La testimonianza di un oncologo: “Mi piacerebbe potermi chiamare collaboratore della speranza”
Se dovessi individuare un concetto per definire il mio lavoro di oncologo, mi piacerebbe potermi chiamare “collaboratore della Speranza”.
La mia attività consiste nel disegnare percorsi di diagnosi e cura delle malattie oncologiche, accogliendo ed accompagnando pazienti e familiari in questo tragitto. Le difficoltà e le sofferenze, fisiche e spirituali, sono presenze immancabili, ma la vera oscura signora con cui confrontarsi in questo cammino è senz’altro la paura.
Paura della morte, della sofferenza fisica, della solitudine, della perdita di autonomia, dello svilimento del proprio ruolo sociale (coniuge, padre, lavoratore..) del non poter essere più alla guida della propria vita.
Per questo, credo che scoprire il ruolo della speranza nel percorso di malattia, quale che ne sia l’evoluzione, rappresenti la vera strada per la guarigione, intendendosi con questo il mantenere la possibilità/capacità di vivere al meglio la propria condizione sfruttando tutti gli spazi rimasti liberi. Ho visto infatti persone “guarite” vivere da malati, e persone consapevoli della fine imminente “vive” più che mai.
Ma che si può intendere con la parola speranza Ed ha realmente senso parlare di speranza in una condizione di malattia irreversibile?
La speranza può definirsi come una attesa fiduciosa che si realizzi un proprio desiderio. Nei pazienti nei pazienti gravemente ammalati la speranza viene spesso confusa con l’illusione, un inganno della mente che porta a dar corpo ad aspettative che non hanno reale consistenza.
Come rispondere alla domanda: “dottore, ma c’è speranza Io voglio guarire”. Come scegliere fra una bugia pietosa ed una cruda verità?
Di sicuro, è importante abbracciare un percorso di verità, rifiutando di partecipare a quella grottesca messinscena della cosiddetta “congiura del silenzio” (leggi “Morte di Ivan Ill’ic”, di Lev Tolstoj). Certo, bisogna imparare comunicare le informazioni in maniera graduale e progressiva, scegliendo di volta in volta la dose di verità che il paziente è in grado di tollerare: questo è un compito dal quale il medico non dovrebbe fuggire. Comunicare è inevitabile: non possiamo infatti scegliere se, possiamo però imparare come comunicare.
Comunicare non è sinonimo di informare; è la base per stabilire una relazione di cura. Quest’ultima potrà dirsi efficace quando: 1) favorisce l’operatore nel compito di disegnare un percorso di cura idoneo alle esigenze del paziente; 2) migliora la collaborazione (compliance) del paziente; 3) riduce il rischio di burn-out (e di rivalse legali nei confronti del medico).
Il medico dovrebbe conoscere le fasi di elaborazione di un lutto, come individuate dalla psichiatra E. Kubler Ross: Negazione, Rabbia, Contrattazione, Depressione, Accettazione; dovrebbe anche avere competenze basilari sui protocolli utili per la comunicazione di cattive notizie (es Spikes). Questo è necessario per poter guidare il paziente nelle varie fasi ed arrivare a stabilire una vera alleanza terapeutica, in cui il paziente ha compreso sufficientemente la propria situazione e condivide il percorso offertogli. Non può stabilirsi alcuna alleanza se si ricorre a bugie, magari parlando apertamente con i familiari ma non con il paziente; oppure manifestando atteggiamenti frettolosi e schivi, chiaro segno di inadeguatezza e paura di relazionarsi con il paziente. L’empatia, così preziosa nelle relazioni di cura, non può instaurarsi improvvisando, basandosi solo sulla personale sensibilità, ma passa per percorsi formativi atti a migliorare le conoscenze (storia naturale delle malattie, tecniche base di comunicazione), le competenze ed infine a migliorare le corrette attitudini ed una idonea capacità relazionale.
Ma c’è realmente speranza per chi non ha più speranza
Sperare può significare tenere aperta la possibilità di un futuro accettabile, nonostante tutto. Non è l’apprendere la verità sulla propria condizione di malattia che annulla la speranza, come taluni sostengono; al contrario, è il mancato percorso di conoscenza ed accettazione della realtà che impedisce di cogliere quanto ancora sia possibile vivere negli spazi lasciati liberi dalla malattia. Vivere pienamente nonostante tutto, anche se può sembrare poco, questo consente la vera sconfitta della malattia anche quando ci sta trascinando alla fine della vita.
Il medico dovrebbe lasciare spazio in sé alla speranza per poterla comunicare; ed infatti, pur conoscendo la prognosi del malato che ci sta davanti, non avremo mai certezze sui tempi e modi di ciò che verrà. Stimare una prognosi è utile per definire le cure utili e quelle ridondanti o addirittura “eccessive”, non per sentenziare sui tempi della fine. Esiste poi la strana realtà degli outliers, pazienti apparentemente senza chances ma che sopravvivono indefinitamente a dispetto delle previsioni.
Il medico si trova spesso a confrontarsi con la creazione, da parte del malato, di realtà parallele, illusorie, quindi per lui maggiormente accettabili: questo fenomeno andrebbe accettato dal curante senza scardinare i meccanismi di difesa, ma partecipando al percorso di sofferenza con atteggiamento accogliente, puntualizzando di volta in volta i contorni della malattia e le reali prospettive di cura per condurre il paziente all’interno del percorso indicato.
Ma un medico credente, deve affidarsi alla fede o comunicare esclusivamente nel solco della scienza E questi due mondi, sono realmente antitetici, oppure possono comunicare tra loro per orientare la professione sanitaria
La speranza è certamente un rischio che vale la pena di essere vissuto (G. Bernanos). In questa ottica, come medici di fede potremmo comunicare al paziente la necessità di affidarsi:
– Al curante, in quanto una relazione efficace può sia soddisfare il bisogno del paziente di sentirsi curato, sia divenire essa stessa (la relazione) luogo di Speranza
– A Dio: in quanto speranza che non delude, vera risposta alla nostra ricerca del senso della vita e del nostro futuro. “Ci è stata donata la Speranza, una Speranza affidabile, in virtù della fede” (Spe salvi facti sumus).
La sofferenza è una condizione nella quale la Speranza entra in crisi, ma può anche essere il luogo in cui essa viene riscoperta, purificata ed appresa in pienezza. Non è rara l’esperienza di persone che sostengono di aver cominciato veramente a vivere dopo una diagnosi di cancro.
Sento spesso dire: scoprirsi ammalato di cancro gli ha devastato la vita. Ma non era forse una falsità vivere nella illusione che non gli sarebbe capitato nulla di pesante da vivere? Ammalarsi è una iattura Oppure una delle avventure che possiamo incontrare nel nostro percorso di vita E non è forse questa consapevolezza di caducità, uno stimolo a vivere in modo pieno la nostra vita A definire le priorità senza lasciarci distrarre dalla sola ricerca del piacere, ma godendo nell’assaporare la nostra vita, costruendo relazioni vere e lanciando uno sguardo fiducioso (speranza) verso l’eternità?
Lasciando crescere tutto questo in noi, medici ed operatori sanitari tutti, forse potremmo capire il senso più vero del nostro ruolo in questa società.
– Non sapevo bene cosa dirgli, mi sentivo molto maldestro. Non sapevo bene come toccarlo, come raggiungerlo. Il paese delle lacrime è così misterioso.. (da Il Piccolo Principe”)
Nella mia personale esperienza, dopo aver assistito centinaia di morenti, si consolida la consapevolezza che l’Amore di Dio verso i malati sia enormemente più grande della loro sofferenza e, se pure non riesco a comprenderlo pienamente, anche la sofferenza più grande non è in grado di negare l’Amore che a loro viene rivolto.
La Speranza poi non delude, perché l’Amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato (Rm 5,5).
(*) dirigente medico S.C. Oncologia Medica Azienda Ospedaliera Santa Maria della Misericordia, Perugia
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