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Disabilità: un rapporto getta luce sulle famiglie disagiate. Suor Donatello (Cei): “La povertà è la carenza di fare rete”

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Rinchiuse dentro mura relazionali, istituzionali e di contesto. Le famiglie che versano in una situazione di povertà, e in cui è presente una o più persone con disabilità, vivono in una condizione di isolamento. Ma non solo. Quasi una famiglia su quattro non ha una rete su cui contare e altrettante non hanno ricevuto aiuti o non ne hanno dati. A dirlo è la ricerca “Disabilità e povertà nelle famiglie italiane”, condotta da Cbm Italia, organizzazione umanitaria impegnata nella prevenzione e cura della cecità e della disabilità e nell’inclusione nel Sud del mondo e in Italia, insieme alla Fondazione Emanuela Zancan Centro studi e ricerca sociale, presentata a Roma nell’Archivio della presidenza della Repubblica. In letteratura, viene riconosciuto che le persone con disabilità presentano un maggiore rischio di povertà o esclusione sociale. In Italia al momento mancano però indagini continuative in merito e quella proposta dalla Cbm e dalla Fondazione offre un ambito di conoscenza utile non solo alla ricerca sociale ma soprattutto alla politica.

Basata su un campione composto da 272 persone, raggiunte da un questionario, la ricerca è arricchita anche da 57 interviste qualitative. Nelle risposte emerge come gli aiuti richiesti non siano di natura economica, bensì servizi “umanizzati”, sia per la persona con disabilità sia per i familiari, che siano in grado di mettere la persona al centro, per una presa in carico globale. Ma in particolare le famiglie coinvolte nello studio percepiscono e vivono in una condizione di isolamento: una su sei non riceve alcun supporto dalle istituzioni e una su quattro non può contare su una rete informale fatta di amici, parenti non conviventi o volontari. Basti pensare che oltre il 70% non può contare su una rete di amici per il supporto (materiale e immateriale) e il 55% non partecipa ad associazioni di supporto alla disabilità, in particolare dove si registra un basso livello educativo. L’isolamento deriva infatti anche dalla scarsa conoscenza delle opportunità esistenti e dalla poca consapevolezza dei propri diritti.

Dalle istituzioni, le persone vorrebbero maggiore supporto. “La politica e il governo hanno il compito di saper ascoltare. Nessuno di noi cammina con la verità in tasca”, osserva Maria Teresa Bellucci, viceministra del Lavoro e delle Politiche Sociali. “Il governo – prosegue – non basta da solo e non basta a trovare per l’attuazione di tutti i valori”. La viceministra ricorda come lo scorso 25 gennaio abbia portato in Consiglio dei ministri il decreto legislativo per realizzare la riforma per gli anziani non autosufficienti: “In un tempo record – osserva – abbiamo stanziato delle risposte iniziali di oltre un miliardo di euro, non creando maggiori debiti, ma individuando in ogni cassetto dei risparmi che giacevano nelle casse dello Stato. Per tutta la legislatura continueremo a costruire insieme ai soggetti coinvolti le istituzioni fondamentali”.

“La prima istanza di cura è conoscere le condizioni”, ricorda mons. Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei. “Per conoscere – prosegue nel videomessaggio trasmesso – bisogna interrogare e serve che ogni uomo e ogni donna possa raccontare i propri disagi”. Il mondo, secondo mons. Baturi, può cambiare con l’educazione “con gli strumenti dell’analisi, le proposte, la politica e le tante azioni individuali che permettono di coordinare i tessuti esistenziali a favore dei fratelli”.

A proposito del rapporto, suor Veronica Donatello, responsabile del Servizio nazionale per la Pastorale delle persone con disabilità della Cei, commenta come “alcuni numeri facciano veramente paura” e per questo è necessario trarre delle indicazioni, come per esempio, dare informazioni chiare sulle reti di supporto alle famiglie sin dalle sale d’aspetto degli ospedali o nelle strutture sanitarie dove ricevono le diagnosi.

“La povertà è la carenza di fare rete – afferma – perché bisogna rubare le informazioni. In questi anni sono nati alcuni progetti che hanno fatto rete. Alcuni sono sul durante e dopo di noi, altri nascono con le associazioni. Si cerca di accompagnare le varie risposte. Con le scuole professionali, per esempio, stiamo cercando di formare dei quadri perché le persone con disabilità possano lavorare. Questo si può fare se si fa rete e se si mette in moto una sana creatività che esce dalla pastorale delle bandiere e parte dall’ascolto reale”.

“Più che uno studio, è stato un ascolto”, spiega infine Massimo Maggio, direttore generale di Cbm Italia. “Ci siamo messi – prosegue – in questo atteggiamento dando la parola alle persone con la consapevolezza che ascoltare è più che sentire. L’opera di ascolto è passata attraverso una metodologia che ha coinvolto persone che vivono in famiglia e in una condizione di disagio. Le quattro evidenze richiamano quanto sia necessario mettere al centro la persona con disabilità con un approccio multidimensionale, a 360 gradi, per uscire dall’assistenzialismo, abbandonando la gabbia diagnostica che comprime spesso la persona con disabilità. Le indicazioni offerte dalla ricerca sono orientate a creare le condizioni per abbattere i muri che isolano, investire in servizi promotori di umanità, riconoscere di valorizzare la capacità di ogni persona, promuovere realtà inclusive”. In finale “la ricerca – conclude – vuole essere uno strumento di supporto per le organizzazioni, le istituzioni e chi lavora per promuovere una cultura dell’inclusione”.

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