La globalizzazione: un bene o un rischio? La risposta di Boutros-Ghali
Il termine “globalizzazione” è stato utilizzato per la prima volta negli anni Ottanta, ma negli ultimi anni lo sentiamo continuamente nelle conversazioni quotidiane, a volte anche a sproposito, senza conoscerne le radici. Basti pensare a frasi come “La fame nel mondo è colpa della globalizzazione!” oppure “Solo le grandi imprese possono competere nel mercato globale”. Eppure, nel momento in cui acquistiamo un capo firmato o ci dissetiamo con una bevanda statunitense, ci sentiamo in qualche modo parte del mondo, in un certo senso “meno soli”. Ma la globalizzazione è solo questo? Perché oggi se ne parla così tanto nonostante siano secoli che esistono legami di natura economica e finanziaria tra le diverse aree del pianeta? Con un primo sguardo d’insieme, possiamo affermare che, negli ultimi anni, questi legami hanno assunto un’eccezionale intensità: ogni Paese, per essere al passo socialmente, ha bisogno di interagire con tutte le economie del mondo. In conseguenza di ciò, viviamo in un sistema dove domina la mondializzazione dei capitali, dei mercati e delle imprese. La ricchezza mondiale (risorse, mezzi di produzione e così via) è concentrata nelle mani di poche imprese, chiamate “multinazionali” in quanto operano in tutto il mondo. Le multinazionali hanno raggiunto in pochi anni un elevatissimo livello tecnologico, soprattutto in campo informatico, ed esercitano enormi pressioni anche a livello politico, tanto da essere in grado di condizionare i governi dei Paesi più poveri (e non solo di quelli). Poiché il mondo dev’essere un unico mercato, è necessaria un’assoluta libertà nella circolazione di merci, servizi, persone e capitali; libertà che è strettamente legata alla “deregulation” (letteralmente “deregolamentazione”), processo grazie al quale gli Stati possono sospendere i controlli sul mercato. Di conseguenza, tutto il potere appartiene al mercato stesso, senza la necessità dell’intervento statale. Tutto ciò porta così alla formazione di un mercato finanziario globale: la caratteristica più sconvolgente è che questo mercato produce solo il 3% del valore degli scambi internazionali e realizza il restante 97% grazie a operazioni finanziarie prettamente speculative, come ad esempio la compravendita di azioni, le obbligazioni e i titoli di stato. Un dato negativo emerge però dal confronto tra la produttività dei Paesi più ricchi e quelli più poveri: la globalizzazione accentua infatti questo divario. E non solo, si è creata un’esasperata competitività tra i Paesi più poveri, che sono costretti ad abbassare continuamente i costi, per attirare gli investimenti delle multinazionali. Protagonisti di questo processo sono in particolare i Paesi del Terzo Mondo, che aumentano la loro “competitività” con un drammatico “dumping” sociale: con questa espressione si intende l’escamotage sleale di cui si servono le imprese che spostano le proprie attività produttive in quei Paesi con una legislazione meno stringente (se non nulla) in termini di sicurezza e protezione sociale, di orario di lavoro e di salario giornaliero. In questo modo peggiorano le condizioni di vita della popolazione sia diminuendo i salari sia tagliando i già scarsissimi servizi sociali. Il tema del valore dell’essere umano in questo mercato colossale viene affrontato da Boutros Boutros Ghali, Segretario generale dell’ONU dal 1992 al 1996, con un discorso tenuto a Roma l’8 gennaio 1996: secondo il diplomatico egiziano, occorre concentrarsi anzitutto sul concetto di “società globale” fondato sulla democrazia, che metta quindi al centro l’essere umano in quanto parte della collettività. Uno fra i rischi citati è quello dell’emarginazione di alcuni Paesi e, quindi, di determinate popolazioni, in ragione del fatto che non possono produrre, né mantenere i ritmi produttivi, quanto una superpotenza. In tal caso, la globalizzazione non diventa uno strumento di unione come dovrebbe, bensì di divisione tra Paesi sempre più ricchi e Paesi sempre più poveri; fattore che aumenterebbe persino le possibilità che si verifichino comportamenti xenofobi. Ghali preferisce dunque anteporre la democratizzazione alla globalizzazione, in cui possano svolgere un ruolo decisivo non solo la politica e l’economia, ma nella stessa misura anche i media, la società civile, le imprese private e i comuni.
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