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Molise. Influenza dell’uomo sull’ambiente: meticoloso studio del professor Guglielmo Di Burra

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Le piante e gli animali sono interdipendenti, riuniti in associazioni o comunità legate da esigenze di cibo, di difesa e di riparo. L’associazione animale/pianta con gli elementi abiotici dell’ambiente quali il terreno, l’acqua, la luce, i gas atmosferici, i composti chimici in soluzione, ecc., costituisce un’unità autosufficiente chiamata ecosistema. Gli ecosistemi principali sono i mari, estuari e coste compresi, i torrenti, i fiumi, gli stagni, i laghi, le paludi, i deserti, la tundra, la taiga, la savana, la foresta. Ogni ecosistema ha le sue specie animali e vegetali caratteristiche, spesso dominate da poche specie costituite da numerosi individui; sono presenti anche associazioni egualmente caratteristiche di varie specie costituite da pochi individui. E’ nell’ecosistema che le specie arrivano alle forme più complesse di adattamento all’ambiente biotico e abiotico.

Si potrebbe pensare che in ogni habitat il numero delle specie e degli individui rimanga relativamente costante di anno in anno con un bilancio più o meno stabile. Ma non è così. Variazioni climatiche di lunga durata e variazioni evolutive degli habitat possono alterarne il bilancio, favorendo lo sviluppo di alcune specie e la scomparsa di altre. I laghi, ad esempio, tendono ad estinguersi perché vengono continuamente riempiti dai detriti trasportati dall’avanzamento delle rive o dal materiale che i corsi d’acqua immettono nei laghi stessi. Col passare del tempo, finisce che il lago diventa uno stagno o un acquitrino che può trasformarsi, a seconda delle condizioni, in brughiera o bosco. Queste modificazioni provocano alterazioni profonde nella flora e nella fauna

Pure nell’ambito di un ecosistema apparentemente stabile, il numero degli individui può fluttuare, talvolta entro limiti anche ampi. In alcune specie le fluttuazioni sono più o meno cicliche, in altre possono essere irregolari e verificarsi sporadicamente nei periodi intermedi di relativa stabilità. L’eccessivo aumento del numero degli individui raramente persiste a lungo; dopo un periodo relativamente breve, si ristabilisce il livello di partenza, sia pure con qualche piccola variazione. Questa osservazione ci fa pensare ad un qualche meccanismo di controllo su questi aumenti e ci indica che esiste una qualche regolazione del numero degli individui che ha lo scopo di mantenere nell’ecosistema un bilancio ottimale della specie.

Non è difficile stabilire come operino alcuni di questi meccanismi di controllo. Quando il numero degli individui aumenta, il cibo disponibile diviene insufficiente e molti individui muoiono di fame. Il cibo che l’uomo immagazzina e i rifiuti organici che elimina, hanno permesso lo sviluppo di grandi popolazioni di animali come i roditori, i gabbiani, gli insetti, ecc., che prima soffrivano di gravi limitazioni per insufficienza di nutrimento. Anche i predatori diventano molto numerosi se c’è sovrabbondanza di prede. Con l’aumento della densità, le malattie endemiche possono divenire epidemiche. In definitiva, si può affermare che la fame, la predazione e le malattie servono a regolare il numero degli individui di una popolazione, cioè a regolare il bilancio delle specie nell’ambiente. Effetti intraspecifici, come ad esempio le modificazioni del comportamento dovute alla densità della popolazione, hanno la funzione di operare dei fini aggiustamenti sui regolatori principali. Quindi, per una data specie, un dato ambiente avrà una capacità ottimale di ricettività in termini di numero di individui, che è strettamente collegata alla disponibilità di cibo e di spazio.

L’uomo può interferire inconsapevolmente su alcuni controlli che di norma operano su alcuni ecosistemi. Per esempio, l’eliminazione di particolari specie dannose può favorire l’espansione innaturale di altre specie. Il deterioramento fisico del terreno provocato dai disboscamenti intensivi, l’inondazione di vallate, la costruzione di dighe, canali e strade, i sistemi di defoliazione impiegati nella guerra moderna e la costruzione di acquedotti, gasdotti e oleodotti superficiali, il propagarsi indiscriminato degli impianti fotovoltaici ed eolici, alterano notevolmente l’ambiente e mentre da una parte costringono gli animali alla migrazione o alla dispersione, dall’altra ne impediscono il libero movimento.

Maggiore è la varietà e il numero di specie presenti, in un ecosistema, maggiore è il numero delle possibili interrelazioni. Quando tutte le nicchie ecologiche sono occupate, l’ecosistema raggiunge la massima stabilità perché tutti i regolatori, principali e secondari, possono operare al massimo dell’efficienza: in altre parole, la complessità conferisce stabilità. I sistemi più semplici, come ad esempio i laghi di recente formazione o le opere artificiali prodotte dall’attività agricola dell’uomo, presentano una intrinseca instabilità; per conseguenza il numero degli individui varia in modo considerevole a meno che non entrino in gioco controlli diversi dai regolatori naturali. Similmente, quando una specie occupa un nuovo ambiente, o perché si insedia in una nicchia non occupata, o perché vince la competizione con l’occupante precedente, si verifica un aumento del numero degli individui fino a un limite massimo che è l’optimum della capacità ricettiva. Se nel nuovo ambiente mancano i regolatori caratteristici del vecchio habitat, per esempio i predatori o le malattie specifiche, il numero aumenterà più rapidamente. Il tempo di duplicazione della popolazione non può essere utilizzato come misura pratica di questo aumento. Quando la capacità ricettiva dell’ambiente è limitata solo dallo spazio e dalla disponibilità di cibo, la popolazione, giunta alla metà circa di questa capacità, rallenta i suoi tempi di duplicazione; una volta saturata la capacità ricettiva, eventuali ulteriori aumenti fanno entrare in azione i regolatori. Senza controlli iniziali i tempi di raddoppiamento della popolazione possono essere molto brevi: questo è il caso che si verifica ogni qualvolta vengono trasportati insetti infestanti in regioni dove i loro predatori naturali sono assenti e dove in generale i fattori abiotici (fisici e chimici, cioè: luce, temperatura, umidità e precipitazioni, vento, acqua, suolo) del nuovo ambiente sono più favorevoli dei componenti del vecchio habitat.

La fame, la predazione, le malattie e gli altri effetti intra e inter-specifici servono in natura per regolare il numero dei soggetti in un ecosistema; raramente, però, essi riescono ad eliminare una singola specie. Purtroppo, si deve constatare che tutti i principali ecosistemi sono sempre più soggetti direttamente o indirettamente agli effetti delle attività umane (v. tabella allegata)*.

Gli effetti diretti si hanno, per esempio, quando l’uomo sostituisce le associazioni vegetali naturali con grandi distese di monocolture agricole, oppure quando sulle coste marine si verificano eventi che, distruggendo le barriere naturali delle dune, consentono al mare di invadere ed eliminare gli ecosistemi delle paludi salmastre. Tali attività sopprimono i “posti di riposo” per le specie migratorie, particolarmente degli uccelli, e diminuiscono la disponibilità di terra umida nel mondo. Ma sono i prodotti principali e secondari della moderna agricoltura e della tecnologia industriale, nonché i rifiuti derivanti dallo sviluppo degli agglomerati urbani, ad influenzare insidiosamente l’ambiente e a produrre modificazioni negli ecosistemi, tali da interferire con l’azione dei regolatori naturali fino a provocare instabilità e da ultimo la distruzione.

I prodotti dell’attività dell’uomo possono essere diversi in varie categorie, a seconda dei loro effetti sugli ecosistemi. I rifiuti organici provenienti dagli scarichi domestici, dalla lavorazione industriale di alimenti, bevande e tessuti, dalle cartiere, dalle lavanderie, ecc., contengono composti instabili che si ossidano facilmente o a causa, appunto, della loro instabilità o per l’azione di microrganismi. Quando vengono riversati nei torrenti e nei fiumi, i rifiuti utilizzano l’ossigeno disciolto nell’acqua fino a che non si ossidano completamente. Nello stesso tempo gli atomi di azoto e di fosforo, si trasformano in ammoniaca e fosfati; in condizioni altamente ossidanti si formano anche i nitrati. Il risultato complessivo è che il corso d’acqua si arricchisce di nuove sostanze che gli consentono di ospitare grandi popolazioni di organismi fotosintetici. Visti sotto questo aspetto, gli scarichi organici possono essere considerati come inquinanti “naturali”, perché producono effetti simili a quelli provocati dalla decomposizione naturale di grandi masse vegetali; ed è ciò che deve essere avvenuto nei primi stadi dell’evoluzione, se si ammette che sono state le piante i primi organismi a colonizzare la terra. Non sorprende, quindi, che particolari associazioni biotiche abbiano cominciato ad adattarsi ad habitat con alti contenuti organici. Di conseguenza, gli scarichi cittadini e industriali nei corsi d’acqua provocano continui spostamenti delle comunità biotiche lungo la corrente.

D’altra parte, nei laghi relativamente con bassi fondali, gli scarichi organici accelerano il processo di sviluppo, sommandosi ai materiali organici che si accumulano naturalmente; di conseguenza questi laghi tenderanno a estinguersi sempre più rapidamente. Le alghe potranno pure essere organismi acquatici spiacevole a vedersi nei laghi inquinati, però stanno a indicare che c’è un sistema altamente riproduttivo (eutrofico).

Anche le attività agricole che si svolgono sulle rive di un lago piccolo possono accelerare il processo eutrofico, il motivo è da ricercarsi nella diffusione, nell’ambiente, dei fertilizzanti che contengono fosfati e nitrati.

Gli scarichi organici, come si è detto sopra, possono essere considerati naturali, solo se sono presenti in quantità relativamente limitate. Se tali scarichi sono immessi nei corsi d’acqua in molti punti o se un singolo scarico viene fatto affluire in grosse quantità rispetto al volume e al flusso del corso d’acqua, l’ossigeno disciolto viene tutto utilizzato per ossidare gli scarichi organici. In queste condizioni si producono metano e solfuri e, pertanto, tutti gli organismi viventi scompaiono.

Particolarmente problematico, inoltre, per la salinità globale, risulta l’impatto ambientale dell’industria conciaria, riconducibile principalmente ai prodotti chimici inorganici utilizzati nel processo di concia delle pelli e, quindi, alla successiva produzione di acque reflue, fanghi, altri rifiuti, conciati e non, altamente inquinanti. Gli inquinanti presenti negli effluenti e non degradati nel corso del trattamento di depurazione, si ritrovano nei fanghi di risulta, perché resistenti alla biodegradazione.

Allo stesso modo, gli inquinanti atmosferici come l’anidride solforosa, gli ossidi di azoto, l’ossido di carbonio, l’anidride carbonica, ecc., possono essere considerati “naturali” se sono stati immessi nell’atmosfera dall’attività dei vulcani o da altri processi attivi. Ma gli effetti di questi gas sull’ambiente, essendo limitati nello spazio e nel tempo, non possono essere paragonati a quelli prodotti costantemente, e in grandi quantità, dai complessi industriali e urbani. Il materiale solido emesso dai vulcani, se trasportato per migliaia di chilometri dalle correnti atmosferiche, può provocare effetti visivi drammatici, ma le sue conseguenze ambientali sono trascurabili quando si confrontano con quelle provocate dalla continua caduta di carbone e di altri materiali inquinanti sulle zone che circondano una comunità moderna.

Un effetto della combustione dei materiali fossili è l’aumento del contenuto di anidride carbonica nell’atmosfera. Fino agli anni 1950 c’era una stretta relazione tra la temperatura media annuale della Terra e la concentrazione di anidride carbonica dell’atmosfera. Si temeva, in quegli anni, che l’aumento dell’anidride carbonica, unitamente all’“effetto serra” dell’atmosfera, provocasse modificazioni climatiche del globo. Gli allarmisti, sin da allora, profetizzarono la fusione del ghiaccio delle calotte polari e il disastro mondiale; dal 1950 però la temperatura media annuale della Terra, ha subìto progressivamente lievi aumenti, soprattutto dal 1990 in poi. Ciò non contraddice la teoria dell’“effetto serra”, semmai si può parlare di un suo mascheramento dovuto a modifiche della composizione atmosferica. Le particelle di polvere e di aerosol trasportate dall’atmosfera portano ad un oscuramento della luce del sole, controbilanciando abbondantemente l’effetto dovuto all’assorbimento del calore da parte dell’anidride carbonica in eccesso.

Occorre considerare che il grosso della torbidità atmosferica è di origine vegetale. L’aumento dell’anidride carbonica ha spostato l’equilibrio fotosintetico a favore di un aumento dello sviluppo vegetale. Le fotografie prese dai satelliti artificiali hanno mostrato che le regioni industriali del Nord America e dell’Europa contribuiscono molto meno alla foschia atmosferica (torbidità) che non le foreste tropicali. Lo sviluppo della vegetazione comporta produzione di terpeni, ammoniaca e acido cloridrico: i precursori degli aerosol. Anche le aree desertiche contribuiscono alla torbidità: granellini di sabbia o di terra si disperdono facilmente nell’atmosfera. Sembra che le prospettive sulle alterazioni del clima del globo non siano così drammatiche come un tempo si paventava, e maggiormente oggi possa apparire. La produzione di sostanze che provocano torbidità potrebbe rappresentare uno dei meccanismi omeostatici, cioè la capacità degli organismi viventi di mantenere un equilibrio interno, pur nel variare delle condizioni esterne che operano nell’atmosfera per stabilizzare la temperatura.

Il problema delle scorie aumenta anche quando gli scarichi che contengono solidi in sospensione vengono immessi in acque correnti. Tali scarichi provengono dal lavaggio del carbone e da altri processi estrattivi, dalle industrie tessili e dal legno, dalle acque che passano sulle radici delle piante. Quando vengono immessi in piccole quantità nei laghi, i solidi in sospensione hanno un effetto moderato sulla fauna acquatica che, vivendo sul fondo, si è adattata alla caduta continua di detriti; analogamente, quando i solidi vengono scaricati nei fiumi a lento scorrimento non si producono effetti disastrosi: il deposito di melma, infatti, è un aspetto normale di questo tipo di habitat. Se però i solidi sono immessi in grande quantità, essi vanno a riempire gli spazi tra le pietre, privando così le specie criptiche del loro habitat normale. I sedimenti possono anche ricoprire la superficie delle pietre, cosicché la fauna che vive su di esse non è più in grado di svilupparsi. Tuttavia, possono sopravvivere quegli animali che sono capaci di scavarsi una tana: in tal modo si provoca tutt’al più un cambio di popolazione. Ma se i solidi sedimentano lentamente o a causa delle loro piccole dimensioni o perché il corso dell’acqua è turbolento, la luce non è più in grado di penetrare nell’acqua e le piante sommerse non possono più sopravvivere. In questo modo, fatta eccezione per le poche specie che si nutrono di detriti provenienti dalle rive, si arriva alla scomparsa di tutti gli organismi acquatici. Ancora una volta, il grado di inquinamento da parte dei solidi in sospensione è molto importante perché provoca o spostamenti di popolazioni o la completa distruzione dell’ecosistema.

Molti scarichi industriali possono essere più caldi dell’acqua in cui si immettono. In generale, il calore amplifica gli altri effetti dell’inquinamento: i materiali organici vengono degradati più rapidamente e l’area biologica si riduce. Ma l’inquinamento dovuto al calore può essere prodotto anche da impianti nucleari e da altri processi industriali. Possiamo considerare naturale anche l’inquinamento da calore; esistono infatti in molte parti del pianeta comunità biotiche che vivono nei pressi delle sorgenti calde termali. Se la temperatura dell’acqua si innalza solo di uno o due gradi, gli effetti sulla fauna sono positivi, perché vengono accelerate la maturazione e l’attività riproduttiva. Ma, per gli animali che si sono adattati a vivere in zone fredde per lunghi periodi dell’anno, l’aumento della temperatura dell’acqua può interferire drasticamente con i loro cicli vitali: se ad esempio viene ritardato o addirittura impedito il letargo, gli animali debbono rimanere in attività anche quando il cibo non è più disponibile. Se, infine, la temperatura degli scarichi è molto alta, si avrà la scomparsa di tutta la vita animale; se però lo scarico può essere diluito in grandi quantità di liquido (scarico immesso in mare o in grandi fiumi e laghi) la temperatura difficilmente raggiunge livelli di letalità. In definitiva, si può pensare che gli effetti dell’inquinamento da calore consistano essenzialmente in cambi di popolazione.

L’ambiente può far fronte agli inquinamenti “naturali” quando questi siano in piccole quantità; altri inquinanti, invece, debbono essere considerati veri e propri veleni ambientali perché producono effetti deleteri anche se sono presenti in tracce. Questi veleni sono per lo più rifiuti di processi industriali (cianuri, alcali, acidi, prodotti di catrame, fenoli, metalli pesanti) oppure prodotti della società moderna “industrializzata”, come l’ossido di carbonio e il piombo, provenienti dai motori degli autoveicoli, delle imbarcazioni, degli aerei; vanno ricordati, inoltre, gli insetticidi sintetici e quelle sostanze che, prodotte per uno scopo ben preciso, hanno poi rivelato altri effetti disastrosi.

I veleni attraggono maggiore attenzione perché attaccano gli uomini e perché producono sull’ambiente effetti più appariscenti che non la maggior parte degli inquinanti fin qui discussi. I rifiuti contenenti cianuro uccidono gli animali terrestri e acquatici, ma la loro possibile infiltrazione negli acquedotti costituisce un problema ovviamente più importante. Il rapporto tra l’accumulo di piombo e la salute mentale è un problema delle città moderne e, benché il contenuto di piombo nella calotta polare antartica originato dai piombo-alchili del petrolio sia aumentato drammaticamente dagli anni 1940, poco si sa (o si vuole ignorare) degli effetti che una distribuzione estesa del piombo può avere sui principali ecosistemi. La forte contaminazione da piombo e mercurio, insieme con i residui degli insetticidi, contribuisce spesso alla moria degli uccelli marini.

La grande diffusione dei moderni pesticidi sintetici ha creato seri problemi di inquinamento. I cloro-derivati degli idrocarburi come il DDT (messo al bando in alcuni Paesi, ma ancora utilizzato in altri, soprattutto per combattere la malaria), l’Aldrin, il BHC, il Dieldrin, l’Heptaclor e altri pesticidi, sono veleni che agiscono sugli insetti per ingestione o per contatto. Sono molto usati dagli agricoltori perché data la loro persistenza, non è necessario che vengano applicati di frequente per ogni raccolto. Ma è proprio la persistenza a provocare i maggiori danni all’ambiente: gli insetticidi e i relativi residui possono distruggere, oltre agli insetti dannosi, anche quelli utili, nonché le normali associazioni; il risultato è che, per combattere l’infestazione, diventano necessari molti altri tipi di insetticidi. Inoltre, eliminando i normali regolatori, gli insetti che prima non svolgevano alcuna funzione dannosa, possono aumentare di numero e causare anch’essi danni molto seri. Un’altra conseguenza degli insetticidi persistenti è l’insorgere dell’immunità ai prodotti chimici da parte degli insetti colpiti. Gli insetticidi organofosfati come il Parathion, il Diazinone, il Malathion, ecc., sono molto meno persistenti dei composti organici clorurati innanzi menzionati, ma sono molto più tossici per i mammiferi, uomo compreso, e devono essere usati, quindi, con molta cautela.

Anche se particolari condizioni (vento assente o favorevole, per esempio) possono limitare gli effetti delle polveri e degli insetticidi, nel senso che questi rimangono all’interno della zona trattata, si possono verificare delle fughe e le acque diventano più o meno ricche di insetticidi persistenti o di loro residui. La concentrazione può essere sufficiente ad uccidere i pesci ed altri animali acquatici. Ma, il problema principale legato alla persistenza degli insetticidi clororganici e dei loro residui, è il modo come essi entrano nella catena alimentare e come diventano sempre più concentrati nel corpo degli animali che si trovano alla fine della catena stessa, quali ad esempio i grossi carnivori. Si possono accumulare concentrazioni letali per l’individuo, oppure concentrazioni appena al di sotto della dose letale, che possono danneggiare, anche dopo lungo periodo, i processi di sviluppo e fisiologici.

Gli insetticidi clororganici si accumulano negli oceani e si possono ritrovare in tutti gli organismi marini e negli animali terrestri. Gli uccelli che mangiano i pesci hanno già subìto massicce morie e stasi riproduttive, direttamente o indirettamente, attribuibili al DDT o ai suoi residui. Anche se la produzione degli insetticidi cessasse immediatamente, la loro concentrazione nel mare seguiterebbe ad aumentare per molti anni ancora, perché essi comunque continuerebbero ad affluire dalla terra e dai corsi d’acqua. Ci si deve quindi aspettare che la produttività marina venga influenzata negativamente, forse, per qualche decennio e più.

L’effetto finale degli inquinanti su un ecosistema comporta la distruzione delle associazioni biotiche e dei fattori di regolazione naturali che mette in moto dei processi irreversibili, che alla fine portano all’eliminazione del sistema. Le concentrazioni degli inquinanti che producono danni permanenti o temporanei, variano da specie a specie. Quegli animali e quelle piante che presentano una scarsa tolleranza ai contaminanti innaturali, sono dei rivelatori sensibili dell’inquinamento ambientale e vengono utilizzati dall’ecologo per rilevare le modificazioni deleterie dell’ambiente. Molto può essere fatto per prevenire l’inquinamento dell’ambiente e degli scarichi nei corsi d’acqua, nei mari e nell’atmosfera. Vanno sviluppati gli insetticidi ecologici di ultima generazione che sono in grado di non nuocere alle specie benefiche di insetti, agendo pertanto solo su determinati tipi nocivi ed evitando l’effetto dannoso delle sostanze chimiche. La buona combinazione degli antidoti biologici, chimici e colturali può minimizzare il danno che gli insetti provocano alle colture, senza turbare troppo i fattori naturali di regolazione. La ricerca dei sistemi ecologici, unitamente allo sviluppo del controllo dell’inquinamento, deve richiedere necessariamente molto denaro. Ma tale spesa deve essere considerata indispensabile non soltanto per eliminare i pericoli di malattia per l’uomo, ma anche per prevenire il deterioramento dell’ambiente.

Riepilogando, occorre tener conto delle principali differenze importanti tra i cicli naturali e quelli derivanti dai prodotti fabbricati dagli esseri umani.

– La prima differenza consiste nel fatto che gli umani “mettono dentro” il processo di trasformazione della materia e dell’energia qualcosa di immateriale e di “sovrannaturale”, che è il lavoro “progettato” (la capacità dell’uomo di ricordare quanto avvenuto in passato, compreso gli errori compiuti; quindi, l’esperienza accumulata nel lavoro, a far tempo dal suo lontano apparire sulla Terra). Lo ha riconosciuto bene Karl Marx centosettanta anni fa nel primo dei Manoscritti del 1844, nel brano sul lavoro “estraniato”, in cui ha distinto il lavoro umano da quello dell’ape, del castoro e della formica, anch’essi tutti “produttori”.

– La seconda differenza deriva dal fatto che il progresso tecnico ha portato gli esseri umani a fabbricare materiali estranei, presenti nella natura. La metallurgia trasforma gli ossidi dei metalli in composti metallici che comunque preesistevano in natura e che possono tornare in ciclo. Lo stesso carbone e il petrolio, scorie di trasformazione di vegetali e animali di cui la natura si è sbarazzata nascondendoli sotto terra milioni di anni fa, sono pur sempre materie naturali e sono fonti di alterazione ambientale solo per colpa dell’eccessiva velocità con cui vengono dissepolti, rispetto al tempo lungo della loro formazione. Ma, l’inquinamento si è fatto acuto e fuori dal controllo naturale, quando gli esseri umani sono stati capaci di fabbricare e liberare nell’ambiente materiali estranei, come molti prodotti sintetici – dai pesticidi ai Cfc, agli elementi radioattivi artificiali e a tutte le sostanze di cui si è già detto prima – che i cicli naturali non riescono a “riconoscere” e scomporre e che sono tossici e dannosi alla vita. A differenza dei materiali dei cicli naturali, che dopo avere svolto la loro funzione si trasformano in materiali di nuovo utili (utili alla vita, si intende), un numero crescente di merci umane genera scorie che non vengono riutilizzate e che restano estranee nell’ambiente per tempi lunghi o lunghissimi.

– La terza differenza sta nel fatto che gli esseri umani estraggono risorse dalla natura e immettono nel regno naturale le loro scorie con una velocità molto elevata che rende difficile l’assimilazione delle stesse, anche di quelle assimilabili. Un caso tipico è offerto dall’immissione nell’atmosfera dell’anidride carbonica, un normale metabolita della vita. Il rapido aumento della concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera, che consideriamo responsabile dell’effetto serra, deriva dal fatto che grandi masse di carbonio fossile vengono rapidamente estratte dalle riserve e bruciate con una velocità talmente elevata da non lasciar tempo all’atmosfera di liberarsi, con i suoi cicli naturali, dell’eccesso di questo gas.

Indipendentemente dal carattere – naturale e non – delle merci umane e delle loro scorie, non ci sarebbe (quasi) nessun problema ambientale, se i corpi da cui vengono estratte le risorse naturali, e i corpi riceventi ambientali, non avessero dimensione “limitata”.

A causa dell’esistenza di questi limiti, la produzione di merci umane, a differenza della riproduzione che si svolge nei cicli naturali sostanzialmente “chiusi”, è accompagnata insieme da:
– un impoverimento delle riserve di risorse naturali : minerali, acqua, foreste, ecc. ;
– un peggioramento della qualità dei corpi riceventi naturali, come conseguenza dell’immissione in essi delle scorie del metabolismo delle merci umane.

Tale depauperamento e intossicazione dei corpi naturali dipendono sia dalla qualità delle merci prodotte e usate, sia dalla loro quantità; il quantitativo delle merci, a sua volta, dal numero delle persone che le domandano e le usano e quindi dalla popolazione umana.

La conseguenza è che, anche a causa dell’aumento della popolazione mondiale, restano meno risorse naturali per le generazioni future e vengono modificati, spesso negativamente, la composizione chimica e i caratteri fisici dell’aria, delle acque sorgive, dei fiumi, del mare, del suolo, in modo tale da compromettere il loro uso in futuro. Anche questo è un altro grosso problema sul quale necessita discutere: l’aumento della popolazione mondiale.

Alla nascita di Cristo, sulla Terra, vivevano circa 160 milioni di persone. Mille anni dopo, la popolazione mondiale raggiunse i 250 milioni, nel 1800 toccò il miliardo, per arrivare a 1,6 miliardi nel 1900. Questi, i dati storici di Ansley Johnson Coale, che è stato uno dei principali demografi americani e il più autorevole del mondo. Oggi la popolazione cresce in media dell’1% all’anno: si tratta di un tasso di crescita ancora veloce, nel senso che ogni anno nascono 140 milioni di persone e ne muoiono 60 milioni, per un aumento di circa 80 milioni all’anno. I viventi sul pianeta si sono più che quadruplicati nell’arco di soli 100 anni : da 1,9 miliardi nel 1920 a 8 miliardi nel 2022. Il tempo di raddoppio, oggi, è diventato di circa 35 anni nel mondo in generale e, approssimativamente, di 20 anni nei Paesi sottosviluppati. Quale sarà il futuro del pianeta con la crescita della popolazione mondiale?

Non credo che l’attuale società, specialmente quella a conduzione neoliberista, sia capace di affrontare una così gigantesca questione, ma forse non sarà neanche in grado di sopravvivere alle conseguenze di non averla affrontata. Eppure, bisogna prepararsi per quel tempo, probabilmente non lontano.

In molti Stati gran parte dell’inquinamento attuale proviene anche dalle tecnologie agricole e industriali necessarie a fornire cibo ed energia. Un tempo di raddoppio di 20 anni significa che le popolazioni di questi Paesi debbono raddoppiare le loro risorse solo per mantenere gli standard di vita ai livelli attuali che, come è noto, sono insoddisfacenti. L’ironia della sorte vuole che, nei Paesi altamente sviluppati dove si tenta di ridurre il ritmo di natalità, piccoli aumenti di popolazione richiedono sproporzionati aumenti delle risorse per mantenere un livello di vita molto più alto. Mentre la popolazione mondiale aumenta in modo esponenziale, le risorse mondiali di combustibili fossili e minerali diminuiscono pure con progressione molto rapida.

Le risorse naturali sono essenziali sia per le economie di sussistenza che per le società tecnologiche avanzate. Il consumo delle risorse nel mondo si è sviluppato rapidamente in seguito alla crescita della popolazione e della ricchezza economica. Negli ultimi cinquant’anni del XX secolo, l’umanità ha consumato una quantità di risorse naturali che non ha precedenti nella sua storia.

L’aumento smisurato del consumo può essere illustrato con qualche esempio:

– Dal 1950 e fino al duemila, la portata dell’economia globale si è quintuplicata. Il consumo di grano, carne, acqua si è triplicato; il consumo di carta è aumentato di sei volte rispetto alla metà del Novecento. L’utilizzo di combustibili fossili è cresciuto di quattro volte.

– Sempre dal 1950, la parte più abbiente della popolazione mondiale, che rappresenta solo un quinto della totale, ha duplicato il consumo pro capite di energia, carne, legna, acciaio, rame, e si è quadruplicato il numero di coloro che possiedono un’automobile. La parte più povera dell’umanità, invece, non ha quasi aumentato il consumo pro-capite.

– La popolazione più povera del globo, sempre negli stessi anni, ha potuto usufruire di un’entrata giornaliera oscillante, mediamente, intorno ad un dollaro e fino ad un massimo di circa tre dollari al giorno (in buona parte, questa misera situazione permane ancora).

– Con meno del 5% della popolazione mondiale, gli Stati Uniti sono arrivati ad usare, alla fine del secolo scorso, circa il 30% delle risorse naturali. Tuttavia, lo stile di vita americano è diventato un modello anche per molte nazioni dell’Europa occidentale, della Ex Unione Sovietica, ora Federazione Russa, e per diversi Paesi in via di sviluppo. Questa tendenza è andata notevolmente peggiorando con l’emergere, in questi primi venti anni del nuovo millennio, delle nascenti economie della Cina e dell’India.

Non vi è nulla di intrinsecamente sbagliato nel fatto che le nazioni ricche consumino un’ampia percentuale delle risorse naturali; ma queste devono essere responsabilmente preservate e conservate in quantità tali da poter essere utilizzate anche da altre popolazioni e dalle generazioni future. La questione centrale è se il nostro modo di consumo sia volto ad utilizzare le risorse con lo scopo di garantirne la presenza nel futuro, o sia orientato solo a sfruttarle dissennatamente fino all’esaurimento. Occorre avere nuove prospettive sul mondo, idee guida o utopie realistiche per orientare la progettazione, dove si può vivere l’esperienza di passare dal pensiero ricognitivo, di competenza per la conservazione, a un pensiero evolutivo di progettazione flessibile e partecipata di modalità dell’abitare con saggezza, sia il Pianeta, sia il proprio quartiere.

Il controllo dell’inquinamento e la conservazione dell’ambiente possono essere problemi molto complessi, ma sono scientificamente e tecnicamente risolvibili. Immensamente più difficili da affrontare e risolvere sono invece i problemi sociali, politici ed economici, nonché l’applicazione del controllo delle nascite in tutto il mondo.

A fronte delle politiche neoliberiste e di privatizzazione dei beni comuni e della cosa pubblica, è diventato del tutto evidente che la questione ambientale non esprime più solo la contrapposizione tra interessi materiali appartenenti al regno dell’economia, ma anche la negazione delle culture e dei saperi tradizionali delle popolazioni locali e la progressiva perdita di controllo delle persone sulla propria vita e sulle risorse naturali e sociali che ne sono il fondamento: acqua, terra e territorio, cibo, salute.

Pertanto, la soluzione della questione ambientale richiede di superare i limiti raggiunti, sia dai Paesi più autoritari del mondo che da quelli governati dall’attuale bacata e perversa democrazia rappresentativa occidentale, e di avviare la costruzione di pratiche nuove di democrazia e di migliore partecipazione dei cittadini alle scelte che riguardano la loro vita.

Personalmente ritengo che il problema ambientale rappresenti una contraddizione non solo insanabile, ma anche inevitabile, che il capitalismo in atto pone drammaticamente davanti all’umanità di questo pianeta. Nessuna soluzione parziale può fare la differenza se non viene inserita in un progetto più generale di alternativa, costruito e partecipato dalle comunità e dalle popolazioni, che ridefinisca “ che cosa produrre, per chi e dove”.

Tutto questo non è pura fantasia, ma il passaggio stretto di un qualsiasi governo, di centro, di destra, di sinistra, o di ogni altra specie sia, adeguato alle sfide dei nostri tempi: senza questa innovazione politica, vivremo (e subiremo) crisi ecologiche sempre più gravi e conflitti sempre più aspri con le popolazioni del Nord, con quelle espropriate del Sud, e con fasce crescenti di popolazioni impoverite ed emarginate sia al Nord che al Sud.

Con le competizioni elettorali che, non solo in Italia, movimentano e continueranno a vivacizzare questo periodo, una questione si è collocata anch’essa al centro dei programmi e dei dibattiti: quella della difesa dell’equilibrio della natura e della vivibilità dell’ambiente. Di questi temi tutti mostrano di far conto, proponendo indirizzi e deliberazioni appropriate alle presenti necessità. Tuttavia c’è contraddizione non solo fra le proposte diverse che vengono presentate fra le varie parti, ma all’interno stesso di tali proposte. E sono contraddizioni difficili da evitare, perché radicate nella natura stessa, in cui l’aggressività distruttiva è da sempre presente, sicché accade, come sempre è stato, che la conservazione di una specie possa avvenire al prezzo della distruzione di un’altra; che l’eliminazione di determinati organismi considerati nocivi sconvolga l’equilibrio complessivo e quindi l’esistenza di altri organismi considerati benefici.

Resta il fatto, comunque, che l’uomo di oggi non sa più ascoltare il ritmo della natura, né sentire tutte le forze che dall’universo gli si offrono per confortarlo ed esaltarlo; egli non è più in grado di conoscere il vero senso e la vera direzione del suo viaggio perché travolto dall’ansia d’ andare e dalla fretta. Eppure, in ogni tempo vi furono uomini amanti della quiete, della pace e dell’umanità che si raccolsero in comunità per tenersi lontani dalle discordie, dagli egoismi e dalle lotte insensate.

C’è contraddizione fra il proponimento di armonizzare la vita dell’uomo e quello della natura e qualsiasi modo aggressivo e improvvisato di porgerlo e di attuarlo. Spetta all’uomo trovare la capacità di operare affinché la vita umana assecondi “il ritmo della natura e le forze del creato”. E’ in gioco lo stesso “giardino dell’Eden” che avremmo dovuto curare e non soggiogare.

FATTORI CHE MODIFICANO L’AMBIENTE

Questa tabella mostra un criterio di classificazione dei fattori che contribuiscono a modificare l’ambiente.

A. Variazioni fisiche

1. Geologiche: spostamento dell’asse terrestre e del periodo di rotazione, movi
menti della Terra.

2. Climatiche: espansione e contrazione delle calotte polari.

B. Fattori biotici che derivano dall’alta densità della popolazione

1. Effetti naturali delle popolazioni animali :

– pascolo degli erbivori, concimazione da parte degli uccelli e dalla fauna in
generale.

2. Influenza dell’uomo:

a- Caccia: caccia, pesca, raccolta di frutti naturali.

b- Agricoltura: colture e allevamenti intensivi, silvicoltura, aratura, sviluppo di
insetti infestanti, bonifica di fiumi e di mari, effetti dell’utilizzo di fertilizzanti.

c- Urbanizzazione: utilizzo del suolo per costruzioni, eliminazione dei rifiuti,
variazioni del microclima dovute allo sviluppo delle città, deterioramento
dell’ambiente sociale dell’uomo.

d- Industrializzazione: problemi connessi alla richiesta di energia e di materie
prime, cioè disboscamenti, estrazioni minerarie, ecc., abbandono della terra,
inquinamento del suolo, delle acque interne e del mare con prodotti tossici.

e- Trasporto: distruzione degli habitat con strade, porti, aeroporti e ferrovie.

f- Controllo delle acque profonde e superficiali: creazione di nuove caratteristiche idrologiche per la costruzione di dighe, argini, bacini.

g- Ricreazione: aumento del numero delle persone che si muovono negli habitat naturali.
h- Disastri sociali: guerra, carestia, malattia.

Impariamo a considerare la Natura non come dominio integralmente manipolabile dall’uomo, ma come irrinunciabile alterità di un sistema in cui un essere umano e ambiente naturale coesistono alla ricerca dell’armonia.

(Guglielmo di Burra – Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)

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