Su Netflix “Ripley” e “Il fabbricante di lacrime”, su Apple TV+ il doc “Steve! (Martin)”
Novità in piattaforma. Anzitutto su Netflix la miniserie “Ripley” scritta e diretta dal Premio Oscar Stevan Zaillian, nuovo adattamento del thriller di taglio psicologico di Patricia Highsmith del 1955. Con uno splendido ed efficace bianco e nero, la serie ci conduce nella mente astuta e contorta di un truffatore americano che si sposta tra Napoli, Roma e Venezia. Oltre alla potenza stilistico-visiva, la serie poggia su un ottimo cast di cui è capofila Andrew Scott. Sempre su Netflix troviamo il film “Il fabbricante di lacrime”, adattamento del bestseller d’esordio di Erin Doom (scrittrice italiana sotto pseudonimo), edito da Salani. Alla regia Alessandro Genovesi, protagonisti i giovani Caterina Ferioli e Simone Baldasseroni (in arte “Biondo”): un racconto di formazione che sconfina nel romance a pennellate cupe, sul tracciato di topos letterari come “Romeo e Giulietta” a “Twilight”. A lasciare il segno sono le musiche di Andrea Farri. Infine, su Apple TV+ c’è “Steve! (Martin). Documentario in 2 parti” del Premio Oscar Morgan Neville. Un tributo al talento del grande stand-up comedian, attore e musicista Steve Martin: un viaggio tra tornanti familiari e professionali, compresi lati inediti della sua biografia come la passione per l’arte, l’amore per il fumetto e la gioia della paternità. Da non perdere! Il punto Cnvf-Sir.
“Ripley” (Netflix, dal 04.04)
Nel 1955 la scrittrice statunitense Patricia Highsmith ha dato alle stampe “Il talento di Mr. Ripley”, primo capitolo di un fortunato ciclo di gialli dedicato a Tom Ripley, enigmatico e dolente truffatore che vive assorbendo identità altrui, pronto a spingersi anche nei territori del male pur di salvarsi. Tra i vari adattamenti si ricorda l’elegante versione da Oscar firmata nel 1999 da Anthony Minghella con Matt Damon e Jude Law. A distanza di venticinque anni Netflix ne propone una nuova versione nella formula della miniserie: è “Ripley” del geniale Steven Zaillian, veterano della sceneggiatura – Oscar per il copione di “Schindler’s List” (1993), autore anche di “Gangs of New York” (2002) e “Moneyball” (2011) – che qui firma anche la regia. Ottima la composizione del cast: Andrew Scott, Johnny Flynn, Dakota Fanning, Maurizio Lombardi, Margherita Buy e John Malkovich.
La storia. New York, inizio anni 1960, Tom Ripley vive di furbizie e sotterfugi. Un giorno viene contattato dalla facoltosa famiglia Greenleaf perché si rechi in Italia sulle tracce del loro figlio Dickie, che non ne nuove sapere di tornare negli Stati Uniti per seguire gli affari di famiglia. Tom Ripley arriva a Napoli e poi dritto in Costiera, dove orchestra un incontro casuale con Dickie e la sua fidanzata Marge. Dalla complicità iniziale tra i due, si passa rapidamente a un certo sospetto da parte del giovane benestante; questo spingerà Tom a decisioni irreparabili…
Punto di forza della serie “Ripley” sono proprio la regia e la scrittura di Steven Zaillian, quel suo stile così intenso, asciutto e magnetico che aggancia lo spettatore con un racconto dall’andamento feroce e drammatico, confezionato però con estrema eleganza. Ammantato da un sontuoso bianco e nero, Zaillian mette in campo un viaggio fisico e interiore del protagonista: la scoperta della bellezza paesaggistica e artistica in Italia accostata però a una discesa dell’animo nel male, un avvitarsi nella vertigine della perdizione e scarnificazione di sé. Tom Ripley è un esteta, vive il suo viaggio in Italia in cerca del bello, e per ottenerlo non esita a truffare, uccidere e camuffarsi. Non ha paura di perdersi (moralmente), perché si sente già sconfitto in partenza. Tematicamente insidioso e sfidante, “Ripley” conquista però per la sua modalità di racconto, per quel raffinato stile visivo, in sottrazione, che validi interpreti esaltano al meglio. Su tutti brilla un magnifico Andrew Scott, abile nel rendere il tormento interiore, sottopelle, del protagonista e al tempo stesso una lucida calma, feroce, con cui governa le sue azioni spregiudicate. Serie complessa, problematica, per dibattiti.
“Il fabbricante di lacrime” (Netflix, dal 04.04)
Alla base c’è un fenomeno editoriale da oltre 500 mila copie, al vertice della classifica nel 2022. Parliamo del romanzo “Il fabbricante di lacrime” (edito da Salani) della scrittrice italiana sotto pseudonimo Erin Doom. Dato il fragore mediatico, cinema e Tv non potevano rimanerne indifferenti: dal 4 aprile arriva su Netflix il film omonimo per la regia di Alessandro Genovesi – sue le commedie “10 giorni senza mamma” (2019) e “7 donne e un mistero” (2021) –, prodotto da Colorado Film – Rainbow. A firmare l’adattamento è lo stesso Genovesi insieme a Eleonora Fiorini. Protagonisti Caterina Ferioli, Simone Baldasseroni (noto anche come “Biondo”), Alessandro Bedetti, Sabrina Paravicini, Orlando Cinque e Roberta Rovelli.
La storia. L’adolescente Nica, rimasta orfana da bambina, vive in attesa di una famiglia adottiva nell’orfanatrofio detto “Grave”: un luogo di solitudine e sofferenze, impartite soprattutto dall’algida direttrice Margaret. Un giorno si presentano lì Norman e Anna, coppia che chiede in affidamento proprio Nica. Insieme a lei, però, accolgono in casa un altro ragazzo della struttura, lo scontroso ed enigmatico Rigel. Nica e Rigel non hanno mai legato al Grave, ora però sono chiamati a una convivenza forzata che avrà inaspettati riflessi…
“Il fabbricante di lacrime” è film-romanzo di formazione a tinte romance con venature da mistery-thriller. Cuore narrativo è il legame a corrente alternata tra gli adolescenti Nica e Rigel, prima “nemici”, poi chiamati a condividere lo stesso spazio familiare e infine protagonisti di un sentimento inaspettato, di un amore giovanile travolgente. Gli ingredienti sono quelli del romance a tinte fosche, dell’amore impossibile che genera trasporto: tra gli evidenti riferimenti i classici “Romeo e Giulietta” e “Cime tempestose”, così come titoli della contemporaneità addizionati di fantastico alla “Twilight”.
Del film funziona di certo l’atmosfera, la cura della messa in scena e la costruzione del cast, un po’ meno la struttura e la solidità del racconto: la vis della narrazione sembra infatti cedere il passo qua e là alla suggestione, all’efficacia della dimensione estetica (dialoghi non sempre a fuoco, inciampando in frasi-slogan o scivolate mielose, qua e là soluzioni marcate da furbizia). A fare centro, però, è la colonna sonora, le musiche composte dal sempre bravo Andrea Farri (“Petra”, “Dieci minuti”). Film complesso, problematico, per dibattiti.
“Steve! (Martin). Documentario in 2 parti” (Apple TV+, dal 29.03)
Steve Martin, classe 1945, è una delle colonne della comicità “a stelle e strisce”. Nella sua lunga e versatile carriera è stato sempre un fuoriclasse della risata, tra stand-up comedy, attore capofila tra cinema, Tv e teatro, con una chiara abilità nella scrittura e come musicista. Un talento a tutto tondo. Quasi alla soglia degli ottant’anni arriva un doc a celebrarlo: “Steve! (Martin). Documentario in 2 parti” del Premio Oscar Morgan Neville su Apple TV+.
Il doc si divide in due sezioni. La prima (“Then”) racconta le origini dell’artista, dall’infanzia con poca tenerezza in famiglia e un desiderio di evasione accesso da giochi di illusionismo e lavoretti presso Disneyland, all’esordio sorprendente in spettacoli live, come stand-up comedian. Nella seconda parte (“Now”), vengono passati in rassegna i titoli cult tra cinema e Tv come “Ho sposato un fantasma” (1984), “I tre amigos!” (1986), “Roxanne” (1987), “Il padre della sposa” (1991) fino al recente “Only Murders in the Building” (Disney+, 2021-23). Ma occupare il cuore della narrazione sono l’amicizia con Martin Short e Tina Fey e soprattutto la scoperta dell’amore con la scrittrice Anne Stringfield, che gli ha permesso di diventare padre in tarda età. Un’esperienza travolgente, che ha ridefinito le ascisse e ordinate del suo vivere.
Oltre a questo svelamento della dimensione sentimentale, familiare, a colpire nel doc è anche l’onestà con cui Steve Martin si racconta, rivelando la malinconia che lo ha sempre accompagnato (dall’infanzia) e il bisogno di trovare conforto nell’arte, nella pittura. Emozionante è il passaggio in cui sottolinea come è cambiato nel tempo il suo sguardo su un dipinto di Edward Hopper (The Lighthouse), traccia di una chiara svolta interiore. Il documentario ha una durata abbastanza importante, 180 minuti, ma il racconto corre veloce, brillante e acuto, persino commovente in alcuni passaggi. Il ritratto di un grande artista della risata, molto amato Oltreoceano ma non solo. Consigliabile, brillante, per dibattiti.
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