In principio fu uno spettacolo, di quelli così amati e apprezzati da fare il giro del mondo. Poi la sua regista Emma Dante ha deciso di trasporlo sullo schermo, per ampliare il racconto anche alla comunità che si muove attorno al protagonista.
Un protagonista di quelli non scontati, che raramente si vedono al cinema e ancor più raramente emergono centrali nella narrazione. Si chiama Arturo, è un ragazzo disabile che viene cresciuto da due madri. Il contesto che Dante sceglie di mettere in scena è quello degli emarginati, degli ultimi, delle prostitute, di chi lotta per la sopravvivenza ogni giorno e vive con poco, pochissimo, tra baracche e rottami.
Una scelta che si spiega dando uno sguardo alla carriera della drammaturga, consacrata alla strada, con un occhio sempre attento al tema delle famiglie, puntualmente centrale nella sua narrazione – ne è esempio lampante il suo toccante film precedente Le sorelle Macaluso.
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Mescolando dolcezza e brutalità, leggerezza e gravità, Misericordia (Drammatico – Italia, 2023, 95’) pesca nel ‘mare di Sicilia’ e nel suo ‘malessere’ la verità umana, quella in carne e sangue, mai astratta e mai triviale.
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La famiglia è questa volta la collettività senza orpelli che circonda e cresce Arturo, madri che si fanno padri, fratelli e sorelle per lui. Perché non si è mai veramente orfani, né soli, se si ha accanto qualcuno che si prende cura di noi, sembra voler dire Dante. Come fanno, più o meno pazientemente, le eroine materne Betta e Nuccia (Simona Malato e Tiziana Cuticchio, bravissime).
A dare voce e corpo al protagonista c’è ancora una volta il talentuoso Simone Zambelli, generoso nell’offrire una performance straordinaria che nulla toglie alle sue folgoranti interpretazioni sul palcoscenico. Danzatore esperto, riesce a raccontare la malattia attraverso la danza, arte capace di liberare il pensiero del pubblico facendogli superare la barriera concettuale del deficit fisico e mentale e portandolo in volo verso sentimenti altri, di empatia, comprensione, benevolenza, misericordia appunto.
Il titolo evoca anche il tono di “pietas” che permea il film, malgrado una delle aperture più forti e feroci viste negli ultimi anni: una scena di violenza, un brutale femminicidio – monito a non dimenticare l’allarmante fenomeno sociale, che non accenna a diminuire –. Una scena di morte dà vita alla creatura ibrida, pura e a suo modo affascinante che è Arturo, è lui che detta il tono del film, a tratti cupo e sconfortante, a tratti pieno di luce e di speranza.
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Emma Dante esplora il sentimento della maternità e inserisce nella tradizione del neorealismo italiano una forma puramente teatrale in cui il corpo è sovrano, energia, scintilla.
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Solo così, con un misto di verosimiglianza e incanto, si può accedere a un mondo poco frequentato dal cinema italiano, quello dei derelitti, fatto di povertà, analfabetismo, degrado, nell’indifferenza più totale della società. Un mondo che in questo film viene messo in primo piano e raccontato con uno sguardo mai giudicante, mai superiore, mai verticale.
Nonostante il suo titolo, quello che firma Dante si rivela un film duro, difficile, che non fa sconti, e non cede mai il passo alla retorica, sceglie piuttosto di rievocare l’ebbrezza delle emozioni primordiali, nel bene e nel male, riportando chi lo guarda al senso ultimo dell’esistenza. La famiglia, il mare, la natura, la collettività. L’umanità e l’incanto che si possono trovare ovunque, anche tra catapecchie e immondizia, tra sassi, lamiere e prostitute vestite da principesse.
Dal letame, cantava De Andrè, nascono i fiori e anche un fiore sui generis come Arturo ha diritto a un futuro di luce, ben sintetizzato dalla canzone Avrai di Claudio Baglioni che chiude con (materna) dolcezza il film.
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