Giornata del malato. Don Angelelli: “Recuperare la dimensione relazionale della cura ripensando il sistema sanitario”
“’Non è bene che l’uomo sia solo’. Curare il malato curando le relazioni” è il tema del Messaggio di Papa Francesco in occasione della XXXII Giornata mondiale del malato che ricorre l’11 febbraio, memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes. Ne parliamo con don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei.
Quest’anno il Papa si sofferma sull’importanza delle relazioni, attribuendo ad esse un valore terapeutico. Perché questa sottolineatura
Credo sia una delle eredità del Covid, evento sanitario che ha coinvolto le popolazioni ma avuto molti effetti collaterali, tra cui quello che è passato alla storia come isolamento sociale. Il distanziamento, pur necessario per il contenimento dei contagi, ha di fatto costituito una grave violenza alle nostre vite. Per questo Francesco si rende conto che esiste una ferita da sanare proprio nelle relazioni, dimensione insita nel cuore di ogni persona. Con il Covid si è scoperto quello che almeno noi dal punto di vista sanitario sapevamo:
la componente relazionale è componente di cura a tutti gli effetti.
Il Papa parla di relazioni del malato “con Dio, con gli altri – familiari, amici, operatori sanitari – con il creato, con sé stesso”. Quindi invita a prendersi cura della persona malata nella sua inscindibile totalità di componenti fisico-biologica, emotiva, ma anche spirituale.
È proprio così. Secondo la magnifica definizione del card. Sgreccia,
la persona è una totalità unificata di corpo, mente e spirito.
Ma in questi decenni il sistema di cura ha perso di vista questa totalità e si è concentrato quasi esclusivamente sulla dimensione biologica, sul corpo, sulla patologia da combattere. Ma la patologia non esiste a prescindere dalla persona. Quindi un sistema di cura integrale, come vuole essere il sistema di cura, deve prendere in carico anche la dimensione psichica e spirituale. Luca Argentero, nella terza serie della fiction “Doc – Nelle tue mani” in onda in questi giorni, parlando in una scena con un suo specializzando, fa dire al suo personaggio, il dottor Fanti:
“Se noi curiamo solo il corpo della persona, la curiamo al 50%”.
Io sono perfettamente d’accordo. Occorre recuperare l’asse portante della cura che è la relazione.
Il Papa mette in guardia dalle cure ridotte e mere prestazioni sanitarie e sottolinea il bisogno di una vicinanza piena di compassione e tenerezza sul modello del Buon samaritano, capace di “rallentare il passo e farsi prossimo”. Affermazione bellissima e ricca di significato, ma poco praticabile: come si fa oggi a rallentare il passo in ospedali e ambulatori dove l’attività è scandita da ritmi frenetici?
Ci troviamo a fare i conti con un importante scollamento tra l’erogazione delle prestazioni e la cura. In alcuni casi riusciamo a curare i pazienti, in molti casi anche a guarirli, ma non riusciamo a farli sentire curati. La persona riceve la prestazione, ma non si sente curata, perché quest’ultima dimensione appartiene al tema delle relazioni. Non abbiamo tempo, perché il sistema è compresso sul concetto di prestazione. Non a caso rileviamo una grande fatica, anche professionale, da parte dei curanti – medici e infermieri – profondamente insoddisfatti perché si sentono “distributori di prestazioni” mentre sono nati per relazionarsi con il paziente e avviare un percorso di cura. Argentero cita anche una mia affermazione: “Noi siamo persone che curano persone”. Insomma,
occorre recuperare la dimensione umano-relazionale della cura.
Bisogna andare verso un sistema che permetta questo, ma occorre avere un numero sufficiente di curanti che si possano relazionare con un numero adeguato di pazienti.
Sono invece davanti agli occhi di tutti le immagini di Pronto soccorso congestionati, file d’attesa interminabili, cronica carenza di medici e infermieri costretti a turni massacranti, risorse finanziarie inadeguate… Oltre al modello di cura è in crisi il rapporto di fiducia medico-paziente, come dimostrano la medicina difensiva e le continue aggressioni ai sanitari.
Questo è il nodo fondamentale. Abbiamo un servizio sanitario che funziona, e funziona bene. Eroga molte prestazioni. Potrebbe funzionare meglio? Certo, ci sono delle distorsioni, lo sappiamo, però si tratta di un sistema che fondamentalmente tiene, ma la sfiducia che si è creata nasce dal fatto che è stata umiliata la dimensione relazionale. Abbiamo da poco celebrato i 45 anni del Ssn, e lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha affermato che è un sistema da difendere e aggiornare. Nel 1978, quando è stato creato il servizio sanitario nazionale, il tessuto sociale, la ricerca e il modo di fare medicina erano completamente diversi. C’è bisogno di un ripensamento, e il Pnrr in questo momento sta fallendo i suoi obiettivi perché non vediamo i risultati di un ripensamento globale del sistema in cui le forze vengano ridistribuite e le opportunità ricalcolate.
L’attuale modello di Ssn è vecchio e superato; va ripensato nei ruoli, nella distribuzione sul territorio, nelle funzioni e nei servizi.
Il 25 gennaio è stato presentato alla Camera dei deputati il manifesto Dignitas curae per una nuova sanità, un progetto che mette al centro della cura la persona e non la malattia…
Sottoscrivo pienamente il manifesto e rinvio la responsabilità alla politica perché è un tema esclusivamente di riflessione, di riorganizzazione e di volontà politica. Se la società si evolve e cambia da sé, i sistemi vanno invece modificati dalle persone. In questo momento abbiamo un disallineamento tra esigenze sociali e risposta dello Stato. Va riallineato il sistema. Il Covid ha suonato la sveglia; ha dato uno schiaffo a tutto il sistema. Se non cogliamo questa lezione, decine migliaia di persone saranno morte invano.
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