Benessere equo e sostenibile: chi più studia è meno esposto al disagio economico, male il confronto con l’Europa
Arrivano nel complesso segnali positivi dal Rapporto dell’Istat sul Benessere equo e sostenibile (Bes), ma se si entra nel dettaglio dei singoli indicatori (in totale 152, per oltre la metà aggiornati al 2023) emergono lacune anche gravi e disuguaglianze pesanti tra i territori e in rapporto all’Europa.
Rispetto al 2022, poco più della metà degli indicatori per cui è possibile un confronto registra un miglioramento, il 17,8% risulta stabile e il 28,7% mostra il segno negativo. “Ambiente” e “Sicurezza” sono i domini in cui le dinamiche sono meno positive. L’andamento è complessivamente favorevole anche nei confronti del periodo pre-Covid: rispetto al 2019 sono migliorati 67 indicatori su 131, 24 sono rimasti stabili ma ben 40 sono peggiorati. “Paesaggio” e “Relazioni sociali” sono i campi con la maggiore quota di indicatori in arretramento.
L’analisi dei singoli domini fornisce gli elementi più stimolanti e significativi anche per le decisioni della politica. Emerge con forza, per esempio, il ruolo decisivo della formazione e dell’istruzione. Un titolo di studio più elevato corrisponde chiaramente a una maggiore protezione dal disagio economico. La popolazione con i titoli più bassi è in svantaggio per 49 indicatori su 60. Il confronto negativo “è particolarmente marcato per la percentuale di occupati che lavorano da casa”, sottolinea l’Istat. L’incidenza della povertà assoluta è del 13,6% per chi ha al massimo la licenza media e scende al 2,2% per chi ha la laurea o un titolo equivalente.
Per quanto riguarda il genere, le donne sono svantaggiate per 38 degli 88 indicatori pertinenti. Manco a dirlo, è nel campo “Lavoro e conciliazione dei tempi di vita” che i dati sono più negativi (7 indicatori su 12), così come pure in materia di sicurezza percepita. Sono invece 27 gli indicatori per i quali la condizione femminile è più favorevole e sono concentrati nei comparti “Salute” e “Istruzione e formazione”.
A livello di territori, purtroppo, nessuna novità: anche gli indicatori di Bes confermano il divario tra Centro-Nord e Sud. Spiega l’Istat: “Classificando le regioni italiane in cinque classi di benessere relativo (bassa, mediobassa, media, medioalta e alta), le regioni del Nord-est si caratterizzano per i maggiori livelli di benessere, con oltre la metà degli indicatori nelle due classi più elevate e non più di un quinto nelle due classi di coda”, mentre “per le regioni del Mezzogiorno la situazione si inverte, con oltre il 55% degli indicatori nelle classi bassa e medio-bassa (circa il 70% in Campania e Sicilia)”.
Va male il confronto con l’Europa, possibile per 38 indicatori: l’Italia è in svantaggio in 25 di essi. Ma ci sono eccezioni importanti nei domini “Sicurezza”, “Salute” e “Ambiente”, dove i livelli di benessere del nostro Paese sono migliori della media Ue per tutti e 7 gli indicatori disponibili.
Tra le differenze più rilevanti l’Istat segnala “il tasso di omicidi che in Italia è ben al di sotto della media dei 27 Paesi (0,5 per 100mila abitanti nel 2021 rispetto a 0,8); la mortalità evitabile della popolazione italiana di 0-74 anni che è di oltre 10 punti più bassa del valore medio Ue27 (19,2 rispetto a 29,4 per 10mila); la speranza di vita alla nascita (82,8 anni in Italia contro 80,6 nell’Ue27 nel 2022)”. Nel campo “Benessere economico”, l’Italia è sotto la media europea per la “grave deprivazione materiale e sociale”, ma tutti gli altri indicatori registrano una situazione sfavorevole, con i divari maggiori per la bassa intensità lavorativa (Italia 9,8%, Ue 8,3%) e il rischio povertà (Italia 20,1%, Ue 16,5%). Nessun indicatore si avvicina alla media europea nel dominio “Innovazione, ricerca e creatività” e tutte le misure di “Istruzione e formazione” sono sotto la media dei 27. Cattive notizie dal comparto occupazionale: l’Istat rileva che il tasso di mancata partecipazione al lavoro (14,8%) supera di quasi sei punti la media Ue (8,7%) e invece il tasso di occupazione è di 9,1 punti più basso. La percentuale di persone in part time involontario (10,2% nel 2022), nonostante sia in calo da quattro anni, è quasi il triplo della media dell’Unione (3,6%).
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