Attentato a Mosca, il risveglio terrorista non è un problema soltanto russo
Centinaia tra morti e feriti. Un bilancio ancora provvisorio, tendente al rialzo, quello della strage al Crocus City Hall del quartiere Krasnogorsk, nella periferia di Mosca. Il commando – forse quattro membri in mimetica – ha fatto irruzione con fucili d’assalto falcidiando le vittime in attesa del concerto in programma. Per poi appiccare le fiamme con ordigni incendiari e darsi alla fuga. Il tutto denotando un elevato grado di preparazione militare.
L’attentato ha rigettato la Russia nell’incubo che, dal 1999 al 2017, ha accompagnato la sequenza di 11 eccidi forieri di poco meno di 800 morti ricondotti, con o senza rivendicazione, ai separatisti ceceni. Allo sgomento della popolazione russa si è unito il fiato sospeso di quanti hanno temuto di assistere alla scintilla di una ben più estesa deflagrazione, stante l’escalation militaristica delle esternazioni alla vigilia dell’ultimo Consiglio europeo.
La rivendicazione dell’Isis Khorasan, intervenuta nelle ultime ore, è servita a distogliere gli sguardi da Kiev, che subito aveva respinto ogni addebito, indicando anzi in Putin l’architetto di una “false flag”. Identica la versione del Corpo dei volontari russi, cui pure taluni avevano pensato, tornando ai sospetti sulle morti di Darya Dugina e Vladlen Tatarsky, in diversi ambienti ricondotte al gruppo paramilitare popolato dalla galassia del fuoriuscitismo neonazista in passato già attenzionato dalle stesse intelligence occidentali. Eppure, la strage di ieri non sarebbe funzionale a chi vuole accreditarsi quale giustiziere della tirannide putiniana. Anzi, in una fase bellica positiva per il Cremlino, un simile attacco contro i civili rafforzerebbe il consenso del leader, come ebbero modo di riconoscere nel loro carteggio Churchill e Roosevelt, che iniziarono a discutere dei bombardamenti sulle città dell’Asse per accelerare la capitolazione di Hitler e Mussolini (stimolando le sollevazioni e la resistenza popolari) soltanto quando i loro eserciti iniziarono a collezionare sconfitte.
La rivendicazione dell’Isis-K sembrerebbe dirimente, ma soltanto le prossime ore potranno dirci quanto la Fsb e soprattutto il Cremlino saranno disposti ad avvalorarla. A favore pesa il riscontro del 7 marzo, quando l’ambasciata Usa aveva intimato ai cittadini statunitensi a Mosca di tenersi lontani da luoghi di assembramento, facendo seguito alla notizia dei servizi russi su un attentato sventato alla sinagoga moscovita, pianificato da una cellula della sedicente Wilayat Khorasan.
Peraltro a poche settimane fa risalgono le operazioni antiterrorismo condotte in Inguscezia, a seguito della scoperta di alcuni covi collegati alla stessa sigla, che persegue a costituire il califfato comprendente Afghanistan, Pakistan, Iran, diverse ex Repubbliche sovietiche e altre dell’attuale Federazione russa, la quale pure si fregia della concordia pluriconfessionale sancita dal suo ordinamento. E che conta sulla collaborazione delle leadership islamiche in Daghestan e Cecenia, già teatro di due sanguinose guerre che opposero le truppe russe alle milizie separatiste sostenute da un gran numero di salafiti accorsi dall’estero e mai completamente sradicati dall’area.
D’altro canto, rileva il tempismo con cui Isis-K si inserisce negli odierni teatri bollenti: si ricorderà la controversa rivendicazione con cui essa si intestò la strage di Kerman nel gennaio scorso, colpendo l’Iran quando a Washington v’era chi premeva il grilletto direttamente contro la Repubblica islamica, per via del sostegno all’Asse della Resistenza anti-israeliana che la collega a Huthi ed Hezbollah. Tempismo che oggi invece attiene alla non casuale scelta di colpire il “raduno di cristiani russi” – così stranamente recita il testo diramato – all’indomani del trionfo elettorale di Putin: una scelta di metro politico che suona a eclatante richiamo alle armi per una rinnovata insorgenza nel Caucaso settentrionale, intercettando l’interesse di soggetti che, pur tra loro estranei, sarebbero parimenti agevolati da un impegno militare russo diviso su più fronti, pareggiando i conti con l’affanno degli Usa su diversi versanti. Con l’attesa di ottenere vantaggi dai torbidi di una destabilizzazione regionale ricercata provocando il pugno duro di Mosca.
Al di là delle mistificazioni e degli sciacallaggi promovibili dai falchi di qualsiasi sponda, l’auspicio è che proprio questo ennesimo trauma induca i maggiorenti della scena internazionale a placare le eccitazioni belligere. E tornino a ricordare, se non altro in chiave strategica, l’interdipendenza delle vulnerabilità – Bataclan è solo una delle parole evocative – allargate dalla miopia dell’oltranzismo che soverchia il lume della responsabilità politica e della diplomazia.
* Pontificia Università Lateranense
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