E dopo 80 anni, la masseria cade a pezzi. Da oltre 20 anni si parla di Parco della memoria.
Poco distante fu il compianto Don Gerardo Fava, a far installare una croce. Vittime “uccise” per la seconda volta!
Niente è stato fatto sul luogo della strage, se non una frettolosa ripulita della zona per farla trovare meno indecente (ma sempre “cadente”) alle autorità attese per l’ormai annuale “passerella” delle chiacchiere, cioè senza seguito?!
Né tampoco qualcosa è stato fatto per chiarire il mistero dei ventimila euro “scomparsi”, come chiaramente emerso nella discordanza fra quanto dichiarato dal sindaco attuale e dal suo predecessore Nicola Sorbo.
Men che meno risulta il minimo cenno di assenso circa l’appello dello storico Michele Russo di ricordare non solo quelle di monte Carmignano, bensì TUTTE le vittime caiatine della follia bellica: come se qualcuno preferisse fingere di ignorare, come al solito, ben sapendo che tutti sanno?
LA STRAGE DI MONTE CARMIGNANO (MARZABOTTO DEL SUD)
Una strage dimenticata, quella compiuta dai tedeschi in un casolare delle campagne di Caiazzo, e precisamente nella frazione San Giovanni e Paolo, la sera del 13 ottobre del 1943.
Ventidue le vittime, 4 uomini, 7 donne, 11 bambini d’età compresa tra i 3 e 16 anni: donne, uomini, bambini, tutti trucidati con inaudita violenza per ordine di un giovane sottotenente della Wermacht – 29° Panzer Grenadier Regiment, identificato per Wolfang Lehnigk Emden, stanato dopo mezzo secolo, con il reato caduto in prescrizione.
Un giornalista americano inviò allo stato italiano documenti che avrebbero potuto inchiodare Emden ma, per ragioni di “opportunità politica”, furono insabbiati.
L’EPIGRAFE DI BENEDETTO CROCE
“Presso Caiazzo/nel luogo detto San Giovanni e Paolo/alcune famiglie campagnuole /rifugiate in una stessa casa/furono il 13 ottobre MCMXLIII / fucilate e mitragliate /per ordine /di un giovane ufficiale prussiano/ uomini, donne, infanti/ ventidue umili creature/non d’altro colpevoli / di aver inconscie/ alla domanda dove si trovasse il nemico/additato a lui senz’altro la via/ verso la quale s’erano volti i tedeschi/ improvvisario/nelle umane guerre/ma l’atroce presente nemico/dell’umanità.
Questa l’epigrafe dettata da Benedetto Croce sulla tomba delle vittime di Monte Carmignano – dettata due anni dopo la strage, nel 1945 – su una lapide collocata nel cimitero di Caiazzo “solo” nel 1968.
QUELLA MALEDETTA SERA
Sera del 13 ottobre 1943. Le truppe tedesche sono arrivate da cinque giorni. La sede di comando tattico della terza compagnia del 29° reggimento, terza divisione corazzata granatieri, si trova presso una casa colonica di Monte Carmignano, nelle vicinanze del fiume Volturno.
Alle ore venti scatta la follia: il ventenne sottotenente Wolfang Lehnigk-Emden, insieme a due sottufficiali -Kurt Shuster e Hans Gnass – entra nella masseria e avverte il comandante della compagnia che da una casa vicina stanno facendo segnali luminosi.
“Questa gente dovrebbe essere presa e fucilata dice Emden: il comandante Raschke gli risponde di non volersi assumere questa responsabilità e si reca alla sede di comando tattico del battaglione.
Emden a questo punto assume il comando: con Shuster e Gnass si reca nel casolare da dove erano partiti i segnali, presentandosi come inglese, chiedendo loro notizie circa le posizioni tedesche.
E la condanna a morte a questo punto era scattata per gli sfortunati civili, rei di aver indicato la sede di comando tattico della compagnia tedesca.
Le sette persone sono condotte alla sede di comando tattico e fucilate a distanza ravvicinata (due metri).
Emden, non pago, si reca con altri 4 uomini nell’altro casolare E’ la carneficina. Quindici persone, donne e bambini, trucidati con modalità allucinanti: colpi di fucile, di pistola – usate addirittura due bombe a mano. Corpi amputati e violentati con pioli di legno.
IL CASOLARE DELLA MORTE
Calda è l’aria, un sole timido batte sulle mura di tufo della vecchia masseria: visibili ancora dopo 80 anni i fori fatti dai colpi di mitragliatrice.
Tranquillità e inquietudine miscelate nell’aria ormai contaminata da quella maledetta sera del 13 ottobre del ’43; quella sera sarà scoppiato l’inferno, quell’aia, da teatro di vita (vi si erano consumati, come di usanza, conviti nuziali), trasformata da cattivissimi scenografi in teatro di morte.
Una morte giunta improvvisa, inaspettata, strazio e crudeltà inimmaginabili: donne e bambini violentati e mutilati con furia inaudita, una dinamica dei fatti oscura, che pone interrogativi che potrebbero aver scatenato una reazione -risposta cosi dura: ventilato tradimento o l’uccisione di un tedesco, mai giustificheranno l’efferata strage della “Marzabotto del sud”.
QUEL MASSACRO IN PRESCRIZIONE
I responsabili dell’eccidio furono individuati, ma riuscirono a farla franca. Carteggi “scomparsi” – tirati fuori dopo mezzo secolo, per merito di Josepf Agnone, un’italo americano che, dopo ricerche durate anni, riuscì nel 1993 a fare arrestare i responsabili della strage.
Nel 1994 a Santa Maria Capua Vetere, un processo platonico condannò all’ergastolo il boia di Caiazzo.
Nel 1995 a Caiazzo, la “Marzabotto del Sud”, piomba come un macigno, dalla Germania, la notizia che la Cassazione ha decretato la prescrizione del reato di strage per l’ex sottotenente della Werhrmacht che ordinò il massacro di 22 innocenti il 13 ottobre del ’43: una pietra tombale messa sopra al massacro dalla Cassazione tedesca: reato prescritto per l’ex tenentino Emden – divenuto rispettabile imprenditore-architetto, paradossalmente presidente del locale comitato per le feste di Carnevale, “il boia della strage”.
Verità nascoste per troppi, tanti anni. Cinquant’anni.
La barbarie ricordata con un gemellaggio con la città del boia – nato per riflettere insieme sulla guerra.
Con la visione dei microfilm del New York Times inizia la caccia al responsabile della strage del 13 ottobre 1943, compiuta in un casolare delle campagne casertane.
AGNONE, IL CACCIATORE DEL BOIA NAZISTA
Un dossier di 55 pagine, contenente “Il processo di Algeri” – coperto per 40 anni dal segreto militare – inchioderà Emden.
Strage dimenticata, caduta nell’oblio, rimasta impunita, a sessantaquattro anni dalla drammatica sera dell’eccidio, avvenuto il 13 ottobre del 1943, in un casolare di Caiazzo, in provincia di Caserta, per ordine di Wolfang Lehnigk Emden, giovane sottotenente della Wermacht che fece massacrare con violenza inaudita 22 civili.
Si deve a Josepf Agnone, italo-americano originario di Castel di Sasso, la riapertura del caso della strage di Caiazzo.
Con una ricerca minuziosa, durata anni, riuscì, all’inizio degli anni novanta, a scovare il responsabile dell’eccidio.
Migliaia di ore a spulciare negli archivi americani, visionando documenti e microfilm di inviati di guerra del “New York Times” – fino al 1983 coperti dal segreto militare: che lo condussero alla realizzazione di un dossier, inviato nel 1988 alla Procura della Repubblica di S.Maria Capua Vetere.
Dal materiale emergevano la responsabilità dei militari tedeschi nell’eccidio ed una parziale identificazione degli autori della strage. Dossier di 55 pagine riguardante principalmente il cosiddetto “Processo di Algeri”, ovvero gli atti di una commissione militare di inchiesta, guidata dal colonnello Wiliam Clarck, che si occupò nel gennaio 1944 della strage.
Nel 1994, a Santa Maria Capua Vetere, un processo platonico condanna all’ergastolo Emden: nel 1995 la Cassazione tedesca decreta la prescrizione del reato e lascia libero il boia di Caiazzo.
Troppo per i giudici tedeschi, il mezzo secolo trascorso: oltre al danno, la beffa per i parenti delle sfortunate vittime, cittadini compresi dell’intera comunità.
Strage dimenticata, perché prima del gemellaggio con Ochtendung, cittadina tedesca dove risiede il responsabile della strage di Caiazzo, prima degli scambi culturali, di cortesia, di ospitalità con i cittadini e borgomastri tedeschi, le amministrazioni comunali di Caiazzo bene avrebbero fatto a ricordare l’eccidio con un degno sacrario, un museo per non dimenticare quel sacrificio umano: da costruire sul luogo della strage, sul Monte Carmignano.
Un monumento anche semplice, per deporre un fiore: non il fantomatico museo e parco attrezzato sbandierato da amministratori rampanti senza memoria.
Gemellaggio nato per far riflettere le nuove generazioni sulla guerra, in realtà servito ad alcuni delfini dell’amministrazione comunale per rilassanti gite e soggiorni in Germania.
La dinamica non è mai stata chiarita. Due le ipotesi su cosa avesse fatto scattare quella furia omicida.
Tra le quali: l’uccisione di un soldato tedesco da parte dei civili, o il torto di aver indicato agli americani la sede del comando tattico della compagnia tedesca (come recita l’epigrafe dettata nel 1945 da Benedetto Croce).
Segue intervista dell’epoca ad Agnone
Signor Agnone, lei è stato il primo ricercatore a fornire alla magistratura italiana il dossier sulla strage di Caiazzo, ritrovato negli archivi americani. In che modo è riuscito a scoprire questa documentazione?
“Tutto è partito per passione, ero interessato alla storia della seconda guerra mondiale e, in particolar modo, alla guerra del Volturno”.
In che modo ha indirizzato la sua ricerca sulla strage di Caiazzo, considerando che nessun libro di storia citava questo eccidio?
“Volevo approfondire alcuni dettagli relativi alla battaglia del Volturno e così consultai alcuni microfilm di giornali. Sul New York Times del 14 ottobre 1943 trovai un articolo che fece scattare la molla per una ricerca approfondita su Caiazzo. Il giornalista Herbert Matthews, scrisse che i tedeschi incendiavano tre case su quattro. Io per questo sentii la necessità di approfondire la ricerca, mi ricordavo della mia casa incendiata e provavo desiderio di trovare altri dettagli. Poi, mio nonno Luigi era di Caiazzo, faceva il barbiere e questo mi motivò ancora di più. In Biblioteca mi consigliarono di consultare gli Archivi. Così andai a Washington ai National Archives and Records Administration nel Maryland”.
Dunque, lei si trovò in mano i registri dei crimini di guerra?
“Esattamente, per la prima volta ad un italoamericano fu consentito di consultare i registri dei crimini di guerra. All’interno di quei registri trovai il fascicolo sul massacro di Monte Carmignano, ma era solo una parte, ci volle molto tempo prima di recuperare tutta la documentazione.Prima informai il Comune di Caiazzo, poi la magistratura italiana”.
Ma l’inchiesta non partì subito, ha dovuto insistere molto?
“Ci sono voluti molti anni prima che la magistratura italiana si decidesse a far partire l’inchiesta, io scrissi a diversi uomini politici, ma nessuno si interessò al caso”.
In Italia il responsabile della strage di Caiazzo Wolfgang Lehing-Emden è stato condannato all’ergastolo in contumacia, ma non ha scontato la pena perché in Germania il reato è caduto in prescrizione; che idea si è fatto di questa vicenda?
“Io sono stato ascoltato dal presidente del Tribunale di Coblenza e gli ho spiegato le difficoltà che ho incontrato nel mettere insieme tutti i documenti sulla strage di Caiazzo. Ma ho avuto l’impressione che in Germania non c’è stata la volontà di punire questo tipo di reati. Anche l’Italia poteva fare di più, invece si è arrivata alla sentenza da parte del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere soltanto nel 1994, esattamente dieci anni fa”.
In Italia i fascicoli sui crimini di Guerra sono stati occultati in un armadio presso la Procura militare di Roma e sono rimasti sconosciuti per anni fino al 1994, impedendo alla magistratura di avviare i relativi procedimenti penali. Questo credo sia l’aspetto più grave, non le pare?
“Certo, ma le dirò di più. Io fornii per la prima volta la lista di 146 casi di crimini di Guerra investigati dal P.W.B. c’erano le stragi di Bellona, San Salvatore Telesino, Conca Campana ed altri”.
Ha informato la magistratura competente per territorio?
“Si, nel caso di San Salvatore Telesino ho addirittura scritto alla Procura di Benevento ma non ho ricevuto risposta”.
Comunque, lei ha avuto il merito di aver tracciato un percorso importante per far luce sui crimini di Guerra; infatti, dopo che sono stati trovati i fascicoli presso la Procura militare i ricercatori hanno compreso che già gli alleati avevano redatto diversi rapporti sulle stragi e pertanto hanno indirizzato la ricerca negli Stati Uniti e in Inghilterra.
“L’importante ricerca dell’Università di Pisa e Napoli, condotta dalla professoressa Gribaudi e dal professor Pezzino, per la redazione di un atlante delle stragi naziste in Italia ha indirizzato proprio l’attenzione sugli Archivi americani e inglesi. Io sono stato il primo ad essere autorizzato dal Dipartimento di Stato ad accedere ai registri sui crimini di Guerra”.
A proposito di Archivi americani, lei poi è diventato un esperto e si è occupato di altre ricerche?
“Ho svolto diverse ricerche sempre sulla seconda guerra mondiale, e le confesso che ho studiato anche il bombardamento di Montecassino. C’è un grosso mistero intorno a questo caso”.
Scusi, oramai sul bombardamento di Montecassino si è scritto tanto ed è stato accertato che fu inutile perché i tedeschi non si erano rifugiati nel monastero. Cosa si può scoprire di più?
“Il Servizio segreto militare degli alleati sapeva che non c’erano tedeschi nell’Abbazia, perché con Ultra leggevano i messaggi dell’Enigma e conoscevano anche il giorno del ritiro. Il segnale che doveva trasmettere alle truppe tedesche l’ordine di ritirarsi era il bombardamento della stazione ferroviaria di Cassino. Sapendo che i tedeschi non occupavano il monastero, l’impiego di quella forza aerea serviva ad incoraggiare le truppe alleate a sfondare la Linea Gustav, era un fattore psicologico. Io credo che Roosevelt e Churchill si siano messi d’accordo e abbiano dato questo ordine pur essendo consapevoli che all’interno del monastero non c’erano tedeschi. L’ordine potrebbe essere stato dato da Roosevelt”.
Questa, però, mi sembra un’interpretazione molto forte, non c’è una documentazione che possa sostenere questa tesi?
“No, la documentazione non c’è; però, sono convinto che qualcosa si potrebbe trovare iniziando una ricerca seria sulla distruzione di Montecassino. Il generale Clark prima negò la sua autorizzazione per bombardare il monastero e poi diede l’ordine dispiegando una forza aera di quella proporzione. Se non era d’accordo avrebbe potuto impiegare una forza aera ridotta. Sicuramente Clark non era favorevole al bombardamento, però se fosse arrivato un ordine del genere doveva obbedire e cercare di scuotere i soldati, ecco perché furono impiegate tutte quelle tonnellate di bombe contro un bersaglio così piccolo”.
Dunque, secondo lei non faceva parte di una strategia?
“Assolutamente no, nel bombardamento di Montecassino non vi erano motivazioni strategiche ma essenzialmente psicologiche. Lo sbarco ad Anzio non aveva dato i risultati sperati e l’arresto sulla Linea Gustav aveva creato malcontento tra i soldati, oltretutto anche negli Stati Uniti l’opinione pubblica non comprendeva come mai una forza militare del genere non riusciva a sfondare una linea difensiva che sulla cartina appariva molto ridotta. E’ stato un ordine per rianimare il morale delle truppe Alleate, e naturalmente non potevano non farlo in grande stile, come sempre fanno gli americani”.
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