Liberazione
“Se ricordiamo le tragiche vicende della storia d’Italia non è per rinfocolare, riaprire ferite o coltivare la divisione, ma perché vani sarebbero il ricordo dei morti e dei sacrifici sofferti se gli italiani non avessero a trar profitto dagli insegnamenti delle loro esperienze”. Sembrano scritte per noi oggi queste parole pronunciate il 25 aprile del 1955 dall’allora Presidente del Consiglio Mario Scelba. La festa della Liberazione venne istituita da Alcide De Gasperi già nel 1946 (dunque prima ancora della nascita della Repubblica) per far memoria di quell’insurrezione generale che, proclamata il 25 aprile 1945, portò, a prezzo di moltissime vite umane, alla fine della sciagurata dittatura fascista e dell’odiosa occupazione nazista del nostro territorio nazionale. Non dobbiamo dimenticare che tale movimento di rivolta popolare, definito comunemente “resistenza”, vide unirsi, per il bene comune e in nome della libertà, forze e persone provenienti da esperienze e contesti sociali e culturali molto diversi, tra cui anche quella parte del mondo cattolico che sempre aveva diffidato del fascismo e delle sue lusinghe. A unire e spingere con decisione all’insurrezione gli italiani furono soprattutto le terribili stragi compiute nel 1944 dai nazifascisti: le Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazema, Marzabotto e molte altre. Secondo una precisa ricostruzione di Gianni Cisotto, furono nel territorio della nostra diocesi ben 67 in due anni (il 1944 e il 1945) le stragi e gli eccidi perpetrati da fascisti e nazisti, in cui morirono complessivamente 609 persone, tra cui il parroco di San Pietro Mussolino don Bevilacqua. Tali efferati episodi si concentrarono soprattutto nella Valle del Chiampo e nell’Alto Vicentino, con numeri assimilabili a quelli della Toscana, uno dei territori in assoluto più colpiti dai crimini connessi alla ritirata nazifascista. Senza negare o sminuire quelle che furono in taluni casi anche le colpe e le responsabilità di alcuni partigiani o presunti tali, non possiamo, come disse Scelba, dimenticare il sacrificio di chi diede la vita per la libertà e la democrazia e soprattutto dobbiamo “trar profitto” dagli errori passati per evitare che essi si ripetano. La condanna senza “se” e senza “ma” del ventennio fascista deve essere ribadita chiara e distinta da tutti coloro che occupano posti di responsabilità nelle istituzioni e da ogni cittadino che abbia a cuore il futuro della democrazia e dei valori costituzionali. Un ventennio, giova ricordarlo, che non solo si concluse nell’immane tragedia della seconda guerra mondiale, ma che si svolse interamente in un clima di intimidazione e violazione dei diritti umani (vedi la censura, le guerre coloniali e le leggi razziali) e che ancor prima era iniziato con le spedizioni punitive e con il barbaro omicidio di Giacomo Matteotti, di cui ricorre a giugno il centesimo anniversario. Tutto questo rende indegna e inaccettabile la frase che spesso si sente ancora ripetere “ma il fascismo ha fatto anche cose buone”. Un’idiozia all’ennesima potenza, pronunciata in genere da chi pensa in modo machiavellico che il fine giustifichi i mezzi e che le cose possano migliorare utilizzando la forza, mettendo un uomo o una donna forte al comando. Una tentazione pericolosissima e peraltro erronea, perché, come la storia dimostra, chi pensa (anche a fin di bene) di cambiare le cose agendo di imperio e calpestando la dignità e la libertà altrui, immancabilmente, magari dopo un primo apparente successo, fa una brutta fine. Il 25 aprile ci mette in guardia, a tutti i livelli, da tale tentazione e ci ricorda che l’impegno e la lotta per un mondo migliore passano sempre attraverso la fatica del dialogo e la tutela della dignità e della libertà di ciascuno. In un mondo segnato da guerre e pericolosi rigurgiti autoritari pare una sfida quanto mai necessaria e attuale.
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