Orfani di femminicidio. Delmonte: “Non siano più invisibili”. Per fermare la violenza “necessario un cambiamento culturale”
Quando un uomo usa violenza e poi uccide la propria moglie, quest’ultima non è l’unica vittima dell’efferato delitto. Spesso ci sono figli, i cosiddetti orfani speciali, che vivono sulla loro pelle il dramma della morte della madre, il dolore di sapere che è stato il padre ad averli privati di lei, la violenza assistita che hanno subito negli anni e le difficoltà della vita quotidiana perché all’improvviso si trovano senza il loro punto di riferimento. Abbiamo raccolto la testimonianza di Giuseppe Delmonte, la cui mamma fu uccisa il 26 luglio 1997, dal padre Salvatore, in provincia di Varese.
“Mia madre, Olga Granà, ha vissuto con quest’uomo, che si è rivelato mostro già il giorno dopo il matrimonio, 24 anni di inferno dove lui ha manifestato tutta la sua malvagità prima attraverso la violenza psicologica, poi è subentrata quella fisica fino all’epilogo finale. In tutta questa storia ci sono tre figli, io sono l’ultimo, i quali hanno dovuto assistere purtroppo a tutta la sua furia, inizialmente contro mia madre e poi contro di noi, che eravamo a fianco di mamma”, ci racconta Giuseppe. “Crescendo siamo stati noi figli a convincere mia madre a lasciare quest’uomo perché non ne potevamo più. Io avevo 13 anni quando si è separata, ma mia madre sapeva che separandosi andava incontro alla morte. Noi, invece, non pensavamo che mio padre potesse arrivare fino a così tanto e le dicevamo che l’avremmo difesa noi essendo ormai grandi, mentre lui si sarebbe rifatto una vita”. Dalla separazione “sono passati altri 5 anni di stalking pressante, con pedinamenti, l’aspettava ovunque, dal supermercato al posto di lavoro, fin quando, dopo 5 anni scortata dai propri figli, l’unica volta che mia madre era da sola l’ha uccisa, facendole un tranello. Era la prima volta, dopo 5 anni, che il giudice aveva imposto a mio padre di pagare l’assegno di mantenimento, con vaglia postale che doveva riscuotere mia madre. Noi eravamo andati via dalla casa di famiglia che era stata tenuta da mio padre e il giudice aveva stabilito che lui avrebbe dovuto versare un vaglia mensile. Mia madre lavorava tutta la settimana, mio padre sapeva che poteva cambiarlo solo il sabato mattina e così l’ha aspettata davanti alla posta. Quel giorno, il 26 luglio 1997, mia madre andò da sola e si trovò lui armato con un’ascia: la colpì con 7 colpi di ascia. Quando mia madre fu uccisa aveva 51 anni. Io avevo 19 anni ed ero l’unico ad abitare ancora con mamma. Mia sorella si era sposata 3 anni prima, mio fratello già abitava da solo.
Dall’uccisione di mia madre ci è crollato un mondo addosso perché siamo stati noi a convincerla a lasciarlo, sommersi dal senso di colpa per non essere riusciti a proteggerla e salvarla”.
Dopo l’omicidio l’uomo è scappato e i figli messi sotto scorta per 4 giorni, finché non è stato catturato. “La sera prima dell’omicidio era andato a far affilare l’ascia da una persona, che dopo la morte di mia madre si è recato dai carabinieri dicendo che era stato lui ad aver affilato l’ascia e che mio padre gli aveva detto che l’indomani avrebbe sterminato la famiglia. Al momento aveva pensato che fosse una battuta anche perché sapeva che mio padre era separato ma sapeva anche che l’ascia gli serviva per spaccare la legna, quindi abitualmente gli affilava l’ascia. Inoltre,
noi eravamo considerati la famiglia del Mulino bianco. Lui era capace di nascondere il suo lato oscuro.
Agli occhi della società avevamo l’auto bella, le vacanze belle. Lui ci portava in giro come trofei, come per dire che i suoi figli erano belli e bravi, educati, studiosi. Lui era l’amico che tutti vorrebbero avere, che si spendeva, che aiutava tutti, mentre in casa faceva violenza psicologica nei nostri confronti: per esempio, comprava i giocattoli ai figli degli altri, ma a noi no. Se qualcuno contraccambiava con un regalo per noi, appena arrivavamo a casa prendeva il giocattolo e ce lo rompeva, perché non dovevamo giocare, non dovevamo ridere, non dovevamo guardarlo negli occhi, ci costringeva a fare la doccia con l’acqua fredda e a non usare il riscaldamento, quindi ci costringeva a dormire con 3 o 4 maglioni, più coperte, con la casa gelida: economicamente stavamo bene, ma era un suo modo di infliggerci torture psicologiche, di controllo ossessivo, compulsivo nei nostri confronti”. Dopo la deposizione del testimone i carabinieri erano convinti che Delmonte fosse scappato per uccidere anche i figli. “Così ci hanno messo sotto protezione con la scorta in 3 posti differenti, per 4 giorni, nei quali non ho visto mio fratello e mia sorella, se non dai carabinieri quando ci convocavano tutti e tre per portare avanti le indagini”.
Non ci sono stati solo dolore e paura. “Il vuoto istituzionale dell’epoca è stato alquanto vergognoso e devastante – denuncia Giuseppe -. Il giorno del funerale, il 30 luglio, sarei dovuto partire per il militare, quel giorno il comandante dei carabinieri ha chiamato il distretto militare di Como dicendo che io non ero in grado di andare, essendo anche sotto scorta. Mi sarei aspettato da uno Stato civile che non l’avrei dovuto fare più: invece, mi hanno detto che non sarei partito il 30 luglio, ma a novembre. Non si sono posti il problema di dove potevo dormire, se potevo pagarmi un affitto, un mutuo, le bollette di casa. A novembre parto per il servizio civile che farò fino a giugno dell’anno dopo, mi hanno abbonato solo gli ultimi due mesi e ho avuto il congedo illimitato, ma dopo che si sono mosse autorità, dal sindaco all’assessore e al comandante dei carabinieri, durante questi 9 mesi di servizio civile. Questo è stato l’aiuto che mi ha dato lo Stato. Lo stesso Stato che non ha saputo difendere mia madre, dopo tutte le denunce che aveva presentato, lo stesso Stato che ha permesso che 3 ragazzi vivessero una situazione di violenza domestica documentata.
Per lo Stato io e i miei fratelli eravamo invisibili”.
Suo padre è stato condannato all’ergastolo? “Sì, ma dopo 5 anni di processi, vivendo con l’ansia di potercelo trovare davanti. Fino all’ultimo grado di giudizio non siamo stati tranquilli. Mio padre in primo grado è stato condannato a 22 anni, perché il presidente della giuria non gli aveva dato l’aggravante della crudeltà, in quanto il medico legale aveva dichiarato che mia madre era morta con il primo colpo di ascia preso da dietro che aveva reciso la carotide, quindi in fin dei conti lei non aveva sofferto. Gli altri colpi erano stati dati in successione ma non erano stati mortali. Fortunatamente abbiamo trovato un Pm a Milano che si è preso a cuore la vicenda e la Corte di assise d’appello di Milano era formata tutta da donne: sta di fatto che il Pm è riuscito a fa ribaltare la sentenza mostrando le fotografie di come era ridotta mia madre dopo i 7 colpi di ascia alla giuria, 3 componenti si sono sentite male vedendole. Dopo 6 ore di camera il verdetto è stato la condanna all’ergastolo. Solo allora noi figli ci siamo detti che eravamo salvi, anche se 5 anni fa lui ha chiesto la grazia al presidente della Repubblica”. In realtà, aggiunge,
“lui è stato condannato all’ergastolo, ma noi siamo stati condannati, nel momento in cui ha ucciso mamma, all’ergastolo del dolore,
è una pena che noi ci porteremo fino alla tomba, che nessuno può alleviare né togliere. Lui ha la fortuna di poter chiedere la grazia per il suo ergastolo, noi no”.
Come ha fatto a ricostruirsi una vita “Il mio sogno, fin da ragazzino, era fare il chirurgo, tanto che tra i crucci di mia madre era che separandosi non avrebbe potuto mantenermi all’Università e io la rassicuravo che avremmo trovato un modo per pagare l’Università. Perciò, dico che
questi uomini prima di essere assassini sono ladri di sogni,
perché rubano i sogni ai bambini: ti portano via la cosa più importante che un bambino possa avere che è la madre, ma poi ci sono tanti aspetti collaterali. Mio padre mi ha rubato il sogno di diventare chirurgo: un ragazzo di 19 anni a cui succede una tragedia del genere non ha più la testa e la capacità e la voglia di mettersi a fare un percorso lungo 10 anni per diventare chirurgo. Comunque, mi sono rimboccato le maniche, mi sono iscritto a Infermieristica e da vent’anni ormai sono lo strumentista del chirurgo. Sono felicissimo di quello che faccio, è un lavoro che mi edifica molto. Il mio lavoro mi ha salvato, mi sono completamente dedicato al lavoro in modo da esorcizzare tutto quello che mi era successo. Per vent’anni mi sono chiuso in una bolla, ho cambiato casa e amicizie, non ho detto a nessuno la mia storia e quando capitava che qualcuno mi chiedesse dei miei genitori dicevo che erano morti in un incidente stradale. Era talmente grosso il dolore che avrei dovuto affrontare dicendo la verità che non avevo la forza di portare a galla un dolore così lancinante”.
Decisivo è stato andare in psicoterapia: “Lo psicologo ha scavato, mi ha chiesto dei miei genitori e gli ho detto la verità, lui è riuscito a portare a galla i mostri che avevo dentro fino a portarmi a capire l’importanza di andare in carcere a trovare mio padre, dopo più di vent’anni, per capire se si era pentito. Nel tempo mio padre aveva iniziato a scrivermi dicendomi che prima di morire voleva essere perdonato. Mi chiedevo se si fosse pentito, ma non era così: quando l’ho incontrato ho ritrovato la stessa identica persona, narcisista patologico, manipolatore, ha tentato di manipolarmi anche durante il colloquio, volendomi far credere cose che non erano avvenute, peccato che non si è più ritrovato di fronte il tredicenne che aveva lasciato ma un uomo fatto, lì ho chiuso il cerchio con il passato e sono rinato”.
Al tempo stesso, prosegue Giuseppe nel racconto, “mi sono reso conto che nulla era cambiato rispetto ai vent’anni precedenti: ancora oggi una donna muore ogni 3 giorni e gli orfani non sono tutelati. A questo punto mi sono chiesto cosa potessi fare per questa causa e partecipando a un convegno organizzato dalla mamma di una vittima di femminicidio ho capito l’importanza di far conoscere questi drammi e la condizione degli orfani. Non la conosce la popolazione e ancor meno la politica, che è riuscita a fare una legge nel 2018 con decreti attuativi nel 2021 e non sa ancora quanti orfani di femminicidio ci sono nello Stato italiano, non esiste un censimento, hanno stanziato del denaro, ma non sanno di quanto ne occorre per soddisfare i bisogni di questi orfani. È una legge che non viene applicata automaticamente: deve richiedere l’orfano l’applicazione. La politica non è in grado di difendere le donne e i bambini dai mostri, ma dovrebbe almeno occuparsi dell’orfano il giorno dopo la tragedia. L’orfano non può aspettare il terzo grado di giudizio, come chiede la legge. Bisognerebbe anche pensare ai caregiver, di solito i nonni, che si trovano all’improvviso a essere ‘genitori’ di 2 o 3 bambini”. Non avendo fiducia in una soluzione politica efficace, Giuseppe crede “in un cambiamento culturale”: “Vado nelle scuole, parlo ai ragazzi, coinvolgo anche genitori e insegnanti. Trovo che la ricetta basilare sia incontrarsi e parlare. La mia generazione, quella dei cinquantenni, sta facendo danni allucinanti con gli adolescenti, perché non insegnano che nella vita possano ricevere un no o vivere una frustrazione, facendo credere che nella vita tutto è dovuto, così la prima volta che si trovano di fronte a un problema reagiscono in modo spropositato. Purtroppo il caso di Giulia e di Filippo è una conferma di questo. C’è tutto un lavoro dal punto di vista culturale da realizzare, facendo cadere certi stereotipi, capire l’importanza della parità di genere e del rispetto dell’altra persona, portare l’educazione affettiva nelle scuole, combattere l’indifferenza.
Nella nostra società individualista, per me l’indifferenza è la prima forma di violenza, uccide prima del femminicidio stesso il far finta di non vedere certe situazioni di violenza e girarci dall’altra parte”.
(Fonte: AgenSIR – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)