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Attualità

*Il verso della civetta* di Vincenzo D’Anna*

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*Il verso della civetta*

di Vincenzo D’Anna*

Chiunque abbia avuto modo di leggere le opere degli scrittori siciliani, da Luigi Pirandello a Giovanni Verga, da Leonardo Sciascia ad Andrea Camilleri, ha sempre potuto apprezzare, insieme con la trama del romanzo, anche l’acuta descrizione del contesto antropologico e sociologico entro il quale si muovevano i personaggi delle loro storie: la bellezza dei luoghi, il carattere, le fisime e le abitudini dei protagonisti. Unici nel loro genere, frutto della sovrapposizione delle molte etnie e delle altrettante dominazioni (dai fenici ai greci, dai romani ai bizantini, dagli arabi ai normanni) che si sono succedute, nel corso dei secoli, in Trinacria, i siciliani sono un impasto non facilmente identificabile e catalogabile in confronto all’italica gente. Entro questo unicum umano sono riconoscibili infatti molti peculiari aspetti del loro modo di essere e di vivere ancorché, in realtà, siano finanche lontani dalle oleografie che spesso li descrivono. Capaci di grandi gesta, orgogliosi di essere i discendenti di Archimede, i siculi si sono distinti per la particolarità dell’agire e talvolta anche per le contraddizioni tra l’eccellente ed il meschino. Vittime di faide infinite sfociate, poi, nella nascita di cosche malavitose, attraverso le quali ha preso forma e si è regolata una sorta di stratificazione gerarchica del sociale e del potere. La mafia è appunto espressione, per quanto deleteria, di questa eterna lotta tra potenti e diseredati, tra i signorotti, i nobili e i ricchi borghesi (che li hanno sostituiti), e quella parte della popolazione costretta ad arrangiarsi per vivere. Vivere in un isola stupenda ed essere, al tempo stesso, protagonisti di una lunga e gloriosa storia che ha sempre indotto i cittadini dell’isola a risolvere in quel contesto territoriale, le proprie questioni di fondo tra cui quella del riscatto socio economico ed identitario. Diffidenti e prudenti per natura nei confronti dello Stato unitario, visto come un ulteriore intruso che aveva occupato la loro terra, i siciliani si sono organizzati sovente in proprio e spesso al di fuori dalle leggi nazionali, ritenute, talvolta, una sorta di limitazione se non un sopruso nei confronti della propria autonomia. Antico granaio per l’Urbe, ricca di acque e di boschi, la Sicilia è stata sistematicamente depredata fino a divenire scarsa di risorse idriche con queste ultime a determinare la fertilità o meno degli appezzamenti ed a sviluppare il latifondo e con esso gabelle e “campieri”, gli artefici del caporalato locale. E’ stato contro quei soprusi che ha preso forma e si è alimentato, via via, il carattere indomito di taluni che, muovendo dallo stato di perenne precarietà hanno organizzato il cosiddetto “anti-stato”. Il lavoro ed il salario, duro il primo, scarso il secondo, sia nelle marine, sia nelle solfatare, hanno poi dato man forte agli adepti delle consorterie criminali che, da espressione di dominio dei latifondisti hanno preso a trasformarsi, via via, in forme autonome di potere occulto pronte a muoversi, paradossalmente, contro i soprusi dei medesimi. Quello che è giunto fino ad oggi è il resoconto, riveduto e corretto nei tempi, di tante storie di miserie e di sopraffazioni. Un’analisi che non è da considerarsi giustificazione per i crimini, le angherie e la malvagità che si sono accompagnate a questo moto di ribellione, bensì una riflessione sulle origini di un fenomeno da eradicare per far trionfare lo stato di diritto e le garanzie civiche e politiche spettanti ai cittadini, senza alcuna distinzione. Nel conto dei fatti vanno messi anche gli aspetti di una primigenie violenza che con tutti i mezzi disponibili è stata perpetrata in danno di gente sfruttata e privata di qualsiasi dignità civica ed umana. Fino a quando la risposta dello Stato e delle sue istituzioni sarà solo repressiva, il fenomeno non cesserà del tutto, così come accade quando l’ingiustizia sociale e le omissioni degli apparati pubblici, determinano un moto di sordo rancore negli amministrati. E’ quest’ultima una chiave di lettura che prescinde dalla lotta al crimine ed alla malavita che, in quanto tali, sono la negazione assoluta della giustizia e della civile convivenza. Per fare questo, per tagliare l’erba sotto i piedi dei boss, non occorrono né poliziotti né magistrati integerrimi. Occorre solo la buona politica: quella che non consente parti eguali tra diseguali. Quella che non si piega agli interessi clientelari ed ai compromessi elettorali con certi ambienti. Si avverte, invece, la necessità di una classe dirigente adeguata, che possa e voglia spezzare il circolo compromissorio tra eletti ed elettori, evitando che i primi si confermino la nuova, eterna, espressione del potere per il potere ed i secondi, i cittadini, i soliti petenti di favori che spesso sono diritti a loro conculcati. Ecco perché bisogna riformare lo Stato e le sue leggi, anche in materia di giustizia, come presupposto necessario per uscirne. Non basta celebrare ogni anno, il sangue dei martiri, per cancellare un atavico retaggio di ingiustizie e di omissioni. Serve invece l’onestà degli intenti. Occorre che il verso della civetta di Sciascia abbia a cessare e che vincano i “Bellodi” non gli “Zecchinetta”.

*già parlamentare

 

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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