Stupro di gruppo a Palermo. Fra D’Alessandro: “Bisogna ripartire dalla famiglia”
Ha destato grande clamore e indignazione lo stupro di gruppo a Palermo ai danni di una ragazza, avvenuto il 7 luglio scorso. Sei dei sette ragazzi accusati erano stati reclusi nel carcere Pagliarelli a Palermo, ma a loro sarebbero arrivate minacce dagli altri detenuti e per questo è stato disposto il loro trasferimento in altri istituti dopo che la direzione del penitenziario ne aveva chiesto “l’immediato allontanamento per prevenire possibili azioni destabilizzanti per ‘ordine e la sicurezza”. Perché “l’elevato clamore mediatico della vicenda ha determinato la piena conoscenza dei fatti anche alla restante popolazione detenuta, ragion per cui – aveva scritto la direzione – sono invisi alla stessa inclusi i detenuti delle sezioni protette dove si trovano” i giovani. Anche gli stessi indagati avrebbero chiesto ai loro legali di potere andare in altre carceri. Il settimo indagato, che il 7 luglio era ancora minorenne, invece, prima ha lasciato il carcere minorile per andare in una comunità, ma da ieri è tornato nell’istituto penale minorile di Malaspina perché avrebbe violato le consegne di non comunicare con l’esterno. Alla base della decisione del Gip ci sarebbe il fatto che il giovane dopo essere stato scarcerato ha girato una serie di video, postati su Tik Tok, violando le prescrizioni del magistrato, ma anche un’analisi dei suoi messaggi e commenti dopo lo stupro scritti agli altri presunti violentatori che proverebbero che nel corso dell’interrogatorio avrebbe mentito al giudice sul suo “pentimento” e non avrebbe detto la verità sulle fasi della violenza sessuale. A fra Loris (Luigi all’anagrafe) D’Alessandro, cappellano al Pagliarelli, abbiamo chiesto notizie.
Fra Loris, ci sono state minacce da parte di altri detenuti?
Non so nulla, se non quello che ho letto sui giornali.
Succede che dei detenuti ricevano minacce da altri?
Sì, capita che ci siano detenuti malvisti a seconda della tipologia del reato di cui si sono macchiati, per questo vengono rinchiusi in sezioni protette. In questo caso il caso ha fatto scalpore perché è un gruppo numeroso. Poi, sono ragazzi ed è più facile alla loro età avere paura. In carcere da noi abbiamo anche il ragazzo condannato per il femminicidio di Roberta Siragusa a Caccamo, quindi abbiamo al Pagliarelli casi difficili.
Ha incontrato i giovani accusati dello stupro?
No, non li ho ancora incontrati. Ma a partire da questo grave episodio di violenza vorrei lanciare un appello a tutti i genitori, che sono i primi educatori dei figli. E non mi riferisco solo ai genitori dei giovani indagati ma a tutti i genitori.
Prego, ci dica…
I genitori devono educare i figli nei sani principi, nei valori, nel rispetto della donna.
Purtroppo, quello che ha compiuto il gruppetto dei ragazzi di Palermo è un gesto che fanno tanti ragazzi, anche se singolarmente. Manca un’educazione sessuale, il rispetto di genere. C’è una crisi educativa spaventosa che purtroppo ha ricadute gravi. E lo vediamo concretamente: il carcere è pieno di giovani e giovanissimi, che usano droga e alcol e commettono dei reati. Questo sta a indicare che i genitori non ci sono alle spalle. Per prevenire tutto ciò
bisogna ripartire dalla famiglia.
Queste sono riflessioni mie personali che non si riferiscono solo al caso specifico che vede protagonista il gruppo di ragazzi accusati dello stupro a Palermo. Molto spesso sono ragazzi a violentare loro coetanee: i genitori non sanno cosa fanno i figli, se usano sostanze, se si ubriacano. Un altro problema è che tanti genitori non sanno dire di no ai propri figli, non insegnano loro cosa significa un no, quindi i ragazzi non comprendono quando una ragazza dice no a delle avances sessuali, per loro vale solo la propria volontà di quel momento. Bisogna rivedere l’educazione che diamo ai figli, con attenzione e determinazione. E occorre fare i genitori, con coraggio, senza paura. Penso che questo appello alla responsabilità sia più importante che accendere i riflettori sui ragazzi che hanno partecipato allo stupro di Palermo: hanno compiuto un reato gravissimo, ma come fanno reati gravissimi di vario genere tanti giovanissimi in tutta Italia. E questo, a mio avviso, è molto preoccupante.
Se i sei ragazzi non fossero trasferiti e lei li avesse incontrati, cosa avrebbe detto loro?
Se avessero chiesto un colloquio con me, sicuramente sarei andato con piacere, come faccio con tutti gli altri detenuti. Intanto, la giustizia sta facendo il suo corso. Già l’essere in carcere aiuta a capire di aver commesso un reato gravissimo. Nei colloqui personali – ma questo vale per tutti, non solo per i protagonisti della violenza di gruppo – i detenuti se hanno capito di aver sbagliato e sono pentiti del reato commesso lo manifestano innanzitutto attraverso le lacrime. Se invece non si interiorizza l’errore fatto il carcere stesso ti mette di fronte alla realtà di aver compiuto una cosa gravissima. Ci sono poi educatori e psicologi e ognuno nel suo ambito parla del reato commesso cercando di far prendere coscienza della sua gravità. È un lavoro corale per aiutare il detenuto a capire cosa ha fatto. Non sempre si ottiene lo stesso risultato, ma lo sforzo per un lavoro di consapevolezza c’è sempre. Quando le condanne diventano definitive entrano in campo anche gli assistenti sociali. Inoltre, si cerca di coinvolgere anche le famiglie. Ci sono anche quelli che negano di aver compiuto un reato, in quei casi proviamo a sensibilizzare il più possibile. Alcuni giovani hanno il cervello “bruciato” dalle droghe, dal crack, quindi può succedere che ripetano gli errori già compiuti o ne faranno altri perché non hanno la forza di uscire dal circolo negativo in cui sono caduti.
(Fonte: AgenSIR – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)