Il crime esistenziale “Come pecore in mezzo ai lupi” di Lyda Patitucci e in arrivo il suggestivo “Asteroid City” di Wes Anderson
Perdersi per ritrovarsi. È il percorso che compie il personaggio di Vera, poliziotta sotto copertura tra le maglie della malavita: un viaggio nelle pieghe del buio, tra i tornanti di una vertigine claustrofobica, dove salta ogni schema e legame, famiglia compresa. Parliamo del crime esistenziale “Come pecore in mezzo ai lupi”, fortunato esordio alla regia di Lyda Patitucci. Protagonista è un’intensa Isabella Ragonese, ben affiancata da Andrea Arcangeli e Tommaso Ragno. È in sala dal 13 luglio con Fandango. Ancora, anteprima del nuovo film di Wes Anderson “Asteroid City”, in concorso a Cannes76 e nei cinema dal 14 settembre con Universal: il regista statunitense stupisce ancora una volta dal punto di vista estetico-formale, regalando una suggestione fantasmagorica. A latitare però è la narrazione, la sceneggiatura. Il cast hollywoodiano all star – tra i tanti Tom Hanks, Tilda Swinton, Bryan Cranston e Scarlett Johansson – fa il resto, regalando uno spettacolo gustoso. Infine, per tutta la famiglia il cartoon “Ruby Gillman. La ragazza con i tentacoli” di Kirk DeMicco targato DreamWorks. Un racconto di formazione che si ispira all’ironia di “Shrek” in chiave colorata e pop. Il punto Cnvf-Sir.
“Come pecore in mezzo ai lupi” (Cinema, 13.07)
Ha affiancato il regista-produttore Matteo Rovere nei film “Veloce come il vento” (2016) e “Il Primo Re” (2019), ora Lyda Patitucci finalmente conquista la scena con il suo film d’esordio “Come pecore in mezzo ai lupi”. A scriverlo è Filippo Gravino, lo produce lo stesso Rovere con Groenlandia insieme a Rai Cinema e Fandango. Si tratta di un crime fosco che alterna vigorose sequenze d’azione a raccordi introspettivi lividi. Un viaggio disperante nelle praterie del Male per una donna quarantenne.
La storia. Roma oggi, Vera (Isabella Ragonese) è una poliziotta infiltrata sotto falso nome in una banda criminale internazionale che si muove tra rapine, estorsione e traffico di droga. Puntualmente fa dei report ai colleghi della Polizia, che stanno provando a stringere il cerchio sulla banda. Nel colpo in preparazione a un portavalori viene assoldato anche un giovane padre separato, Bruno (Andrea Arcangeli), che per sbarcare il lunario e mantenere la figlia piccola si è compromesso con la malavita. Bruno è il fratello di Vera, e questo complica tutto…
“L’elemento centrale di questo film, l’unica cosa che davvero conta, sono i personaggi”. Così Lyda Patitucci nelle note di regia, sottolineando in particolare: “Ho cercato di raccontare i protagonisti di questa storia per come sono: con tono secco, diretto, onesto, crudo e persino spietato, ma con sentimento, emozione, sempre senza giudizio”. La regista traccia bene il perimetro del racconto, mettendo in luce la forza del film. La storia, infatti, ruota sul dissidio interiore di Vera, donna delle forze dell’ordine che deve cancellare se stessa pur di essere credibile agli occhi dei criminali su cui sta indagando. Vera cambia nome, si tinge i capelli, azzera la propria femminilità in abiti neri, per lo più da motociclista. Non sono ammesse emozioni, errori. Non c’è appello. E quando compare in campo il fratello Bruno, un povero disgraziato che nella propria vita ha combinato poco, tutto sbanda. La freddezza di Vera vacilla, mettendo in allarme anche i colleghi della Polizia. Bruno sembra un personaggio pasoliniano, che non ha niente a parte una bambina di appena sei anni, Marta, e per mantenerla, vista la condizione di estrema povertà, tenta furti qua e là. Messo alle strette da un quadro sociale sempre più degradato, Bruno prova il “grande salto”: chiede a un amico di far parte di un colpo importante, l’assalto a un portavalori. Il Male però non fa patti, divora senza pietà.
Con una grande forza narrativa, una bella grinta di sguardo dalle striature livide, Lyda Patitucci convince per lo stile di regia, per come controlla un valido film di genere, che per certi versi ricorda un po’ “Occhi blu” del 2021, esordio alla regia dell’attrice Michela Cescon. Se dunque a funzionare bene sono la regia della Patitucci e i protagonisti, su tutti la sempre più brava Isabella Ragonese, che gestisce con consapevolezza espressività, azione e introspezione del proprio personaggio, sembra convincere un po’ meno l’impianto della sceneggiatura. Le sequenze sono efficaci, ma sostanzialmente slegate; manca compattezza e dei passaggi risultano accennati, senza adeguati approfondimenti: in primis il rapporto di Vera e Bruno con l’ingombrante figura paterna (Tommaso Ragno). Nell’insieme il film colpisce e convince, al di là di qualche elemento più acerbo. Complesso, problematico, per dibattiti.
“Asteroid City” (Cinema, 14.09)
Passato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, “Asteroid City” di Wes Anderson sarà uno dei titoli di punta di settembre 2023. Noi lo abbiamo visto in un’anteprima stampa con Universal. Il geniale regista texano, classe 1969, ci ha abituato a opere visivamente folgoranti, dei fuochi d’artificio di poesia e colori sgargianti abbinati a raccordi di ironia sottile. Tra i titoli: “I Tenenbaum” (2001), “Moonrise Kingdom” (2012), “Grand Budapest Hotel” (2014) e “The French Dispatch” (2021). Con “Asteroid City” Wes Anderson ci accompagna negli Stati Uniti degli anni ’50, tra sogno americano, imprese militari e caccia agli alieni. Un testo stratificato, che ricomprende anche sguardi sul divismo.
La storia. Usa anni ’50, nella piccola cittadina di Asteroid City in mezzo al deserto finiscono in quarantena un gruppo di villeggianti e dei militari. Lì è stato appena avvistato un alieno, un Ufo, e il governo si deve pronunciare. A narrare i fatti è un noto scrittore…
Punto di forza del genio di Wes Anderson è il racconto della realtà, della società americana (ma non solo), ricorrendo al sogno, alla favola eclettica e raffinata, persino all’animazione. La sua messa in scena è puntualmente magnifica, elegante e seducente. I suoi film rimangono impressi nella mente soprattutto per la composizione visiva, per un cromatismo sofisticato, unico, che domina persino sul racconto. A esaltare il tutto le musiche di Alexandre Desplat, compositore che lo segue stabilmente ormai da anni (da “Fantastic Mr. Fox”, 2009). Questo è valido anche per “Asteroid City”, film giocato in tre atti ed epilogo che corre su un binario composto da turchese, giallo e arancione, non tralasciando il sofisticato bianco e nero che rimanda al mondo del palcoscenico, all’artificio creativo.
Se l’elemento visivo è pressoché inappuntabile, a disorientare un po’ è la linea del racconto, che si agita in maniera ondivaga perdendo gradualmente compattezza e sostanza. Il racconto della società americana, colta tra ambizioni di conquista dello spazio e paura-mito degli alieni, non sembra trovare adeguata forza, mordente. Qua e là intuizioni acute, brillanti, che però non salvano il corpus narrativo, non riescono da sole a bilanciare una bellezza visiva diffusa, dalla prima all’ultima inquadratura.
Ancora, Wes Anderson mostra le sue doti come regista fuoriclasse anche per come costruisce e cesella i personaggi, che affida sistematicamente ad attori-amici come Tilda Swinton, Edward Norton, Jason Schwartzman e Adrien Brody come pure a nuovi incontri artistici: Tom Hanks, Steve Carell, Margot Robbie e Maya Hawke. Attori che imprimono slancio a un racconto fantasmagorico, al punto da supplire all’andatura claudicante del copione. Nell’insieme, “Asteroid City” è un viaggio ammaliante nel sogno a stelle e strisce con sguardi tra scena e retroscena, che si lascia apprezzare più per la forma che per il suo contenuto, al punto da domandarsi (come per il precedente “The French Dispatch”) se non sia solo un mero esercizio di stile, lo splendido divertissement di un talento visionario. Consigliabile-complesso, problematico, per dibattiti.
“Ruby Gillman. La ragazza con i tentacoli” (Cinema, 05.07)
Un’animazione colorata, di respiro pop. È “Ruby Gillman. La ragazza con i tentacoli” (“Ruby Gillman, Teenage Kraken”), cartoon diretto da Kirk DeMicco insieme a Faryn Pearl; una produzione DreamWorks animation che richiama il successo di “Shrek”: è un racconto infatti giocato tra favola e metafora sociale che punta a sovvertire lo sguardo, a forzare nuove angolature. La protagonista non è un’avvenente sirenetta tutta sorrisi e folta chioma rossa – curiosa la citazione dell’immaginario Disney nella stessa stagione in cui al cinema “La sirenetta” live-action – bensì un mostro marino simpatico e goffo.
La storia. Liceo Oceanside, l’adolescente Ruby vive con i suoi amici un po’ nell’ombra. Si sente invisibile agli occhi dei più, soprattutto di Connor, ragazzo con cui Ruby vorrebbe andare al ballo. A casa poi le cose non vanno benissimo, perché nonostante abbia una famiglia splendida Ruby fatica ad accettare le rigide regole della madre Flo (Tony Collette). Una di queste le proibisce di entrare in mare. Quando Ruby però cade accidentalmente in acqua, scopre un aspetto di sé e della propria famiglia che le era stato tenuto all’oscuro: è una kraken, un mostro marino appartenente a un’importante dinastia di custodi degli Oceani. Lei è la nipote della Regina guerriera dei Sette Mari (Jane Fonda).
“Da filmmaker, ho sempre puntato a sovvertire le aspettative attraverso la mia narrazione. Nel caso di ‘Ruby Gillman’ una delle cose che più mi ha entusiasmato è stata l’opportunità di poterlo fare con la mitologia dei kraken e delle sirene”. Sono le parole del regista Kirk DeMicco, che tracciano bene l’orizzonte narrativo in cui si muove il cartoon. È un racconto di formazione in chiave pop e ironica, debitrice dell’immaginario DreamWorks, “Shrek” in testa. Uno spingere l’attenzione ad andare oltre le apparenze, guardando alla sostanza delle cose, all’animo delle persone. Ruby si sente invisibile come ragazza, quando poi si scopre un mostro marino questo la abbatte ancora di più. Si percepisce sbagliata. Mettendosi però in ascolto della nonna, venendo a conoscenza del suo passato familiare glorioso, comprende che i tentacoli sono per lei un dono e non un ostacolo. Ruby diventa un riferimento per gli amici, la custode e la beniamina della piccola città sull’oceano.
“Ruby Gillman” è un cartoon simpatico e garbatamente irriverente, orientato verso un pubblico di famiglie e di preadolescenti. Un modo per mettere a tema il vivere familiare, i valori del dialogo e della fiducia, attraverso soluzioni brillanti e frizzanti. A bene vedere, l’animazione funziona meno del geniale “Shrek”, ha una struttura narrativa più elementare, per certi versi banale, con citazioni meno acute e incisive. È comunque un buon film per il target cui è rivolto. Consigliabile, semplice, per dibattiti.
(Fonte: AgenSIR – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)