In volo con i rifugiati afgani dei corridoi umanitari dal Pakistan
Sono atterrati oggi alle 13.30 a Roma Fiumicino 25 rifugiati afgani arrivati da Islamabad, in Pakistan, con i corridoi umanitari gestiti da Caritas italiana per conto della Cei, nell’ambito del Protocollo siglato con il governo italiano. Si tratta del secondo volo in programma per portare in Italia in questi giorni 93 persone ma una donna è rimasta in Pakistan per motivi sanitari e arriverà successivamente. 22 afgani sono arrivati ieri e altri 45 arriveranno domani, 7 dicembre. La procedura per reinsediarli in un altro Paese è sempre lunga e complessa. Stavolta, fino a poche ore prima della partenza, il governo pakistano non aveva ancora consegnato i permessi di uscita.
A Islamabad l’informativa pre-partenza. “Italy it’s in Europe and it’s part of the European union. Italy is where the Pope lives and the 90% of the population is catholic”: lunedì 4 novembre, prima delle partenze in tre giornate consecutive, i 93 richiedenti asilo hanno partecipato tutti insieme ad un incontro in un hotel di Islamabad, tradotto in lingua farsi. Gli operatori Caritas hanno illustrato gli aspetti logistici e burocratici del viaggio, cosa accadrà nei prossimi mesi della loro nuova vita, dando informazioni di base sull’Italia, sul clima, sul cibo, sulle istituzioni, sulla sanità e l’educazione gratis, sulle Caritas diocesane che li accoglieranno per un anno.
Per molti di loro è un salto nel buio ancora più grande della fuga disperata dall’Afghanistan nel vicino Pakistan.
Qualcuno conosce l’Italia solo per il cibo, il football o perché ne ha sentito parlare da familiari o amici già arrivati nei precedenti corridoi umanitari. Comunque, in maniera molto superficiale. Il primo passo fondamentale, sottolineano gli operatori Caritas, è la conoscenza della lingua italiana. Una famiglia di Kabul con 6 figli che andrà ad Assisi si è già preparata durante l’esilio pakistano: hanno tutti studiato italiano 3 ore al giorno e anche se ancora non lo parlano iniziano a capire qualcosa. Ayet, una bambina di 7 anni, già dice bene “Ciao, come stai, bene, grazie”.
Cosa significa vivere in una democrazia. Un passo chiave del discorso è la spiegazione di cosa significhi vivere in una democrazia, concetto non facile da spiegare a chi si è trovato a fuggire da un regime. “Democrazia vuol dire riconoscere i diritti fondamentali e le libertà di tutti – spiegava Oliviero Forti, di Caritas italiana -. Tutti i cittadini sono uguali, c’è libertà di religione, potete esprimere il vostro pensiero e protestare, sempre nel rispetto dell’altro”. Un passaggio delicatissimo, a cui alcune donne più giovani assistono con il sorriso (gli uomini rimangono impassibili o pensierosi), è quello sull’uguaglianza tra i generi: “Sappiamo che portate con voi la vostra cultura e le tradizioni ma dovete conformarvi alle leggi europee. In Europa le donne sono libere, lavorano e devono contribuire al bilancio finale perché la vita è molto costosa. Parlatene in famiglia perché se un uomo impedisce alla donna di lavorare, l’integrazione è un disastro”. Altro avvertimento riguarda la possibilità, come già accaduto in passato, che qualcuno decida di rifiutare l’accoglienza in Italia e procedere in maniera autonoma verso la Germania, per raggiungere reti familiari o amicali. “Sappiate che per la legge europea non si può lasciare il primo Paese di asilo e dovete rimanere in Italia per ottenere lo status di rifugiato. Si può viaggiare tre mesi l’anno per turismo ma non potete lavorare e vivere in un altro Paese. Se decidete di partire vi esponete a grossi rischi e all’irregolarità. Se avete questa intenzione parlatene con le Caritas diocesane, per stabilire un rapporto di onestà e fiducia reciproca”.
Il viaggio è iniziato con l’appuntamento all’aeroporto di Islamabad alle 11 per prendere il volo per Doha alle 3 di notte. Gli operatori Caritas hanno messo etichette sui bagagli e consegnato badge, con il supporto del personale dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, presente in aeroporto per facilitare le procedure. Sono stati effettuati almeno cinque o sei controlli di documenti e bagagli:
una vita intera in volo verso l’Europa racchiusa in 25 kg di valige e trolley. La maggior parte non aveva mai preso un aereo.
Tra loro numerose famiglie con tanti bambini, anche molto piccoli. E alcune signore più avanti con l’età che faticavano a tenere il passo. Tra i pochi rifugiati che parlano inglese c’è Nida, 30 anni (sono nomi di fantasia per motivi di sicurezza). E’ l’unica che viaggia da sola, la più provata. Nida esercitava come medico di base ma con la salita al potere dei talebani nell’agosto del 2021 le è stato impedito di continuare a lavorare. E’ fuggita in Pakistan con la sua famiglia, rimasta a Islamabad. Spera di riuscire a specializzarsi negli atenei italiani e ricongiungersi alla famiglia.
Stessa sorte è toccata a Naima, che insegnava scienze infermieristiche all’università. Con i talebani tutte le docenti donne sono state obbligate a smettere di lavorare. Gli uomini hanno scelto di lasciare le cattedre e il Paese. “Ora nella metà delle facoltà universitarie si insegnano materie religiose”, racconta il fratello Omar, 19 anni. Ha finito le scuole superiori poco prima dell’agosto 2021, parla già un buon inglese e vuole studiare ingegneria. E’ lui ad aiutarci a tradurre dall’inglese al farsi durante il lungo viaggio. “Le donne non possono più lavorare e studiare, devono indossare il burka – prosegue Omar -. Gli uomini devono portare la barba lunga e non possono indossare i jeans. In Afghanistan c’è molto malcontento e paura, ho la sensazione che si stia preparando una ribellione interna al regime, anche se non so quante possibilità di successo potrà avere”. Fratello e sorella hanno lasciato a Islamabad altri 8 membri della famiglia, tra cui due bimbi sotto i 5 anni. Il momento più duro è stato qualche mese fa durante il passaggio della frontiera tra Afghanistan e Pakistan. Il fratello maggiore era stato militare nell’esercito sotto gli americani e al confine volevano arrestarlo. Quando racconta la paura avuta in quell’occasione Naima ancora si commuove. Sono riusciti a passare con uno stratagemma. “Vogliamo integrarci bene nella società italiana – dicono – e poi provare a far venire il resto della famiglia”.
Al transfer all’aeroporto di Doha non è stato facile tenere insieme tutto il gruppo, in mezzo a tanti viaggiatori da tutto il mondo. L’accorgimento costante era di contarli in continuazione e farli camminare in fila indiana. Una signora anziana camminava a fatica e non riusciva a tenere il passo. Fortunatamente le hostess della Qatar airways hanno facilitato i controlli. Ma gli imprevisti sono sempre in agguato in una iniziativa così complessa, dai mille aspetti procedurali: uno del gruppo ha dimenticato una borsa con alcuni documenti al bagno dell’aeroporto di Doha. All’inizio si temeva fosse il passaporto, in realtà era la patente di guida, che non è stata più ritrovata.
Salire sul volo per Roma è stato un altro momento emozionante, anche se erano già molto stanchi. Dopo oltre 10 ore di volo e un transfer di 5 ore, appena l’aereo ha toccato terra a Fiumicino gli afgani sono stati condotti dalla polizia al Terminal 5 per i controlli, le impronte digitali e per l’avvio ufficiale della procedura per la richiesta di asilo in Italia. Dovranno passare ancora cinque o sei ore finché tutti potranno uscire sul suolo romano,
finalmente in una terra libera, in una democrazia.
Ad aspettarli al Terminal 5 alcuni parenti già in Italia, i delegati delle 15 Caritas diocesane coinvolte nell’accoglienza e altri operatori di Caritas italiana. Una famiglia sarà accolta dalle suore di Madre Teresa di Calcutta. Qualcuno rimarrà a Roma, altri dovranno ancora continuare il viaggio verso la destinazione finale con auto o pulmini verso Savona, Belluno, Vittorio Veneto, Assisi, Piana degli Albanesi, Biella, Frosinone, Gaeta, Milano, Piana degli Albanesi, Pordenone, Sorrento, Tricarico, Udine, Ugento e Verona. Alcune famiglie trascorreranno la notte a Roma per riposare un po’ – anche perché ci sono due o tre bambini molto piccoli – prima di raggiungere le rispettive diocesi.
Si è trattato dell’ultimo corridoio umanitario dal Pakistan che conclude le 300 quote assegnate a Caritas italiana nell’ambito del Protocollo firmato da Cei, Fcei (Federazione Chiese evangeliche italiane), Arci, Comunità di Sant’Egidio con il governo italiano. È stata già fatta richiesta per aumentare le quote, si è in attesa di una risposta. Dal 2017 ad oggi sono entrati per vie legali e sicure migliaia di persone, grazie al finanziamento della società civile. La Chiesa italiana impegna per i corridoi umanitari milioni di euro dell’otto per mille.
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