Sortire sor-tì-re (io sor-tì-sco) SIGNIFICATO Sorteggiare; destinare, assegnare in sorte; avere in sorte; ottenere, raggiungere ETIMOLOGIA dal latino sortire ‘avere in sorte, sorteggiare’, da sors ‘sorte, tessera per la divinazione’.
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Sortire
sor-tì-re (io sor-tì-sco)
SIGNIFICATO Sorteggiare; destinare, assegnare in sorte; avere in sorte; ottenere, raggiungere
ETIMOLOGIA dal latino sortire ‘avere in sorte, sorteggiare’, da sors ‘sorte, tessera per la divinazione’.
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«L’intervento non ha sortito effetti.»
(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)
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Parole come queste ci raccontano la contiguità di concetti che nella nostra mente confliggono. Tralasciando il bel rilievo che il conflitto è esso stesso una forma di vicinanza, qui il conflitto è una questione di prospettiva.
Il sortire ci parla di un ‘avere in destino’, e anche la sorte è un destino. Ma come? Dovrebbe essere radicalmente casuale, no? Se tiro a sorte, è proprio per non decidere col mio arbitrio e lasciare al caso — e il destino per contro dovrebbe essere qualcosa di non casuale, ma scritto in precedenza, che può essere svelato e che non può mutare. Il destino non è certo in balia del fortuito. Addirittura (come abbiamo già notato in passato) le sorti stesse erano in antichità delle tessere che venivano lanciate per sorteggi (!) e per divinazioni. Ma ecco lo snodo culturale, il problema di prospettiva: questo genere di cleromanzia, di divinazione su eventi casuali, determinava il destino così come era predetto da un evento solo apparentemente casuale.
Nella prospettiva antica il caso non esiste, praticamente tutto è un messaggio, più o meno facile da leggere. Le sorti lanciate a caso (ti pare) descrivono un futuro ineludibile.
Il latino sortire (sortiri nel latino classico, col significato di ‘sorteggiare’) passa in italiano per via popolare conservando il significato di ‘tirare a sorte’ e di ‘ottenere in sorte’ — ma lo fa via via selezionando, diciamo pure sortendo, degli esiti particolari.
Il sortire nel senso di ‘sorteggiare’ infatti è desueto (non diciamo che sortiremo a chi toccherà l’ultimo pezzo di croccante). Anche il sortire nel senso di ‘avere in destino’ e ‘assegnare in destino’ (eloquentissima ambivalenza) non è comune: se non proprio desueto, ha almeno una levatura letteraria. Se parlo della bella terra che il cielo ci ha sortito, dell’amica che sortisce una fortuna sfacciata in un ambito lavorativo pieno di incertezze, si sente bene che sto sostenendo il tono del mio discorso.
Il sortire più comune è quello che porta all’estremo il concetto, quello che funzionalizza il destino, che lo asciuga in una dimensione puntuale di risultato: è un ottenere, un raggiungere. Così ragioniamo di come la provocazione abbia sortito il suo effetto, di come la medicina sortisca la guarigione sperata, delle reazioni contrastanti sortite dalla dichiarazione. Qui l’avere e l’assegnare in destino perde di respiro, e si concentra sul piccolo cabotaggio degli eventi che si avvicendano come pietre miliari — usciti come escono gli oracoli delle sorti, i numeri dei dadi. L’esito stesso è etimologicamente un ‘uscito’.
Già, di qui recuperiamo un ‘sortire’ ulteriore, che figura come parole diversa. Tramite un passaggio in francese (sortir) l’uscire in sorte si fa ‘uscire’ in genere, anche se specie in un uso locale, del centro Italia: con con questo tempo figuriamoci se sorto di casa (la coniugazione qui è ‘io sorto’, non ‘io sortisco’), e non so da dove siano sortiti fuori tutti questi cappelli, pensavo di averne uno solo. Niente di strano: dopotutto, dalla città stretta in una dura morsa ossidionale si tenta una coraggiosa sortita.
Caso non contemplato come caso, caso che si fa previsione, riconoscimento e attribuzione del destino, eventi che scandiscono il destino come risultati, effetti ed esiti, tessere che escono dal bussolotto, uscita del risultato, uscita della sorte dall’impenetrabilità del futuro, uscita letterale. Uno splendido carotaggio del viluppo di concetti che la nostra mente, con le nostre parole, radica. Condividere parole significa condividere un immaginario concettuale, una forma della mente.