LA PAROLA DI OGGI E’ Dischiudere di-schiù-de-re (io di-schiù-do) SIGNIFICATO Aprire appena e lentamente; scoprire, rivelare, mostrare
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Dischiudere
di-schiù-de-re (io di-schiù-do)
SIGNIFICATO Aprire appena e lentamente; scoprire, rivelare, mostrare
ETIMOLOGIA voce dotta recuperata dal latino discludere ‘squarciare, separare’, derivato di claudere ‘chiudere’ col prefisso dis- che indica separazione.
- «Si sono dischiuse delle possibilità impensate.»
(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)
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A pensarci è un fenomeno strano. C’è il chiudere, c’è l’aprire, e la logica ci dice che dovrebbe bastare così. E invece no, abbiamo il dischiudere. Come si colloca non un semplice contrario ma proprio un negativo di chiudere? Che effetto fa E un ‘disaprire’ c’è o c’è mai stato?
Iniziamo con questo rilievo semplice: ‘dischiudere’ è una parola di grazia struggente. Infatti nel nostro modo ciabattone di esprimerci non ricorre quasi mai. Ma entriamoci con attenzione perché troveremo delle difficoltà insolite.
Dobbiamo notare subito che non si tratta di un’invenzione dell’altro ieri — il verbo discludere esiste già nel latino classico — e però questa parola è stata riletta in modo diverso, in italiano. Discludere imperniava i propri significati su uno squarciare, un separare, con un carattere poetico davvero avanzato. Pensiamoci: che un ‘chiudere’ sia volto con un prefisso di separazione in uno squarciare, in uno spaccare, è concettualmente complesso. Ma possiamo spiegare il fenomeno così: sappiamo bene che la chiusura è anche separazione (la porta che si chiude separa due ambienti); la chiusura che separa in effetti spacca in due, e spaccando apre e squarcia. Una meravigliosa potenza di pensiero, ma l’italiano si muove altrimenti e recepisce questo prestito ponendo accenti diversi.
Il dischiudere è un aprire: c’era qualcosa di chiuso, e quindi di serrato, o inaccessibile, od occulto, e una forza interviene per separare ciò che stretto insieme chiudeva. Con discrezione o con fatica allarga uno spiraglio che svela e manifesta. Capiamo bene che siamo davanti a un’osservazione sottile, e insieme potente.
Se apro una porta, la figura del gesto non si porta dietro sfumature particolari — la rappresentazione è pragmatica e asciutta. Se dischiudo una porta, l’accento ancora fortissimo è sulla chiusura, una chiusura che s’incrina, che si spacca, ma che in qualche misura regge. Ancora siamo prossimi a uno stato di chiusura (il dischiudere non è certo uno spalancare) ma la crepa c’è — c’è lentezza e misura, in questa azione che rovescia la serratura.
Il dischiudere ha un fratello. Lo schiudere è un esito popolare del discludere, più agile come gli esiti popolari tendono ad essere — eppure, notiamolo, viene ad essere: anche in una lingua orale e quotidiana spicca la necessità di un verbo che indichi l’aprire appena e lentamente. Certo il dischiudere ha un’aria più cesellata e protetta, meno smussata dal tempo e dalle urgenze della lingua; ma questa coppia ci testimonia la versatilità del concetto, le virtù espressive che hanno le parole costruite in negativo, anche e soprattutto nell’area vasta della metafora. Un segreto che venga aperto, una via aperta, un panorama aperto hanno qualcosa di squadernato, prosaico ed esaurito, ormai privo del fascino e del piacere della scoperta. Ma un segreto dischiuso, una via dischiusa, un panorama dischiuso hanno la meraviglia di un impedimento che si dissigilla, un consenso, un permesso, uno stendere ancora ricco di promesse indecifrate.
Quella del dischiudere è una lingua premurosa. Con immediatezza conferisce al nostro discorso una ricchezza d’impressioni, e trasmette la sensazione di una ricercatezza piena di riguardo per chi legge e ascolta. Davvero una risorsa preziosa.