Alla scuola di Tommaso d’Aquino, maestro di umanità, a 750 anni dalla sua scomparsa
La vivace e mai spenta attualità del pensiero di Tommaso d’Aquino, maestro di tutti noi, si può mostrare in tanti modi e a partire da tante tematiche da lui affrontate nel suo percorso speculativo. Senza voler cedere alla tentazione neoscolastica, che porterebbe a ritenere il più grande pensatore italiano di tutti i tempi capace di risolvere tutti i problemi, anche quelli che la modernità e la post(neo)modernità pongono a tutti e a ciascuno di noi, mi sembra di poter segnalare tre aspetti, a mio avviso profondamente fecondi, del suo pensiero che interpellano il nostro presente.
Il primo lo traggo da una preziosa indicazione dell’enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio, che al n. 43 afferma: “Un posto tutto particolare in questo lungo cammino spetta a san Tommaso, non solo per il contenuto della sua dottrina, ma anche per il rapporto dialogico che egli seppe instaurare con il pensiero arabo ed ebreo del suo tempo. In un’epoca in cui i pensatori cristiani riscoprivano i tesori della filosofia antica, e più direttamente aristotelica, egli ebbe il grande merito di porre in primo piano l’armonia che intercorre tra la ragione e la fede”. Il dialogo-confronto con pensieri e prospettive diversi dalla propria è elemento fondamentale di una teologia che possa parlare al proprio tempo e anche a trascenderlo, offrendoci una prospettiva di metodo di imprescindibile attualità.
Il fatto che Tommaso, come ci ha insegnato Marie-Dominique Chenu, sia soprattutto se non esclusivamente “teologo”, non ci impedisce anzi consente di cogliere la suggestiva e profonda valenza antropologica del suo pensiero e quindi la sua radicale “umanità”. Penso a tal proposito innanzitutto alla sua concezione unitaria dell’essere umano, per la quale, proprio in dialogo col pensiero aristotelico, sostiene, in una sorta di contrapposizione al dominante platonismo, che l’anima e il corpo non sono due sostanze che si affiancano nella natura dell’uomo, bensì la persona è unica sostanza, composta di materia (il corpo) e forma (l’anima), sicché è nota la sua concezione dell’anima umana come unica “forma sostanziale” del corpo. Tesi all’epoca decisamente rivoluzionaria, che non gli risparmiò delle critiche feroci da parte di chi riteneva che in tal modo venisse a negarsi la sopravvivenza della dimensione spirituale dell’uomo oltre la morte corporale. Anche le critiche gli consentirono di esplicitare meglio il proprio pensiero e di mostrarne l’assoluta coerenza con la rivelazione.
Inoltre, in particolare in rapporto al pensiero d’ispirazione islamica, quale quello del grande Averroè, che Dante pone nel limbo come colui che “’l gran commento feo” (Inferno IV, 144), in quanto, grazie anche a lui il pensiero metafisico di Aristotele penetrò nell’occidente cristiano del XII e XIII secolo, possiamo intercettare – sempre a livello della concezione dell’umano – una grande lezione particolarmente attuale. Mi riferisco all’opuscolo tommasiano intitolato Sull’unità dell’intelletto, contro gli averroisti parigini (1270). Qui il dottore angelico contesta in maniera radicale la tesi dei seguaci del filosofo islamico secondo cui l’anima intellettiva sarebbe unica e comune a tutti gli individui della specie umana, sicché, diremmo noi oggi, pensiamo tutti con la stessa testa. Tommaso insiste al contrario sulla tesi opposta, secondo la quale “è quest’uomo [singolo e concreto] che pensa” (hic homo intelligit), affermando in tal modo la dignità della persona come essere pensante. Ed è proprio su tale fondata e fondamentale convinzione che poggia l’antropologia di noi credenti, ma anche di quanti, con onestà intellettuale, non intendano negare l’evidenza. Dall’unità all’unicità dell’essere umano il passaggio è naturale oltre che tommasianamente realistico. Una visione dell’uomo che si pone con la convinzione di essere pensante anche contro (adversus direbbe il Nostro) un’intelligenza artificiale, superindividuale e comune a tutta l’umanità, la quale, se ritenuta in conflitto con l’individualità personale di cui ciascuno di noi è soggetto, rischia di risultare disumanizzante e alienante.
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