri interventi “demolitori” della legge 40 da parte della Corte costituzionale, a cominciare dalla cancellazione del divieto di fecondazione eterologa. L’ammissibilità di tale pratica ha comportato un vulnus all’identità soggettiva del soggetto nascituro, contemporaneamente “figlio” di tre soggetti, dei quali uno – estraneo alla coppia – che ha fornito una parte del patrimonio genetico e un altro, interno alla coppia, ma che non possiede alcun legame biologico con il nato. È opportuno ricordare che proprio il quesito referendario sull’apertura alla fecondazione eterologa fosse stato contrastato da personalità pubbliche trasversali ed avesse ricevuto un numero doppio di “no” rispetto agli altri quesiti. Nonostante la Consulta nel 2014 (n. 162) abbia fatto saltare tale divieto, le ragioni sottostanti alla norma abrogata restano tuttora rilevanti e comunque insuperate nelle sue possibili criticità sociali rispetto alla domanda ineludibile “chi sono io?” del soggetto nato da fecondazione eterologa.

Anche l’altra decisione della Corte, che aveva eliminato il numero massimo dei tre embrioni, da creare e trasferire in un unico e contemporaneo impianto, era già stata recepita dalle vecchie Linee guida, con l’effetto però che oggi si registra una quantità enorme di embrioni conservati nell’azoto avvolti nel loro mistero di vite umane “sospese”.

Le vecchie Linee guida non avevano, invece, fatto in tempo a recepire la sentenza della Corte costituzionale n. 229 del 2015, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della legge 40 nella parte in cui sanziona la selezione degli embrioni che, invece, si è consentita se finalizzata ad evitare l’impianto di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili. Anche la sentenza 96 del 2015 ora viene recepita dalla Linee guida, consentendo il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita anche alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili.

Con l’ampliamento delle cause impeditive una gravidanza, che la legge intende rimuovere, ora le linee guida graduano le opzioni terapeutiche partendo dalle più semplici, meno invasive e meno onerose.

Nelle nuove Linee guida, dunque, si amplia la platea delle coppie legittimate a chiedere l’accesso alle tecniche di Pma e, in questo caso, proprio la fecondazione eterologa.

Il nuovo testo disciplina i test genetici sui componenti della coppia così come sull’embrione (Test genetico preimpianto – Pgt), insieme alla previsione della possibilità di procedere con la preservazione della fertilità per ragioni mediche con crioconservazione preventiva dei gameti.

Appare, dunque, evidente che l’obiettivo originario della legge 40, volto a rimuovere gli ostacoli alla riproduzione sia oggi per gran parte slittato nella finalità di garantire una “buona” riproduzione, da intendersi come riduzione se non azzeramento delle possibilità che l’embrione impiantato sia affetto da imperfezioni. Il tema è enorme e apre uno squarcio sul significato più profondo del “generare”, che da fattore naturale di continuità della specie umana muta nella prospettiva di un’umanità nascente selezionata in base a caratteristiche genetiche. Il che induce a riflettere sul senso e sull’attendibilità degli screening operati sugli embrioni.

Tali modalità selettive comportano l’aumento della numerosità degli embrioni “scartati” e di conseguenza non impiantati, rilanciando il dilemma etico sulla sorte degli stessi. In questo senso sarebbe quindi eticamente doveroso riprendere il dibattito sulla adottabilità degli embrioni “abbandonati”.

Fra gli altri nuovi punti inseriti, le linee guida prevedono che il consenso alla Pma non possa essere revocato e la donna può richiedere l’impianto dell’embrione anche se il partner sia deceduto ovvero sia cessato il loro rapporto. Tale scenario riguarda in particolare le coppie che decidono di accedere alle tecniche di fecondazione assistita ma che, dopo la formazione degli embrioni, si trovano in una situazione di crisi. La legge 40 richiede che sia una coppia a fare istanza per l’accesso alle tecniche di Pma: se a un certo punto viene a mancare il consenso di un componente della coppia all’impianto cosa succede?

Cosa accade se la donna vuole in ogni caso l’impianto, anche contro la volontà del marito?

Le risposte possibili erano due: ricostruire il diritto della coppia in un’ottica sociale di realizzazione della personalità in senso condiviso, come momento di solidarietà che porta due persone a costruire una vita insieme: nel disegno della coppia c’è, nell’iniziale prospettiva, anche un potenziale bambino, un figlio. Se si rompe questo progetto comune manca il presupposto per la prosecuzione delle tecniche di procreazione. Oppure considerare anche l’interesse dell’embrione a proseguire il suo percorso vitale: dal momento che la donna è colei che accoglierà in grembo l’embrione, è da privilegiare il suo consenso all’impianto, anche in presenza del dissenso del marito.

Una valutazione finale: vi è chi, dopo i numerosi interventi della Consulta, ritiene ormai superata la legge 40, la quale certamente dalla sua filosofia iniziale di rimozione di cause impeditive della riproduzione è ora scivolata in una prospettiva riproduttiva che rasenta l’eugenetica. L’impianto originario, che si propone la tutela degli interessi dell’embrione e del nascituro, mantiene però, ancora due punti di riferimento importanti che di per sé giustificano la rilevanza della legge 40:

il divieto di sperimentazioni sugli embrioni e il divieto di surrogazione di maternità.

Si tratta di due norme che confermano, da un lato, la natura umana dell’embrione che, dunque, non può essere trattato alla stregua di materiale biologico strumentale a sperimentazioni e ricerche che ne intacchino le potenzialità vitali. Dall’altro, il divieto della gestazione per altri conferma il valore della dignità della maternità della donna e dell’interesse del nascituro al legame con la madre che lo ha messo al mondo.

(*) professore ordinario di Diritto privato – membro Comitato nazionale di bioetica – presidente Centro studi Scienza & Vita

 

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