Fare Pasqua in Mongolia, dove tutto concorre a recuperare la freschezza della fede
La Settimana Santa è vissuta in Mongolia come un tempo veramente forte, speciale, unico. Per almeno due anni i catecumeni adulti si sono preparati a questo momento, il passaggio fondamentale della loro vita. Accompagnarli in questo cammino aiuta noi missionari a rivivere lo stupore e la radicalità di questo mistero. In questo senso l’essere qui con questi fratelli e sorelle che desiderano accogliere liberamente nella loro vita la morte e risurrezione di Cristo ci sprona a fare nostra la celebrazione, a viverla con intensità e rinnovata consapevolezza.
La Domenica di Passione vede le nostre comunità agitare esili rametti di conifere (palme e ulivi sono troppo lontani), che stanno appena riprendendosi dal lungo inverno. Le modeste processioni – sempre svolte solo all’interno degli spazi riconosciuti dalle autorità – sono spesso sferzate da venti freddi e polverosi. Qui la primavera è la stagione più difficile, con improvvisi sbalzi di temperatura, gli armenti indeboliti e le persone provate nel corpo. Il mistero della nostra rigenerazione avviene nel momento più critico del ciclo naturale, quasi come se Nostro Signore avesse scelto proprio questa stagione per raggiungere il punto più basso della nostra povera umanità.
La celebrazione della Messa Crismale anticipata al martedì rappresenta un importante appuntamento per i sacerdoti che giungono anche dalle postazioni più lontane. Rinnovano le promesse sacerdotali in una cattedrale con pochi fedeli e alcune religiose. Poi sostiamo per una breve riflessione sul mistero del sacerdozio ordinato e consumiamo gioiosamente il pranzo. Il rientro nelle parrocchie deve avvenire in tempi ristretti, per evitare i rischi delle strade ancora ghiacciate.
Ogni parrocchia vive il Triduo Santo curando bene le liturgie e ospitando il vescovo, che cerca di farsi presente almeno nelle comunità della capitale. Arriva la notte santa. Il fuoco scoppietta all’interno dell’alare tradizionale, simbolo della famiglia. Tutt’intorno il traffico congesto e le luci intermittenti della città, per lo più ignara di quanto sta accadendo. La cattedrale a forma di ger (la tenda mongola) è avvolta nel buio, che si dirada all’ingresso della processione con il cero e le candele dei fedeli. L’exsultet è cantato in lingua mongola; con le sue immagini poetiche, ricorda le composizioni liriche della tradizione locale. Da lì a poco i catecumeni si avvicineranno al fonte battesimale e vestiranno il bianco della vita nuova; qualcuno arriva con il deel (abito tradizionale) fatto apposta per l’occasione. Qualche lacrima di commozione, molto contegno e tanta gioia, anche senza grandi manifestazioni esteriori.
Vissuti così, i giorni santi della Pasqua sono una vera benedizione anche per chi ha già camminato più a lungo nella fede.
Tutto concorre a ricuperare la freschezza della fede. Il lunedì dell’Angelo ci troviamo con i missionari e le missionarie a Khandgait, nei boschi appena fuori Ulaanbaatar, dove la Prefettura Apostolica ha una casa di spiritualità. Celebriamo in una piccola cappella tutta in legno, scaldata dal giorno prima per l’occasione. Qualche anno nevica abbondantemente, altre volte brilla il sole primaverile. Ciascuno di noi si sente profondamente cambiato dall’esperienza dei giorni precedenti e lodiamo il Risorto per i nuovi membri della comunità che sono rinati a vita nuova nelle acque del battesimo. Nelle orecchie e nel cuore la domanda di Gesù dopo aver lavato i piedi ai suoi: “Capite quello che ho fatto per voi?” (cfr. Gv 13,12). Non capiremo mai fino in fondo, ma i giorni della Pasqua ci aiutano proprio in questo ritornare sempre e di nuovo alla dimensione sorgiva della nostra fede. E a riaccendere quel fuoco che bruciava nel petto dei discepoli di Emmaus, disposti ora a muovere gioiosamente i loro passi verso il mondo in attesa dell’annuncio che ha cambiato la storia.
(*) cardinale e prefetto apostolico di Ulan Bator
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