Lavoro, tra Scilla e Cariddi* di Vincenzo D’Anna*
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Lavoro, tra Scilla e Cariddi* di Vincenzo D’Anna*
Non c’è bisogno d’essere un marxista né di idolatrare lo Stato massimo che tutto conduce a sé (per conto di chi politicamente lo occupa in quel frangente temporale), per esecrare la peggiore delle ingiustizie. E cosa altro c’è di più ingiusto e crudele dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, quello che stravolge e cancella la civiltà giuridica, l’equità, la concordia sociale e la morale individuale? L’essere umano ha un proprio portato di diritti inviolabili, di valori etici e di prerogative naturali che devono restare indisponibili e non negoziabili innanzi a qualsiasi autorità. Ebbene, il liberalismo ha un senso compiuto allorquando garantisce l’uguaglianza delle opportunità, denega l’uguaglianza degli esiti di vita e combatte ogni forma, palese o surrettizia che sia, di predominanza pervasiva degli apparati pubblici. Ciascun individuo, ciascun componente della società possiede una specifica identità genetica ed esistenziale alla quale va garantita l’autonomia di definire quale debba essere il proprio destino onde poter, così, realizzare l’originale e libera ricerca della felicità. Ebbene in questo contesto di valori e principii lo sfruttamento del bisogno (e di qualunque altra causa sociale oppure individuale) va stroncata e deprecata. Lo Stato stesso, inteso sia in generale sia come datore di lavoro (per oltre 2,5 milioni di persone), ha l’obbligo di combattere lo sfruttamento e l’eliminazione delle diversità. Tuttavia l’economia ha le proprie leggi, il mercato di concorrenza i propri dettami, la libera impresa le proprie esigenze. Tutte queste prerogative vanno tutelate e contemperate affinché resti in vita l’impresa stessa e con essa la tutela dei posti di lavoro, il miglioramento delle condizioni di vita del lavoratore. Chi ha avuto modo di leggere “Stato e Mercato”, l’epistolario tra Giorgio La Pira e Luigi Sturzo, ne potrà ricavare un quadro perfetto circa il complesso delle esigenze da contemperare nella libera iniziativa e nelle imprese statali. Queste ultime, com il loro carico di debiti, di lassismo parassitario e clientele, producono disservizi ed accollano i deficit di gestione ai contribuenti sottoforma di tasse. Nel contempo creano sperequazione di trattamento e di valorizzazione della produttività tra dipendenti pubblici e privati. La Pira, cattolico democratico seguace di Giuseppe Dossetti, era incline a ritenere i diritti dei lavoratori come indipendenti dall’attività imprenditoriale e dalle contingenze del mercato di concorrenza. Insomma: la forza lavoro era da intendersi una variabile indipendente dai cicli produttivi. Luigi Sturzo, cattolico popolare e liberale, al contrario, riteneva che il bene del lavoratore dipendesse necessariamente anche dalla resa economica dell’impresa. Insomma: si scontravano una visione pauperistica di tipo etico fideistico con una più pragmatica e concreta. I fatti hanno dato ragione a don Sturzo ed il progresso tecnologico ha in gran parte eliminato il rapporto diretto tra lavoro e produttività, affidando alle macchine quel ruolo. In questo contesto la produzione ha virato verso la meccanizzazione e quindi sulla qualità e la novità del prodotto (progresso merceologico) più che sulla quantità delle ore lavorate. Un’evidenza che il processo di globalizzazione ha confermato, essendo i prodotti il frutto dell’assemblaggio di più parti lavorate anche in ambiti specifici, spesso distinti e distanti nel mondo globale. Tornando al tema dello sfruttamento, va detto che lo Stato con l’alta tassazione paradossalmente rifonde le perdite delle proprie imprese creando un danno a quelle a gestione privata, alterando così il principio di leale concorrenza. Uno svantaggio per gli imprenditori, oltre quello erarariale, un carico pesante che spesso crea i presupposti per la contrazione dei salari e delle spese onde poter mantenere i prezzi entro gli ambiti concorrenziali dettati dal mercato. Non c’è alcuna politica salariale nella quale lo Stato stesso non interferisca, sia in termini di tasse che di concorrenza. Il taglio delle imposte diventa pertanto un addendo essenziale per una giusta politica salariale, così da conciliare equità e prezzi e far sopravvivere la condizione competitiva dell’azienda. Inevitabilmente, parlare di salario minimo significa parlare anche di tasse ed oneri accessori per l’imprenditore. Ne consegue che il ciclo produttivo mantiene i criteri di concorrenzialità solo in combinato disposto con un’azione del governo che miri a ridurre le proprie pretese e la contrattazione salariale coi sindacati. Nel pubblico impiego quest’ultima è un mero infingimento: un atto formale e rituale, che si ripercuote come un danno sulla restante parte del sistema lavoro perché non riduce i costi dei dipendenti e, anzi, aumenta il fabbisogno finanziario dello Stato. Il che induce l’aumento del peso fiscale soprattutto ai danni del privato. Non occorre, insomma, solo limitare i costi. Bisogna anche aprire, con i sindacati, una nuova stagione contrattuale: quella basata sulla valutazione del merito, della capacità e della produttività. Se non si tutelassero quelli che lavorano di piu e meglio arriveremmo al punto di sostituire lo sfruttamento di tipo economico dei lavoratori con un’altra odiosa forma di diseguaglianza: quella della massificazione e dell’omologazione. Quest’ultima è quella che taglia le eccellenze in termini di capacità e di merito per giungere all’uguaglianza degli esiti, il che equivale a non tener conto del talento dei singoli, del lavoro dei capaci e dei volenterosi. Un danno ancor più grave di quello economico, che finirebbe per riverberarsi sul piano della qualità e della concorrenzialità dell’azienda. Insomma non basta il salario minimo come bandiera. E’ necessario solcare più vasti mari, navigare nel mondo. Evitare Scilla, che è il mare che lacera, e Cariddi, che è il mare che inghiotte. Lavoro e produzione, in fondo, sono facce della stessa medaglia!!
*già parlamentare
FONTE:
(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)
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