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Attualità

Adriano Zampini: Ai politici mazzette per 6,8 miliardi di lire. Con 33 milioni si comprò la laurea ad honorem in scienze politiche dell’Universidad de Buenos Aires, la carica di console onorario del Kenya a Torino e la nomina a generale di gran croce del Sovereign Order of the hospitallers of Saint John of Jerusalem, che gli conferì le insegne di guardiano del Sacro Sepolcro di Gerusalemme.

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Tangenti di Stefano Lorenzetto Oggi

Dice di aver versato ai politici mazzette per 6,8 miliardi di lire. Con 33 milioni si comprò la laurea ad honorem in scienze politiche dell’Universidad de Buenos Aires, la carica di console onorario del Kenya a Torino e la nomina a generale di gran croce del Sovereign Order of the hospitallers of Saint John of Jerusalem, che gli conferì le insegne di guardiano del Sacro Sepolcro di Gerusalemme. «Mi scucirono altri 2 milioni per la divisa rossa con le spalline dorate e la spada». Il suo padrino di ammissione in questo falso Ordine dei cavalieri di Malta fu Frank Sinatra, che a New York per l’occasione lo baciò tre volte sulle guance. «Purtroppo aveva quella che i romani chiamano la fiatella. Sì, insomma, puzzava di aglio».

L’alito non fa il monaco. Però va riconosciuto che Adriano Zampini, padre di tutte le tangenti, non ha mai fatto nulla per togliersi i panni di corruttore che gli furono cuciti addosso giusto 40 anni fa. Anzi, continua a indossarli con ribaldo orgoglio. Il 10 ottobre 1983 le confessioni di questo geometra veronese, classe 1949, provocarono la caduta del sindaco Diego Novelli (Pci), del suo vice Enzo Biffi Gentili (Psi) e dell’intera Giunta comunale socialcomunista di Torino. Il primo scandalo. L’Italia ebbe le prove che la politica si era messa in affari. Finì con 18 condanne. Il faccendiere si beccò 1 anno e 3 mesi, ma se la cavò con appena 20 giorni di detenzione nel carcere di Asti.

Dovette passare quasi un altro decennio prima che fosse scoperto Mario Chiesa, il «mariuolo» (copyright Bettino Craxi).

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Come quella faccia da “mariuolo” dell’ex sen. PD Lorenzo Diana (copyright del ministro Mario Landolfi in una nota intercettazione) – Uno che durante il suo mandato ha bene interpretato il ruolo di “signore dell’Antimafia”, copyright Leonardo Sciascia). 

Nota di Ferdinando Terlizzi 

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Il precursore di Tangentopoli oggi è tornato a vivere nel luogo dove crebbe. Abita a San Martino Buon Albergo, dentro la Musella, tenuta che appartenne al duca Pietro d’Acquarone, il ministro della Real Casa ispiratore del colpo di Stato che il 25 luglio 1943 portò all’arresto di Benito Mussolini. Dei fasti d’un tempo, Zampini conserva nel suo studio solo un modellino del Concorde, l’aereo di linea supersonico che in tre ore e mezza lo portava da Londra a New York.

Finito Zampini, finiti i voli in Concorde.

«La Computer vision c’invitò ad Huntsville, Alabama, e per il ritorno ci ospitò in 11 sul mitico jet. I computer derivavano da tecnologie militari, quindi ero il terminale di colossi come la tedesca Messerschmitt, aerei, e la norvegese Kongsberg, armamenti. Ma anche di Karl Zeiss Jena, Germania dell’Est; Galileo, Italia; Thomson, Regno Unito».

E lei vendeva i pc al Comune di Torino.

«Esatto. All’hotel Hesperia di Helsinki la Kongsberg volle mostrarci sistemi informatici e plotter creati per la missilistica ma che potevano servire negli uffici. A cena ci scolammo una cassa di champagne Veuve Clicquot. Finì che io e il vicesindaco Biffi Gentili, figlio dell’ex procuratore capo del re a Torino, cominciammo a tirarci addosso cucchiaiate di caviale, subito imitati dagli altri».

Non si vergogna a raccontarlo?

«Scusi, ma non è colpa mia se sapeva di aringa».

Da chi ha ereditato questi modi da smargiasso?

«Dal nonno materno, Giuseppe Avesani. Aveva il braccio proibito. Per ridurre la potenza del pugno, le autorità stringevano una fascia di cuoio attorno al bicipite delle persone come lui, inclini alla rissa. Con uno dei suoi micidiali cazzotti aveva steso un mulo che gli brucava le piante di piselli».

Manco Braccio di ferro con gli spinaci.

«Partecipò alla guerra italo-turca di Libia. Nel 1913 tornò da Zuara con un barattolo in cui conservava sotto sale gli orecchi tagliati a 35 ottomani».

Che fine ha fatto il macabro trofeo?

«Quando nel 1971 seppellii il nonno nel cimitero di Quinzano, glielo misi nella bara».

Immagino che lei non sia nato ricco.

«Vengo da una famiglia di mezzadri. All’asilo dalle monache ero una specie di bestia. Morsicavo la povera suor Lucia perché volevo tornare a pascolare le pecore di mio zio Bruno, che mi pagava 10 lire al mese. Allora lei, un angelo, mi dava la stessa somma per preparare le scodelle della refezione. Da adulto l’ho cercata ovunque per ringraziarla, quella santa. Non sono riuscito a trovarla».

I suoi genitori però la convinsero a studiare.

«Uscii dall’istituto tecnico Lorgna di Verona con 60/60,miglior studente della provincia, tutti 10 in pagella, tranne che in condotta. Era il 1968, militavo nel Psiup. Il preside non ci faceva occupare la scuola e io minacciai di buttarlo dalla finestra».

Come arrivò in Piemonte?

«Nel 1971 avevo sposato una maestra elementare torinese. Volevo riportarla nella sua città. Ero l’assistente di Silvio Conforti, costruttore veronese di casseforti. Scelsi a caso sulle Pagine gialle una ditta piemontese del ramo, la Sele arredo. Era di Walter Leto, segretario regionale ligure del Msi. Fu lui a introdurmi al sistema dei partiti».

Intende quello spartitorio?

«E quale altro? Il primo appalto che vincemmo fu per gli arredi del Palazzo di giustizia di Genova. Sganciammo una stecca del 3 per cento a un funzionario della Regione Liguria, nome in codice Cin Cin. L’unico che rifiutò la nuova scrivania fu il procuratore Francesco Coco: se la portò da casa. Pochi giorni dopo fu ucciso dalle Brigate rosse».

C’era qualche partito estraneo al sistema

«Scherza Lucravano tutti, nessuno escluso. Su ogni opera pubblica o acquisto la tangente era del 10 per cento. Alla Regione Piemonte il 3 per cento andava al Psi, che aveva ideato il metodo, il 2 al Pci che governava con i socialisti, l’1 e qualcosa alla Dc, il resto suddiviso fra le altre forze politiche».

In che modo avvenivano le dazioni?

«Siccome i partiti bisognava addolcirli, avevo escogitato un metodo consono: occultavo le mazzette in scatole di gianduiotti. Solo un geometra del Consorzio agrario di Torino mi rimandò indietro le banconote. Però i cioccolatini se li mangiò».

Avrà avuto bisogno di appoggi.

«I politici li conoscevo tutti, inclusi i più duri e puri. Per dire, il leghista Mario Borghezio mi faceva il recupero crediti con un’azienda nella quale era l’unico dipendente. Certe sere lo portavo alle riunioni del Carroccio insieme con il cantautore Gipo Farassino. Oppure lo accompagnavo a casa con la mia auto, a Chivasso».

Ma non presentava nessuna referenza

«Come no. Sandro Pertini venne a Torino a inaugurare il Laboratorio cartografico regionale allestito da me. Saputo che ero anch’io socialista e che venivo da Verona, la città della nipote Diomira, figlia di Eugenio, il fratello del presidente ucciso nel lager di Flossenbürg, mi ordinò: “Dammi del tu e vieni a trovarmi al Quirinale”».

Povero Pertini, che abbaglio.

«Ero anche amico di Alexander Haig, segretario di Stato americano. Lo conobbi alle Ftase di Verona. Allora era il comandante supremo alleato in Europa. Andai a Palazzo Carli a sbloccargli la cassaforte con un operaio della Conforti. Il generale rimase molto colpito perché scattai sull’attenti».

Ma lei mica era un militare.

«Restavo pur sempre un sottotenente degli alpini in congedo, già comandante della Sesta compagnia alla caserma Cesare Battisti di Aosta, dove fui responsabile dell’Ufficio I, cioè intelligence».

Mi sta dicendo che ha fatto anche la spia

«No, gestivo le raccomandazioni che arrivavano da parlamentari, cardinali, vescovi. Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 mi fu ordinato: “Tieni pronte le armi e la polveriera”. Ignoravo che stessero tentando un colpo di Stato. Del golpe Borghese lessi soltanto sui giornali».

Perché aprì il consolato del Kenya a Torino?

«Mi serviva una sede che fosse coperta dall’immunità diplomatica. Tenere la contabilità del nero nel mio ufficio di Parigi era diventato scomodo».

Non è facile diventare console.

«Anche qui, basta pagare. Fui indirizzato all’ufficio di un tizio di Roma, in via Veneto 144, quarto piano. Credo che fosse un massone. Era il 1980 o il 1981. Varcai un arco formato da due zanne di elefante che erano il doppio della mia statura. Quando scesi, al bar di sotto trovai Eugenio Scalfari, il fondatore della Repubblica. Mi presentai e gli feci i complimenti. Mi parve molto lusingato».

Che accadde dopo la sua scarcerazione?

«Tornai a casa e non trovai nessuno. Mia moglie era scappata con la nostra unica figlia, che oggi ha 44 anni, è laureata in storia dell’arte e mi ha dato due nipotini. Mio suocero, un contadino, stava rinchiuso in casa da mesi per la vergogna. Nel 1999 mi sono risposato a Las Vegas con una donna che ha tre lustri meno di me, campionessa triveneta senior di salto in alto. Nozze trascritte in Italia».

Craxi, segretario del Psi, prese le distanze.

«Il 18 marzo 1983 ordinò al direttore Ugo Intini di scrivere sull’Avanti! che ero al soldo di Cesare Romiti e Carlo De Benedetti, che avevo militato in Ordine nuovo, che a Verona frequentavo il plurindagato colonnello Amos Spiazzi. Tutte falsità, voleva screditarmi. Per ripicca, mi tenni i 20 miliardi di lire dei socialisti che avevo nascosto in un appartamento affittato a Paradiso di Lugano, nello stesso palazzo in cui abitava Gianna Nannini».

Il Psi le lasciò quel malloppo senza fare nulla

«Temevano che raccontassi altre cose. Un pentito confessò che la ’ndrangheta progettava di uccidermi. Trattai con il nipote del boss Tano Badalamenti, Salvatore, proprietario di una sala da ballo a Nichelino. In cambio di protezione voleva che gli presentassi vip con vizi costosi: droga, sesso, gioco d’azzardo. Fu ammazzato dopo pochi mesi».

Chissà quanto ha speso in avvocati difensori.

«Uno per tutti? Giandomenico Pisapia, padre di Giuliano, ex sindaco di Milano, mi recapitò una parcella da 350 milioni di lire».

Oggi negli appalti è cambiato qualcosa

«Niente di niente. Se mi mettessi una parrucca e mi scegliessi un altro cognome, potrei ripetere in qualunque città gli stessi intrallazzi combinati a Torino. Con i politici è come con le donne: serve molto tatto, vanno corteggiate senza fretta. Ma se ci staranno, lo capisci subito. Ci stavano tutti».

Ha mai confessato i suoi peccati a un prete?

«Sono amico d’infanzia di Giuseppe Zenti, vescovo emerito di Verona. Gli ho confidato: tu lo sai che andrò all’inferno, vero? Mi ha risposto: “Non è mica detto. Hai un amico che ti può raccomandare al Padreterno con le preghiere”».

Non penserà che anche nell’aldilà funzionino le spintarelle.

«Non credo. Quello che so è che non rifarei nulla di ciò che ho fatto. Non ne è valsa la pena».

FONTE: Stefano Lorenzetto

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(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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