Israele e Hamas, 100 giorni dopo: Gerusalemme, la paura di Ilia che non vuol perdere il papà
(da Gerusalemme) Ilia si stringe al saio di padre Ibrahim e sorride, quasi nascondendosi alla vista. La visita inaspettata di un piccolo gruppo “Diòmira Travel” dall’Italia – 9 sacerdoti dalle diocesi Piacenza, Milano e Cremona – ha colto di sorpresa tutti nella Terra Sancta School di Gerusalemme.
Dal 7 ottobre scorso, giorno dell’attacco terroristico di Hamas ad Israele e il conseguente scoppio della guerra a Gaza, Ilia non fa altro che chiedere il telefono alla sua maestra perché, dice, deve chiamare suo papà per sapere dov’è. La sua paura, infatti, è di perderlo a causa delle bombe e dei razzi. La paura di Ilia è la stessa di tanti altri bambini e bambine palestinesi, rimasti vittime, come i loro coetanei israeliani, della guerra di Gaza. Padre Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa, racconta la storia di Ilia mentre saluta i 400 alunni della scuola, rientrati solo lunedì 8 gennaio, dopo il periodo di vacanza natalizia. “Tornare a scuola – spiega il frate – è un modo per riacquistare un po’ di normalità, di fiducia e di serenità. Tutto intorno qui parla di guerra, di odio, di rancore e soprattutto di paura. Prima di Natale abbiamo fatto una manifestazione per la fine della guerra e per il dialogo. Siamo convinti che sia questa la strada maestra per uscire dalla situazione drammatica in cui ci troviamo.
Mentre gli altri fanno la guerra noi costruiamo la pace.
Hanno paura gli ebrei, hanno paura gli arabi israeliani, hanno paura i palestinesi. Tutti hanno paura dell’altro. Nei luoghi di lavoro colleghi arabi e israeliani che prima andavano d’accordo adesso non si parlano più. Ci vorranno anni per ricucire la società israeliana al suo interno. Ma dobbiamo farlo”.
Crisi crescente. La paura di Ilia è anche quella delle tante famiglie rimaste senza lavoro. Una delle principali fonti di reddito, il turismo e i pellegrinaggi, si è praticamente azzerata con lo scoppio della guerra. I luoghi santi si sono svuotati di turisti e di pellegrini, Gerusalemme e Betlemme sono praticamente deserte. Nella città santa si notano solo sparuti gruppi di indonesiani e dal Corno d’Africa, entrati dalla Giordania e dall’Egitto. In molti hotel israeliani i turisti e pellegrini sono stati rimpiazzati da migliaia di sfollati che prima della guerra abitavano al confine con Gaza e con il Libano e sotto tiro di Hamas e di Hezbollah. Peggio è andata ai circa 90 hotel palestinesi di Betlemme che sono praticamente tutti chiusi. La città natale di Gesù è di fatto sigillata. I check point sono aperti per pochissime ore e solo per consentire il passaggio a chi detiene un permesso speciale rilasciato da Israele. I 70mila i palestinesi che ogni giorno, dalla Cisgiordania, varcavano i check point israeliani per recarsi in Israele per lavorare si sono visti i loro permessi sospesi o revocati. Oggi sono disoccupati. La crisi economica si avvita sempre di più a quella militare con esiti tragici a livello sociale.
Santuari vuoti. Partendo da Betfage, il convento delle Palme, sul versante orientale del monte degli Ulivi, passando per il monastero delle carmelitane del Pater Noster, per il santuario del Dominus Flevit, fino al Getsemani, è difficile incontrare qualcuno che non sia un abitante del posto. Anche per entrare nei santuari bisogna bussare per farsi aprire.
“Quando ho sentito la campana sono rimasto sorpreso – dice sorridendo fra Silvio, il guardiano di Betfage – è dal 7 ottobre che da qui non passa nessuno”.
Nonostante tutto la fraternità francescana continua la sua missione al servizio dei più poveri, non solo cristiani, perché spiega il frate “è il modo migliore per rispondere alla guerra e alla violenza”. La strada sotto la basilica dell’Agonia, anche detta delle Nazioni, è vuota. Le file di bus parcheggiati in attesa di riprendere i gruppi dei pellegrini non ci sono e così anche spostarsi verso il Santo Sepolcro, nel cuore della città vecchia di Gerusalemme, non richiede molto tempo. Dentro la basilica, conosciuta dai cristiani locali come “chiesa della resurrezione” non si vedono pellegrini ma solo operai e archeologi dell’università La Sapienza di Roma impegnati in lavori di scavo. I negozi intorno al Santo Sepolcro hanno tutti o quasi le saracinesche abbassate. “Chi è aperto – racconta un negoziante di souvenir, vicino a St. Helena road, a poche decine di metri dalla basilica – lo fa solo per trascorrere il tempo e nella speranza di guadagnare la giornata e andare avanti. C’eravamo ripresi dopo il Covid, ma adesso è dura”.
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