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Caserta. ‘Il delitto d’onore’, nuovo libro di Ferdinando Terlizzi, da dicembre in tutte le librerie

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L’evoluzione del delitto d’onore e l’abolizione nel codice penale. Il delitto d’onore è un concetto che affonda le sue radici in antiche tradizioni culturali, dove l’onore familiare era considerato un valore supremo. Questo tipo di reato si caratterizzava per la violenza perpetrata da un membro della famiglia con l’obiettivo di ripristinare l’onore della stessa. Tuttavia, nel corso degli anni, la società ha compreso la necessità di respingere queste pratiche arcaiche e riconoscere i diritti fondamentali di ogni individuo. In linea con questo cambiamento, il nostro codice penale ha recentemente abrogato il delitto d’onore, riconoscendo l’importanza della tutela della vita e dei diritti umani.

Nel passato, il delitto d’onore era considerato un’attenuante o persino una causa di giustificazione per l’omicidio commesso da un membro della famiglia nei confronti di un altro. Questo tipo di reato era spesso associato a questioni di moralità, comportamento sessuale, matrimonio o relazioni interpersonali che potessero ledere l’onore della famiglia coinvolta. In alcune culture, come l’Albania dove vige il cosiddetto Canun, veniva persino considerato dovere di un membro della famiglia uccidere una persona che avesse “disonorato” la famiglia stessa.

Negli ultimi decenni, la società ha compreso che il concetto di delitto d’onore è profondamente radicato in una mentalità arcaica e discriminatoria. L’idea che una persona possa essere soggetta a violenza o addirittura omicidio a causa delle azioni considerate disonorevoli è stata ritenuta inaccettabile e contraria ai principi dei diritti umani. La discriminazione basata sul genere, la libertà individuale e la tutela della vita sono diventati valori fondamentali che vanno al di là di qualsiasi concetto di onore familiare.

L’abolizione del delitto d’onore nel codice penale. La consapevolezza dei cambiamenti sociali ha portato molti Paesi, incluso il nostro, a rivedere le leggi penali riguardanti il delitto d’onore. Nel nostro codice penale, è stata recentemente introdotta l’abolizione di questo reato, riconoscendo che ogni individuo ha il diritto fondamentale alla vita, all’incolumità e alla libertà personale. L’abolizione del delitto d’onore riflette il progresso in termini di pari dignità e tutela universale dei diritti umani.

L’abolizione del delitto d’onore nel nostro codice penale rappresenta un importante passo avanti nella lotta contro le discriminazioni e la violenza basata sull’idea di onore familiare. Questo cambiamento riflette l’evoluzione dei valori della nostra società, in cui l’uguaglianza, la libertà individuale e il rispetto dei diritti umani sono prioritari. La tutela della vita e la condanna di qualsiasi forma di violenza sono valori che dovrebbero guidare la nostra società e il sistema legale, promuovendo un ambiente più equo e inclusivo per tutti i suoi membri.

Raffaele Ceniccola, già Avvocato Generale della Corte di Cassazione nella Prefazione del libro ha scritto: “Si legge la vicenda, si pensa ad un romanzo noir e si apprezza la fantasia dell’autore nella predisposizione dell’intreccio, la mente va alla esclamazione di Garcia Lorca riferita al dramma Nozze di sangue “che prodigio la cronaca nera, andatela ad inventare una storia del genere”.

Ed invece non è così, perché Ferdinando Terlizzi non è un autore di romanzi gialli ma è un cronista giudiziario, che già si è occupato di altri delitti eccellenti riscuotendo unanime consenso, ed egli stesso si descrive come uno storytelling che racconta storie vere, rilevando che “Un delitto non è mai solo un delitto: è uno specchio di un tempo, di un mondo, di tutti noi. Solo che certe volte lo specchio rimanda una immagine tanto atroce che preferiamo passare oltre e chiamare in causa il destino”.

 Terlizzi descrive la vicenda relativa allo strano caso del dottor Luigi Carbone con uno stile secco, asciutto: la fantasia è nella vicenda e non abbisogna di ulteriori aggiunte. Il chirurgo, protagonista della vicenda, nel lontano 1922 aveva sgozzato con un rasoio la moglie mentre dormiva perché “si era presentata non pura alle nozze” e poi, lavatosi le mani lorde di sangue, era andato ad uccidere, per vendetta trasversale, la sorella del presunto seduttore.

Il merito maggiore dell’Autore è quello di descrivere questa vicenda, per quanto torbida ed incredibile, stando al di dentro di essa: non assume un atteggiamento censorio e distaccato, quasi da mero spettatore di un fatto non umano posto in essere da un mostro che non appartiene al mondo dei comuni mortali, ma vi è in lui la consapevolezza che mostro è solo un termine che vuole significare che la miseria dell’uomo è senza limiti; egli sa che anche gli autori dei più efferati delitti sono sovente persone comuni, quelle della porta accanto, gli amici di scuola o di giochi.

Era un’epoca diversa, le aule delle Corti di Assise erano un luogo di ritrovo per ascoltare la parola alata dei principi del foro, l’oratoria forense elegante, garbata, convincente che utilizzava sovente il latino, la radice della nostra lingua, come quando si doveva dire qualcosa di spiacevole e si premetteva “absit iniuria verbis”.

Nel processo Carbone, si fronteggiarono due insigni penalisti Giovanni Porzio per l’imputato e Alfredo de Marsico per la parte civile, si concluse con la condanna a soli due anni di reclusione, i giurati concessero al Carbone la totale infermità di mente per l’uxoricidio ed il vizio parziale di mente oltre alle attenuanti generiche per l’altro delitto. La mitezza della pena scosse fortemente l’opinione pubblica e il caso fu seguito da altre analoghe vicende giudiziarie, che indussero il legislatore del 1930 ad introdurre nel codice penale l’art. 587, che prevedeva una pena da tre a sette anni per chi uccideva il coniuge, la figlia o la sorella nell’atto in cui ne scopriva la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa all’onore suo o della famiglia.

Con l’introduzione di tale delitto, si fece un ulteriore salto nel buio trattandosi di una disposizione fondata su un malinteso senso dell’onore, posizione questa, peraltro, risalente nel tempo come viene precisato nel libro. Già ai tempi della repubblica romana, il marito aveva facoltà di esercitare qualunque rappresaglia sul coniuge infedele e sul complice, compresa la evirazione. Augusto conferì al solo padre la potestà di punire la figlia peccatrice, Giustiniano si limitò a prevedere pene più lievi per gli omicidi a sfondo sessuale. Nell’epoca dei Comuni la situazione peggiorò, in quanto il marito tradito divenne il naturale carnefice della moglie adultera, mentre Napoleone mantenne per il marito il diritto di sopprimere l’adultera.

Solo con la legge n. 442 del 5 agosto del 1981 vennero abrogate le disposizioni sul delitto d’onore, ritenuto finalmente un retaggio culturale superato ed anche in questo caso fu una vicenda giudiziaria, di grande risonanza mediatica, ad aprire la strada alla riforma. Nel 1964 un maestro elementare siciliano, tale Gaetano Furnari, dopo aver scoperto che il prof. Francesco Speranza aveva sedotto sua figlia che all’epoca era una studentessa, fece irruzione in un’aula dell’università di Cagliari e lo uccise. Il Funari venne condannato in primo grado a due anni e undici mesi di reclusione, pena aumentata a quattro anni e mezzo in appello.

Questo caso e il clima di generale indignazione che aveva suscitato furono ripresi anche nel film di grande successo “Divorzio all’italiana” del regista Pietro Germi e interpretato magistralmente da Marcello Mastroianni e Stefania Sandrelli. Nel dibattito che seguì intervenne anche Leonardo Sciascia, esprimendo un giudizio molto critico “sull’assurdità e stupidità del delitto d’onore e sull’inciviltà dell’articolo di legge che lo contempla”.

Con la legge del 1981 venne abolita non solo la norma sul delitto d’onore ma anche quella sul cosiddetto matrimonio riparatore, che di fatto cancellava la responsabilità di chi stuprava una donna se poi la sposava. Ed anche per quanto riguarda tale abolizione fu decisivo un altro clamoroso caso giudiziario avvenuto sempre in Sicilia, quello di Franca Viola che rifiutò di sposare l’uomo che l’aveva rapita. Dunque, i casi di Gaetano Furnari e di Franca Viola hanno contribuito a cambiare la cultura e la legge basate su una convinzione inaccettabile ed assurda, che traspare nelle orribili parole pronunziate durante il processo dal Carbone “ho voluto purificarmi dall’onta di aver sposato una bellezza corrotta”.

Da allora ad oggi la normativa è stata aggiornata e per le violenze di genere è stato inasprito il trattamento sanzionatorio, sono stati introdotti centri di ascolto e strumenti di prevenzione, e tuttavia sono ancora tanti i femminicidi compiuti da compagni, mariti ed ex partner, come si desume dalla cronaca quotidiana che segnala troppi episodi di tal genere.

Grazie Terlizzi per questo magnifico libro, la cui lettura lascia insoluto l’interrogativo di sempre: “chi è veramente l’uomo, questo sconosciuto?”. Un libro che consiglio di leggere a tutti: ai giovani che nulla sanno di queste vicende che hanno sconvolto l’opinione pubblica, agli anziani che potranno rivivere vicende sbiadite dal tempo trascorso.

 Nella sua Postfazione Fabio D’Aniello, Avvocato del Foro di Napoli,  Giurista internazionale d’impresa,  Ex magistrato ha scritto: “Il termine “femminicidio” viene impiegato per la prima volta nel 1992 dalla sociologa e criminologa femminista statunitense Diane Russell e sarà impiegato successivamente da molte studiose messicane per analizzare le sevizie e le uccisioni sistematiche di donne e ragazze a Ciudad Juarez, cittadina al confine fra Messico e Stati Uniti; in seguito il termine sarà impiegato per descrivere non solo le uccisioni basate sul genere ma ogni forma di violenza e discriminazione contro la donna in quanto essere umano appartenente al genere femminile.

L’opera di Ferdinando Terlizzi attualizza la storica ed eclatante vicenda giudiziaria di Luigi Carbone passata alla storia come “processo clamoroso avente una conclusione a dir poco sconcertante”: seppur condannato, infatti, l’imputato lasciò il carcere, tra applausi e inneggiamenti dei suoi concittadini, la stessa sera della sentenza; questo processo segnò profondamente le strutture giudiziarie italiane e alcuni anni dopo l’allora ministro della giustizia Alfredo Rocco colse l’occasione per modificare, anche a seguito di questi accadimenti, la struttura dell’antica e tradizionale Corte d’Assise: eliminò la Giuria Popolare ed introdusse una Corte mista composta da cittadini e da due magistrati togati aventi l’obbligo di rendere note le motivazioni alla base delle loro decisioni.

La condanna fu preceduta da uno scontro oratorio di altissimo livello, ancora oggi oggetto di studio tra i giuristi, che vide Alfredo de Marsico nel ruolo di accusatore e Giovanni Porzio impegnato come difensore: in diverse occasioni del dibattimento la logica sembrò cedere il passo ai sentimenti suggestionati dai due grandi avvocati. Il dottor Luigi Carbone compì quello che ai tempi veniva definito “delitto d’onore”: il 1 aprile 1922 uccise, dopo otto giorni di matrimonio tagliandole di netto la gola, la giovane moglie Bellinda Campanile colpevole di non essere arrivata illibata al matrimonio e, a poche ore di distanza, spara ad Elena Fusco, sorella del presunto seduttore della neo moglie, che muore dopo 30 giorni di agonia: l’aspetto maggiormente paradossale dell’intera vicenda è costituito dal fatto che l’imputato non si mostrò mai minimamente pentito dei due delitti che riteneva non solo suo legittimo diritto ma vero e proprio dovere.

Al termine di un lungo e complesso dibattimento il medico chirurgo Luigi Carbone fu condannato a soli trenta mesi di reclusione, dei quali 6 condonati, poiché dichiarato totalmente infermo di mente per l’uccisione della moglie e affetto da temporanea seminfermità mentale per l’uccisione di Elena Fusco. L’uccisione di entrambe le donne sarà argomentato dalla difesa come una sorta di rito di purificazione; per l’uccisione di Bellinda Campanile la difesa sosterrà lo schema (ancora oggi per i casi di cronaca nera purtroppo rimasto pressoché inalterato): ti amo, ti ammazzo, e ti porto via con me; ti amo e ti uccido: era la mattina del 1 aprile 1922:

lena Fusco sopravvisse per 19 giorni poi morì dopo aver perdonato al suo assassino, negando sempre che aveva aiutato suo fratello a sedurre Bellinda Campanile. Dopo poco più di un anno, il processo ad Avellino si esaurì in soli sette giorni: dal 12 al 18 giugno 1923. L’indagine, prima e durante il dibattimento, ricostruì abbastanza attentamente il dramma di Bellinda Campanile e quello di Luigi Carbone, ma riuscì a stabilire che sulla eventuale responsabilità del tenente di fanteria Oreste Fusco poteva sussistere solo qualche sospetto: l’ufficiale, infatti, rimase a Torino ed i giudici non vollero neppure conoscerlo.

Bene ha fatto Ferdinando Terlizzi, cronista di lungo corso che in altri precedenti scritti si è autodefinito “un archeologo della cronaca”, a riportare alla luce i reperti di un delitto e del suo processo che ha posto in evidenza due personaggi eccelsi dell’oratoria forense napoletana. Infatti, il processo visse soprattutto sulla polemica tra Alfredo de Marsico, parte civile per i parenti della sventurata Elena Fusco e Giovanni Porzio, difensore: il primo per sostenere che, comunque, Luigi Carbone fu sospinto al delitto soltanto da “bassezza, ferocia e cinismo”, il secondo per replicare che al medico non poteva essere rimproverato nulla perché travolto dalla follia.

Furono due arringhe che, nella storia dell’eloquenza forense, vengono ritenute tra le più importanti: i giurati non seppero dare torto a nessuno e, sotto la spinta di una grande suggestione suscitata da quelli che erano i due più affascinanti “maestri del Foro di Napoli”, dettero un po’ di ragione all’uno e un po’ di ragione all’altro: l’unico a giovarsene fu Luigi Carbone che, forse, non la meritava affatto.

Alfredo de Marsico aveva intuito che tutto in questo processo gli era contrario e che tutto, invece, era a favore del duplice assassino: poco più che trentenne, ma con una esperienza decennale, conosceva l’ambiente e i suoi amici di Avellino, i loro umori e le loro passioni; egli aveva intuito che il pericolo più grave da combattere era per il ruolo dell’accusa quello costituito da desiderio di trovare, da parte dei giurati, una formula che evitasse a Carbone una qualsiasi pena e che, quasi certamente, si sarebbe tradotta nell’infermità (o semi infermità) mentale.

Partendo da tali considerazioni de Marsico si preoccupò immediatamente di sottolineare come il medico non fosse una persona malata, quanto piuttosto una persona malvagia, crudele che aveva studiato, progettandoli nei dettagli, i due omicidi: secondo l’accusa quindi i due delitti furono l’esplosione di una forza sola: non la passione, non la follia quanto piuttosto la criminalità; la passione poteva pertanto essere al massimo il colpo di leva che sgretolava gli ostacoli e sollevava l’uragano della ferocia ed in quest’ottica se l’amore ferito poteva costituire la spinta all’azione i sentimenti più abietti di vendetta e odio travolgevano questa spinta. L’accusa di de Marsico era stata precisa e severa: ma, forse intuendo lo stato d’animo dei giurati di fronte al cosiddetto “delitto compiuto per vendicare l’onore offeso”, aveva lasciato aperto uno spiraglio alla comprensione invitando la Corte a non infierire sull’imputato, ma comunque a punirlo.

All’interno di questo spiraglio si inserì immediatamente l’intervento della difesa, attuata da Giovanni Porzio, – passato alla storia come ‘il palombaro delle anime’ – secondo la logica per la quale se si era in presenza di un delitto ricolmo di ferocia, di riflessione e di crudeltà abominevoli l’autore di questo scempio aveva lo sguardo vitreo, la voce funebre, le parole rade ed era immerso nel suo cupo dolore ed inchiodato ad un’idea incrollabile che lo scavava al pari di un’unghia in ferro. La conclusione di questa antitesi non poteva che portare alla conclusione per la quale il dottor Luigi Carbone fosse infermo di mente o, per lo meno mentre uccideva, fosse in condizioni di non intendere e volere; le motivazioni anche biologiche a questa condizione erano da ricercarsi tra i parenti del medico: pazzi, epilettici ed alcolizzati. Lo scopo di Giovanni Porzio consiste nel convincere i giurati che Luigi Carbone era completamente incapace di intendere e volere quando uccise la moglie e la sorella del seduttore: i precedenti familiari e lo stesso comportamento del suo assistito testimoniavano questo aspetto.

Il dottor Carbone rappresentava l’archetipo del medico di paese: era sempre chino al capezzale dei sofferenti, come se il doloroso esercizio professionale l’avesse allontanato dai clamori della vita inclinandolo verso la caritatevolezza; la sua unica consolazione era la madre e la sua unica soddisfazione era quella di prodigarsi per tutti coloro che avevano bisogno del suo aiuto: detto altrimenti egli era l’antitesi della crudeltà e la sua biografia ne era la testimonianza.

Ma dobbiamo essere grati a Terlizzi se oggi parliamo di questo processo e di questo avvocato rimasto alla storia e ricordato per le sue qualità di uomo e di professionista. Infatti, anche recentemente, il 6 marzo del 2023, l’inviato de Il Mattino, Gigi Di Fiore, ha dedicato al professore Giovanni Porzio una delle sue “interviste impossibili”- “Castelcapuano fu il mio Regno – andava ripetendo Don Giovanni – così conquistai il Parlamento. E ancora: “Ero più contento quando mi chiamavano Don Giovanni e non avvocato”.

Penalista insigne più volte presidente dell’Ordine degli Avvocati di Napoli. Giovanni Porzio fu anche politico liberale per 5 volte deputato del Regno, eletto addirittura con 96.967 voti nel 1921, due volte sottosegretario nel Governo Nitti e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nell’ultimo governo Giolitti. In era repubblicana fu deputato alla costituente, senatore e vice Presidente del Consiglio con Alcide De Gasperi. Morì a 89 anni nella sua casa studio al Corso Vittorio Emanuele a Napoli nel 1962.

Vi sono alcuni aneddoti che vanno ricordati. Nel 1922 (anno appunto del processo Carbone) Enrico De Nicola, nella prefazione a un volume precisamente di Giovanni Porzio, “Figure Forensi”, divise le generazioni degli avvocati del secolo scorso in quattro categorie. Prima categoria: l’avvocato impetuoso, Nicola Amore. Seconda: l’avvocato artista, Gaetano Manfredi. Terza: l’avvocato dialettico, Francesco Antonio Casella. Quarta: l’avvocato filosofo, Enrico Pessina. A quale di queste quattro categorie apparteneva Giovanni Porzio? A tutte e a nessuna. E De Nicola spesso diceva: ”Non si può parlare come Porzio se non si è Porzio”.

Era il 31 marzo del 1895 (e Porzio non aveva ancora 22 anni) e si celebrava un famoso processo ricordato sotto il titolo dell’”omicidio delle Cavaiole” (un misero e popolare quartiere della vecchia Napoli). Patrono della difesa era Achille Geremicca, che fu poi sindaco di Napoli, col quale egli allora collaborava. Il Geremicca lo pregò si sostituirlo temporaneamente in udienza, dovendosi allontanare per poco; non tornò in tempo per pronunciare l’arringa e il giovane sostituto Porzio fu costretto a prendere la parola per non lasciare indifeso il cliente. Alle prime battute la meraviglia si dipingeva sul volto dei presenti: qual giovane avvocato ammirevolmente si imponeva con lo sviscerare la causa nei suoi più ascosi anfratti e col trarne luce di giudizio per dimostrare le ragioni del suo difeso. Fu un trionfo – il primo dei trionfi che lo avrebbe portato lontano nella scia di migliaia e migliaia di arringhe poi pronunciate.

Ma ci si domandava: “Da dove traeva la forza Giovanni Porzio?”. La traeva unicamente dal fatto di saper umanizzare la causa fino all’esasperazione. Altri, sia pure con argomentazioni sottili piegano il fatto al diritto, egli invece piegava il diritto al fatto, cioè portava l’interpretazione del fatto fino a tal punto che la norma di diritto non reggeva più. Quindi la sua in definitiva – come nel processo Carbone – era un’indagine psicologica, un’indagine sul dramma umano, perché ogni delitto rappresenta un dramma.

Chi non sa che le sue arringhe traboccavano sempre di umanità? Anche nel delitto più spietato egli sapeva trovare una nota umana, e con questa nota egli scendeva, penetrava, per capire e per poter poi spiegare, da par suo, il delitto. Se foste stati nelle condizioni in cui ha agito l’imputato, avreste commesso il delitto? Nella cosiddetta “frase ad effetto” che si usava chiosare alla conclusione di ogni arringa Don Giovanni disse: “Secondo Carlo Richet “Se un Dio sedesse nei tribunali, egli sarebbe di una inalterabile indulgenza per le colpe del dolore umano”. Il senso di queste parole illumini, signori giurati, le vostre menti e ispiri il vostro verdetto”.

L’invito della difesa trovò pieno accoglimento poichè i giurati furono infatti più che clementi essendosi convinti che Luigi Carbone avesse ucciso mentre non era in condizione di intendere e volere: fu prosciolto per infermità totale di mente per il delitto della moglie e condannato a 30 mesi, di cui 6 condonati, per aver ucciso la povera Elena Fusco poiché venne considerato semi-infermo di mente e meritevole di tutte le attenuanti; per il protagonista di questa tristissima storia fu un trionfo ma tali accadimenti passarono alla storia come vere e proprie ingiustizie ricordate, qualche decennio successivo, come vere e proprie ingiustizie sessiste.

All’alba del 1 °aprile del 1922 in Lapìo, il dottor Luigi Carbone sgozzava  nel sonno la giovane Bellinda Campanile, da lui sposata otto giorni prima, punendola così del fallo di essere an­data non pura alle nozze, e di averlo in tal modo ingannato e colpito nell’onore e nella dignità. Compiuto il delitto, il Carbone si lavò le mani rosse di sangue, si vestì ordinatamente, ed uscì di casa dopo aver detto alla madre di lasciar dormire la Bellinda finché egli non fossi tornato dalla stazione ferroviaria, ove doveva recarsi.

Si avviò invece al caffè gestito dai coniugi Fusco, e dalla soglia esplose cinque colpi di rivoltella contro la giovinetta Elena Fusco, ferendola a morte.

Perché la uccise? Nel primo interrogatorio il Carbone dichiarò di aver voluto colpire nell’affetto di fratello Oreste Fusco, ufficiale di fanteria, al quale la Bellinda aveva attribuito il suo peccato. In un secondo interrogatorio disse invece che Elena Fusco aveva contribuito a favorire la fresca del fratello.

Un’aspra lotta, per udienze numerose, roventi, condusse ad un verdetto con cui i giurati esclu­sero la premeditazione, affermarono il vizio totale di mente per l’uxoricidio, quello parziale per l’omicidio di Elena Fusco, e concessero le attenuanti condannando il Carbone a trenta mesi di re­clusione.

Il dibattimento durò otto giorni, dal 12 al 20 giugno 1923. La famiglia di Bellinda Campanile  non si costituì parte civile. I genitori di Elena Fusco furono assistiti dagli avvocati Rodolfo de Marsico, Guido Cocchia, Mattia Limoncelli ed Alfredo de Marsico. Difensori del Carbone, gli avvocati Francesco Fragomele, Ignazio Scimonelli, on. Alfonso Rubilli  e  on. Giovanni Porzio.

Ferdinando Terlizzi, cronista giudiziario, è giornalista dal 1970. Ha fondato e diretto radio e tv libere, agenzie di stampa e periodici. È stato responsabile del Servizio Opinioni della Rai Tv (come il moderno auditel) per la Provincia di Caserta. E’ stato capo redattore, inviato spe­ciale e direttore responsabile della nuova Gazzetta di Caserta. Già direttore responsabile della rivista a tiratura nazionale Detective&Crime, fondata dal criminologo Carmelo Lavorino. In tale veste, nel 1994, è stato inviato speciale presso la World Ministerial  Conference On Organized Transnational Crime, organizzata dall’Onu. È stato componente del consiglio direttivo dell’Associazione della Stampa di Caserta. Nel 1983, da parte della Presidenza della Stampa Europea, gli è stato assegnato il premio internazionale di giornalismo Aquila d’Oro, per una serie di reportage dall’estero. Nel 1984 ha ricevuto a Londra, dalle mani del giornalista Ruggero Orlando (mitico corrispondente Rai da New York), il titolo accademico di Doctor in Economie and Commercial Sciences, in forza della laurea honoris causa conferitagli dall’Università ame­ricana Pro Deo di New York. Nel 1986 è stato addetto stampa a Bruxelles della Camera di Commercio Europea. A novembre 2006, la trasmissione Matrix di canale 5, ha riproposto un suo servizio tv degli anni Ottanta su di un duplice omicidio di camorra. Nel 2016 l’Università degli Studi Turistici di Caserta gli assegnava una laurea Honoris causa. È direttore responsabile dell’Agenzia Giornalistica on line Cronache. È Cronista giudiziario per Cronache di Caserta e Cronache di Napoli. Ha pubblicato: “Il delitto di un uomo normale”- Albatros 2009; il “Caso Tafuri” Edizioni Editalia 2016; “Costume & Società: Le case chiuse”, Stampa Sud, 2017; “De­litti in Bianco & Nero a Caserta”, Editalia, 2017; ­“Vittime, Assassini  Processi”, Edizioni Eracle, 2019; “Sesso Voyeurismo Follia omicida”, Giuseppe Vozza Editore, 2022.

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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