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50 anni fa il golpe che condannò Allende e consegnò il Paese a Pinochet

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“Come è mia abitudine, anche quell’11 settembre 1973, mi alzai presto, verso le 6.30 del mattino. Accesi la radio, stavano trasmettendo marce militari. Compresi che il giorno tanto temuto era arrivato. Indossai dei jeans e delle scarpe da ginnastica, lasciai mia moglie e il figlio di neanche un anno. Non andai all’università, come ero solito fare al mattino, ma alla casa editrice Quimantú (‘Sole del sapere’, in lingua mapuche), dove lavoravo al pomeriggio”. Ricorda ogni attimo, di quel giorno di cinquant’anni fa Rodrigo Díaz, cileno che oggi vive a Mestre e da lungo tempo dirige il Festival del Cinema Ibero-latinoamericano di Trieste, e all’epoca era un giovane militante socialista, ammiratore del presidente cileno Salvador Allende, che aveva conosciuto personalmente in alcune riunioni politiche.

L’11 settembre 1973 fu l’ultimo giorno di vita di Salvador Allende, che aveva vinto le elezioni presidenziali nel 1970, diventando il primo socialista del continente a diventare presidente per via democratica, tramite libere elezioni, senza passare per una rivoluzione. E fu il primo giorno della brutale dittatura guidata dal generale Augusto Pinochet. Un fatto che fece scalpore nel mondo, e che spense le speranze di numerosi giovani. Díaz rischiò anch’egli di fare una brutta fine, ma trovò per fortuna un militare capace di empatia e umanità. “Alla casa editrice – continua il racconto per il Sir – rimanemmo in 49, nonostante l’ordine impartito dai militari di tornare a casa, essendo subito stato deciso il coprifuoco. Di questi ero l’unico socialista militante. Perciò, quando i soldati arrivarono in portineria, fui incaricato di parlarci. Dopo un ruvido scambio di battute, colui che li guidava mi intimò di abbassare i toni, poi mi chiese se ero sposato e avevo dei figli. ‘Pensi a loro’, aggiunse dopo la mia risposta. Compresi che non c’erano possibilità di resistenza, chiesi se potevamo sgomberare in un quarto d’ora, entro le 12.30. ‘Anche entro l’una’, mi rispose. Convinsi i colleghi a non fare inutilmente gli eroi, me ne andai a piedi. Passai accanto al palazzo presidenziale della Moneda, bombardato dai militari, proprio nei momenti in cui si consumavano gli ultimi attimi di vita di Allende”.

Allende, “autentico democratico”. Negli anni successivi, Díaz conobbe l’esilio. A Roma trovò lavoro alle Acli. “Solo un aneddoto tra i tanti – ci dice -. Ogni domenica andavo a prendere il telex con le omelie di mons. Romero, le traducevamo e le pubblicavamo sulla rivista delle Acli, ‘Azione sociale’”. Negli anni, oltre che promotore del Festival cinematografico, è diventato un punto di riferimento per il dialogo tra Italia e America Latina. Nel 1984 organizzò anche un importante incontro tra gli esuli cileni e la presidenza della Conferenza episcopale del Paese.

In occasione di questo cinquantesimo, torna sulla figura di Salvador Allende: “In quel periodo seppe intercettare un’attenzione più vasta rispetto al suo recinto politico, anche il popolo cileno lo percepì come un politico che andava oltre il Partito socialista. Fu un uomo coerente, che credeva nella democrazia, una figura divenuta universale per aver saputo dare nobiltà alla politica, per aver privilegiato la democrazia al proprio tornaconto. In quegli anni c’era una curiosità enorme, a Santiago erano stabilmente presenti 800-1000 troupe televisive. Nonostante i forti attacchi che subiva dalla stampa, Allende e il suo Governo non limitarono la libertà di alcun giornalista. Il golpe fu un colpo durissimo, pose fine a quella che allora era la democrazia più longeva del continente. In America Latina, naturalmente in un contesto molto diverso dall’attuale, molti giovani si convinsero che non ci fosse una via democratica per cambiare le cose”.

Certamente, Allende nel 1973 stava incontrando non poche difficoltà nella sua azione politica, “una parte della sua coalizione era molto radicalizzata. Ma quel Governo non ebbe alcun aspetto totalitario. Il colpo di stato non aveva alcuna giustificazione ed è ormai certo che esso fu deciso per ragioni geopolitiche dagli Stati Uniti, come lo stesso Henri Kissinger ha fatto intendere”.

Un Paese ancora diviso. Mezzo secolo dopo il golpe e oltre trent’anni di democrazia, le ferite di quella stagione non sono ancora rimarginate. Oggi, in Cile, il presidente è il giovane leader di sinistra Gabriel Boric, visto da molti, dopo la vittoria, come un “nuovo” Allende. Ma il suo Governo sta incontrando varie difficoltà. Il suo principale oppositore, José Antonio Kast, che dopo aver perso il ballottaggio per le presidenziali ha vinto le elezioni per la nuova Costituente, è per vari aspetti un “nostalgico” della stagione di Pinochet. La Costituzione di quella stagione, con il suo impianto ultraliberista, rimane in vigore, sia pure con numerose modifiche effettuate nel tempo. La riscrittura di una nuova Carta si sta rivelando un’impresa. “A mio avviso – conclude Díaz – il principale motivo idi questa situazione è che non è stata fatta giustizia in tempi brevi, i conti non sono mai stati chiusi. Poi, si sarebbe potuta ricostruire l’armonia. In secondo luogo, il modello ultra-liberista è diventato via via più insopportabile, e ha mantenuto forti divisioni nella società. Infine, c’è il problema della sicurezza”.

Un clima non facile, rispetto al quale la Chiesa cilena (che negli anni della dittatura tenne un atteggiamento in grandissima parte privo di ombre, a partire dall’arcivescovo di Santiago Raúl Silva Henríquez) continua a invitare al dialogo. In un recente messaggio, i vescovi hanno constatato che oggi in Cile c’è “una polarizzazione non solo per il giudizio sul nostro presente, ma anche rispetto al recente passato”, invitando a guardare insieme a ciò che è accaduto, per andare verso un futuro più condiviso. Senza dimenticare la memoria, implorando coloro che hanno informazioni sul luogo in cui si trovano i corpi dei desaparecidos del periodo della dittatura “a consegnarle, se non l’hanno fatto fino ad ora”.

Il documentario dell’arcivescovo. Un contributo a questo cammino viene dal documentario “Mercoledì 15.30, Memorie di un’assenza”, ideato dall’arcivescovo di Concepción, mons. Fernando Chomali (non nuovo a esprimere il proprio pensiero in forme teatrali o artistiche), presentato il 1° settembre. La pellicola racconta la storia del Gruppo dei familiari dei detenuti e desaparecidos di Concepción, le cui origini risalgono al 1978, sotto gli auspici della Pastorale dei Diritti umani dell’arcidiocesi.

Fin dall’inizio, il gruppo si è riunito per lavorare il mercoledì alle 15.30, da cui deriva il nome del documentario. Su ciò che ha portato monsignor Chomali a realizzare questa produzione, dice: “Sono motivato a far conoscere storie concrete, di persone concrete che ho conosciuto e che ammiro profondamente. Sono testimonianze che ci parlano della barbarie a cui può arrivare l’essere umano, ma anche della grandezza d’animo di chi cerca instancabilmente ciò che ritiene giusto e vero. Spero che questo documentario esprima che non c’è spazio per la violenza, da qualunque parte provenga. Violenza fisica, violenza psicologica, violenza verbale. E in un certo senso questo documentario riflette l’immensa dignità che ogni essere umano ha, una dignità che è stata violata e calpestata per motivi politici e che non possiamo accettare”.

 

*giornalista de “La vita del popolo”

(Fonte: AgenSIR – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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