L’Assegno di inclusione lascia fuori i lavoratori poveri. “Dietro le 600mila domande rifiutate ci sono i paletti più rigidi e inefficienze burocratiche”
L’Assegno di inclusione lascia fuori i lavoratori poveri. “Dietro le 600mila domande rifiutate ci sono i paletti più rigidi e inefficienze burocratiche”
Costretto da un question time del Movimento Cinque Stelle a comunicare i dati sull’Assegno di inclusione, giovedì scorso il governo ha dovuto ammettere – implicitamente – che c’è più di un problema con la misura che da gennaio ha sostituito il Reddito di cittadinanza: malgrado oltre 1,2 milioni di domande, le famiglie che lo stanno ricevendo sono solo 590mila, ancora lontane dalle 737mila che rappresentavano il target più volte ribadito dalla ministra del Lavoro Marina Calderone. Nel giustificarsi, il sottosegretario Claudio Durigon (Lega) si è giocato il jolly: “A differenza di quanto avveniva precedentemente con il Reddito di cittadinanza – ha detto – il controllo sul possesso dei requisiti ora avviene preventivamente”.
Insomma, Durigon vuole far credere che i furbetti riuscivano a eludere le verifiche sul Reddito di cittadinanza, mentre ora vengono bloccati tutti a monte. Non è esattamente così: il motivo dell’alto numero di domande rigettate è anche nel fatto che i requisitidi accesso alla misura sono stati resi molto più stringenti, ben oltre le comunicazioni degli scorsi mesi. Ricorderanno tutti, infatti, che è stato spesso detto che i beneficiari del Rdc con anziani, minori o disabili nel nucleo familiare avrebbero mantenuto il sostegno. Non era vero, perché molte di queste famiglie hanno comunque perso l’aiuto per il nuovo requisito di reddito.
Facciamo qualche esempio: con il Reddito di cittadinanza, una famiglia formata da due maggiorenni e un minore con massimo 9.360 euro di Isee poteva prendere il sussidio a patto di non superare gli 800 euro mensili di reddito. Infatti, il “capofamiglia” valeva 500 euro, il secondo componente maggiorenne altri 200 e il minore 100. Con la scala di equivalenza dell’Adi, invece, il secondo componente maggiorenne vale zero, il minore 75 euro. Quindi ora la soglia si è abbassata a 575 euro. Anche a parità di Isee, e anche avendo il minore nel nucleo, ora questa famiglia rimane senza sussidio se supera 575 euro di reddito mensile. Questo tra l’altro che cosa significa Che a essere colpite sono soprattutto le famiglie di lavoratori poveri, perché appunto hanno un qualche reddito da lavoro seppure insufficiente. Insomma, la riforma non ha affatto colpito i furbetti e i presunti “divanisti”: ha penalizzato quelli che si danno da fare. E visto che la situazione occupazionale è decisamente migliore al Nord, le famiglie tagliate fuori sono soprattutto settentrionali.
Ecco quindi una spiegazione all’alto numero di domande rigettate. “Probabilmente c’è stata una cattiva informazione – spiega Enrica Morlicchio, sociologa dell’Università Federico II di Napoli – molte persone hanno fatto domanda sperando di poter rientrare ugualmente nella misura. L’Adi ha introdotto una serie di prassi aggiuntive, requisiti aggiuntivi per i senza dimora, la modifica della scala di equivalenza. I servizi sociali dei Comuni, poi, lamentano che il ministero del Lavoro ha scaricato tutto su di loro”.
Insomma, la propaganda governativa sui furbetti stanati a monte nasconde una serie di fattori, che partono dall’aggravamento dei paletti e arrivano a una serie di inefficienze burocratiche. Anche qui, Durigon ha provato a mettere le mani avanti: “Tengo a precisare – ha detto in commissione – che i dati sono in costante aggiornamento poiché entrambe le misure (Adi e Sfl) sono state istituite di recente e sono ancora migliaia le domande che continuano giornalmente ad affluire nei sistemi Inps”. Secondo Morlicchio questa giustificazione è “a dir poco imbarazzante”. “Assolutamente ingiustificabile – spiega la docente – l’Adi è entrato in vigore il primo gennaio e il Supporto formazione lavoro addirittura il primo settembre 2023, sono passati diversi mesi”. “Ancora meno giustificabile – aggiunge – è l’affermazione che le domande continuano a confluire: in statistica ci sono dati di stock e dati di flusso”. Quanto al Supporto lavoro e formazione (Sfl), il bonus da 350 euro destinato agli “occupabili” che seguono corsi di formazione, i dati parlano di 60mila beneficiari su una platea potenziale di 250mila, e 63mila domande respinte. Anche qui, alla professoressa Morlicchio risultano ritardi tra i quali quelli legati alla partenza dei corsi di recupero della scuola dell’obbligo.
Un altro mantra ripetuto dal governo per motivare i bassi numeri di Adi e Sfl riguarda i dati in miglioramento sull’occupazione. Pochi giorni fa, però, l’Istat ha rilevato che la povertà è aumentata proprio tra le famiglie che hanno persone di riferimento occupate come dipendenti. “I numeri vanno letti nella loro complessità – avverte Morlicchio – perché una parte degli occupati che crescono è fatta da persone che sarebbero andate in pensione e invece non l’hanno fatto per l’aumento dei requisiti. Vediamo che aumentano le situazioni ai margini del mercato del lavoro: soggetti con basse credenziali educative, over 50 espulsi da piccole fabbriche o che svolgevano piccole attività autonome che non hanno retto la pandemia, donne con bassissime qualifiche”. La docente lamenta in generale la difficoltà ad accedere ai dati sulle nuove misure anti-povertà. “Non fornirli è anti-scientifico e anti-democratico”. E, per chiudere, cita una stima della Banca d’Italia secondo cui, dimezzando la platea dei beneficiari da 1,2 milioni a 600mila, si va incontro a un aumento della povertà assoluta di 0,8 punti.
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LAVORO & PRECARI
L’Assegno di inclusione lascia fuori i lavoratori poveri. “Dietro le 600mila domande rifiutate ci sono i paletti più rigidi e inefficienze burocratiche”
Costretto da un question time del Movimento Cinque Stelle a comunicare i dati sull’Assegno di inclusione, giovedì scorso il governo ha dovuto ammettere – implicitamente – che c’è più di un problema con la misura che da gennaio ha sostituito il Reddito di cittadinanza: malgrado oltre 1,2 milioni di domande, le famiglie che lo stanno ricevendo sono solo 590mila, ancora lontane dalle 737mila che rappresentavano il target più volte ribadito dalla ministra del Lavoro Marina Calderone. Nel giustificarsi, il sottosegretario Claudio Durigon (Lega) si è giocato il jolly: “A differenza di quanto avveniva precedentemente con il Reddito di cittadinanza – ha detto – il controllo sul possesso dei requisiti ora avviene preventivamente”.
Insomma, Durigon vuole far credere che i furbetti riuscivano a eludere le verifiche sul Reddito di cittadinanza, mentre ora vengono bloccati tutti a monte. Non è esattamente così: il motivo dell’alto numero di domande rigettate è anche nel fatto che i requisiti di accesso alla misura sono stati resi molto più stringenti, ben oltre le comunicazioni degli scorsi mesi. Ricorderanno tutti, infatti, che è stato spesso detto che i beneficiari del Rdc con anziani, minori o disabili nel nucleo familiare avrebbero mantenuto il sostegno. Non era vero, perché molte di queste famiglie hanno comunque perso l’aiuto per il nuovo requisito di reddito.
Facciamo qualche esempio: con il Reddito di cittadinanza, una famiglia formata da due maggiorenni e un minore con massimo 9.360 euro di Isee poteva prendere il sussidio a patto di non superare gli 800 euro mensili di reddito. Infatti, il “capofamiglia” valeva 500 euro, il secondo componente maggiorenne altri 200 e il minore 100. Con la scala di equivalenza dell’Adi, invece, il secondo componente maggiorenne vale zero, il minore 75 euro. Quindi ora la soglia si è abbassata a 575 euro. Anche a parità di Isee, e anche avendo il minore nel nucleo, ora questa famiglia rimane senza sussidio se supera 575 euro di reddito mensile. Questo tra l’altro che cosa significa Che a essere colpite sono soprattutto le famiglie di lavoratori poveri, perché appunto hanno un qualche reddito da lavoro seppure insufficiente. Insomma, la riforma non ha affatto colpito i furbetti e i presunti “divanisti”: ha penalizzato quelli che si danno da fare. E visto che la situazione occupazionale è decisamente migliore al Nord, le famiglie tagliate fuori sono soprattutto settentrionali.
Ecco quindi una spiegazione all’alto numero di domande rigettate. “Probabilmente c’è stata una cattiva informazione – spiega Enrica Morlicchio, sociologa dell’Università Federico II di Napoli – molte persone hanno fatto domanda sperando di poter rientrare ugualmente nella misura. L’Adi ha introdotto una serie di prassi aggiuntive, requisiti aggiuntivi per i senza dimora, la modifica della scala di equivalenza. I servizi sociali dei Comuni, poi, lamentano che il ministero del Lavoro ha scaricato tutto su di loro”.
Insomma, la propaganda governativa sui furbetti stanati a monte nasconde una serie di fattori, che partono dall’aggravamento dei paletti e arrivano a una serie di inefficienze burocratiche. Anche qui, Durigon ha provato a mettere le mani avanti: “Tengo a precisare – ha detto in commissione – che i dati sono in costante aggiornamento poiché entrambe le misure (Adi e Sfl) sono state istituite di recente e sono ancora migliaia le domande che continuano giornalmente ad affluire nei sistemi Inps”. Secondo Morlicchio questa giustificazione è “a dir poco imbarazzante”. “Assolutamente ingiustificabile – spiega la docente – l’Adi è entrato in vigore il primo gennaio e il Supporto formazione lavoro addirittura il primo settembre 2023, sono passati diversi mesi”. “Ancora meno giustificabile – aggiunge – è l’affermazione che le domande continuano a confluire: in statistica ci sono dati di stock e dati di flusso”. Quanto al Supporto lavoro e formazione (Sfl), il bonus da 350 euro destinato agli “occupabili” che seguono corsi di formazione, i dati parlano di 60mila beneficiari su una platea potenziale di 250mila, e 63mila domande respinte. Anche qui, alla professoressa Morlicchio risultano ritardi tra i quali quelli legati alla partenza dei corsi di recupero della scuola dell’obbligo.
Un altro mantra ripetuto dal governo per motivare i bassi numeri di Adi e Sfl riguarda i dati in miglioramento sull’occupazione. Pochi giorni fa, però, l’Istat ha rilevato che la povertà è aumentata proprio tra le famiglie che hanno persone di riferimento occupate come dipendenti. “I numeri vanno letti nella loro complessità – avverte Morlicchio – perché una parte degli occupati che crescono è fatta da persone che sarebbero andate in pensione e invece non l’hanno fatto per l’aumento dei requisiti. Vediamo che aumentano le situazioni ai margini del mercato del lavoro: soggetti con basse credenziali educative, over 50 espulsi da piccole fabbriche o che svolgevano piccole attività autonome che non hanno retto la pandemia, donne con bassissime qualifiche”. La docente lamenta in generale la difficoltà ad accedere ai dati sulle nuove misure anti-povertà. “Non fornirli è anti-scientifico e anti-democratico”. E, per chiudere, cita una stima della Banca d’Italia secondo cui, dimezzando la platea dei beneficiari da 1,2 milioni a 600mila, si va incontro a un aumento della povertà assoluta di 0,8 punti.