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Uomo-Natura, rapporto non sempre idilliaco: il perché ce lo spiega il professore Di Burra

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Rapporti Uomo-Natura – considerazioni introduttive di Guglielmo di Burra

Nell’età della perdurante pressione demografica, della crisi delle risorse naturali, dei crescenti squilibri e sovvertimenti ecologici, l’uomo è chiamato ad assumere un atteggiamento profondamente e consapevolmente nuovo nei confronti della natura.

La natura ci guarda; e il suo sguardo è, insieme, di implorazione e di minaccia.

Quando riflettiamo sui concetti di uomo e natura non possiamo non avvertire che oggi sussiste tra essi, almeno sotto certi aspetti, una sorta di segreta dissonanza. L’essere umano sembra guardare alla realtà naturale con un sentimento di ostile tensione e di crescente timore: la tensione di chi, impaziente, vorrebbe che la natura evitasse di creare resistenze ai propri disegni di asservimento e di sfruttamento; il timore che la natura medesima faccia pagare costi sempre più alti, insostenibilmente alti, a quanti intendono approfittare delle sue ricchezze in modo indiscriminato.

Tale situazione è tanto più dolorosa, e anche sorprendente, in quanto la storia ci ricorda che l’atteggiamento dell’uomo nei confronti della natura è stato, a lungo, di tipo assai diverso. Nel vasto arco di tempo compreso tra l’Antichità e il Rinascimento, l’uomo non ha concepito la propria relazione con la natura in modo conflittuale e neppure (o non esclusivamente) in termini di sfruttamento. In particolare, nell’età antica, egli si è considerato essenzialmente come parte di un unico Essere, di un’unica Realtà: di una Physis vista come generosa sorgente di vita e di beni. Nell’età cristiana si è poi percepito come creatura: come entità creata da quel Dio che produce, con la stessa cura e attenzione, il cielo e la terra, gli animali e le piante. Tutte le “cose” e i fenomeni del mondo sono quindi legati tra loro da un profondo vincolo metafisico che include organicamente anche l’uomo (indipendentemente dai compiti spirituali che questi è chiamato ad assolvere). Infine, il Rinascimento sviluppa ulteriormente lo stesso principio classico e cristiano della fondamentale parentela tra uomo e natura. Molti suoi esponenti elaborano, anzi, su tracce storiche, la ben nota dottrina dell’armonia microcosmo-macrocosmo: l’uomo (il microcosmo) sarebbe una sorta di riflesso speculare, in miniatura, di un più vasto Ordine naturale (il macrocosmo).

E’ semmai nel Seicento, nel secolo della grande Rivoluzione intellettuale che ha fondato la nostra modernità, che le cose cominciano a cambiare. In quell’epoca, è come se l’uomo prendesse le distanze dalla natura. E’ come se il primo iniziasse a considerare la seconda non più come una madre o un orizzonte generativo, ma come un oggetto: un oggetto distinto e diverso dal soggetto-uomo; un oggetto da sottoporre al freddo e severo scrutinio della scienza; un oggetto suscettibile di essere sottomesso ai disegni di potenza, o di onnipotenza, elaborati dall’essere umano. Quando Bacone, uno dei padri emblematici della Rivoluzione scientifica, scrive in una celebre frase che alla natura non si comanda, o che non la si “vince”, se non ubbidendole (natura non nisi parendo vincitur), egli esprime un assunto che deve essere colto non già, come si fa di solito, in una sua parte, bensì nella sua totalità. Bacone esorta, infatti, a un’ubbidienza che è in realtà capziosa e strumentale. L’obiettivo di fondo enunciato nella sua proposizione è quella del comando e della vittoria: cioè del dominio del mondo naturale, del suo asservimento ai fini dell’uomo.

Ma, più che sul motivo del dominio e dell’asservimento del mondo, io vorrei qui porre l’accento sul distanziamento dell’uomo dalla natura, cui ho accennato prima: sulla più o meno sottile e invisibile eterogeneità tra uomo e natura che si profila nell’età di Cartesio. A ben guardare, una parte cospicua del pensiero del Seicento ci pone dinanzi al seguente paradosso: il disvelamento dei segreti naturali, la “familiarizzazione” dell’uomo con la natura si realizza attraverso un’opera di “artificializzazione” della natura stessa e attraverso una distinzione di essa rispetto all’uomo. In effetti la natura, di cui si occupano con gran frutto tanti scienziati (a cominciare da Galileo Galilei), non è la natura nel senso ordinario e multiforme della parola: è una natura ri-condotta a estensione, a quantità, a numero. Quella di Galileo è una concezione selettiva e ascetica della natura: una concezione che respinge o esclude le qualità; una concezione che cancella e riduce le differenze individuali e gli eventi particolari, i quali pure costituiscono, per tanti versi, uno degli aspetti di maggior ricchezza della realtà naturale.

E non basta. Correlativamente a questa immagine di tale realtà, anche l’immagine dell’uomo delineata da una parte del pensiero seicentesco appare singolarmente riduttiva e “innaturale”, nonché, sotto un certo aspetto, poco idonea a favorire una nuova armonia tra l’uomo stesso e la natura. Da un lato, l’essere umano viene concepito, lo sappiamo, come una “macchina”: una macchina fatta di inerti ingranaggi che non spiegano con efficacia né l’origine, né l’azione delle funzioni umane più complesse. Dall’altro, l’essenza più intima e peculiare dell’Uomo è individuata per riprendere la più famosa tesi del più celebre filosofo del Seicento, in un Cogito, in un pensiero statutariamente diverso e distinto rispetto alla realtà fisico-naturale.

In verità, sarà solo in epoca successiva, nell’età dei Lumi, che l’uomo e la natura hanno intrapreso un complesso e travagliato cammino di avvicinamento reciproco, le cui tappe qui, per motivi di spazio, non si possono analiticamente illustrare. A questo proposito, non è un caso che uno dei concetti assolutamente centrali della riflessione sui rapporti uomo-natura, il concetto di ambiente, nasca proprio in questa epoca. “Ambiente”, non è un mero sinonimo di “natura”: è, invece, piuttosto il frutto dell’intersezione tra l’uomo e la realtà naturale. Se questo è vero, una delle precondizioni per premettere, in sede filosofico-scientifica, tale intersezione, era che l’essere umano venisse considerato un essere integralmente naturale e, proprio per questo, interagente da pari a pari e sotto ogni profilo con la natura.

Il primo studioso a usare il termine-concetto di milieu (ambiente) nella sua accezione biologica generale fu il francese Jean Baptiste de Lamarck (1744 – 1829), il celebre scienziato padre delle teorie trasformistiche che hanno preparato la nascita dell’evoluzionismo. Qualche anno innanzi un altro erudito filosofo francese, Constantin-François de Chasseboeuf, conte di Volney (1757 – 1829), conosciuto semplicemente col nome di Volney, aveva suggestivamente usato la nozione, se non la parola, di milieu nella sua opera “Viaggio in Egitto e Siria” pubblicata nel 1787. Autentico capolavoro, per più ragioni, di una certa letteratura scientifica di fine secolo, il Viaggio ha, tra gli altri, il merito di porre al centro dei suoi temi d’indagine precisamente la nozione di ambiente. Analizzando la realtà mediorientale, Volney non studia né l’uomo in sé, né, tantomeno, il pur suggestivo paesaggio dell’Egitto e della Siria. Studia, invece, l’uomo in quanto inserito in una dimensione che, insieme, lo stimola e lo condiziona. Non si può capire l’individuo mediorientale (singolo o associato) se non si colgono i caratteri peculiari proprio di quella dimensione, da esaminare in tutta la sua complessa specificità. Per realizzare tale obiettivo, Volney si fa al tempo stesso, negli anni dal 1783 al 1785, esploratore del territorio fisico naturale dell’Egitto e della Siria, analista delle strutture socio-economiche, e perfino studioso della dinamica temporale (la storia passata, le prospettive future) di tali Paesi.

Entro il testo di Volney opera, è chiaro, un principio teorico di grande rilievo: il principio che l’uomo non vive in una sorta di splendida autonomia e solitudine; che il suo essere/agire si inserisce invece in un contesto più ampio, la cui fisionomia è decisiva per quel medesimo essere/agire; che tale contesto presenta caratteristiche e obbedisce a una logica che vanno studiate con molta attenzione.

Il Viaggio in Egitto e in Siria ci serve anche per sottolineare un altro assunto essenziale nella moderna scoperta e studio dell’ambiente. E’ la tesi secondo la quale l’ambiente esige un’indagine non univoca ma molteplice. In effetti, esso va studiato nelle sue diverse realtà: fisico-naturale, socio-culturale, storica.

L’età dei Lumi, ripetiamolo, ha mostrato una grande consapevolezza di questi volti poliedrici della dimensione ambientale. Se già nella seconda metà del secolo alcuni studiosi scozzesi descrivono in modo assai innovativo l’ambiente sociale con cui l’uomo deve deve fare i conti, alla fine del ‘700 il grande scienziato Jean-Baptiste de Lamarck avviava le sue rivoluzionarie indagini sull’assoluta centralità dell’ambiente biologico nello sviluppo degli organi e delle funzioni degli esseri viventi. Una menzione a parte merita lo studioso inglese Robert Malthus, il quale, all’incirca negli stessi anni, riflettendo sul futuro dell’umanità, denunciava i grandi rischi connessi al diseguale sviluppo dei beni offerti dall’ambiente socio-naturale e dell’impietoso aumento della popolazione mondiale. Considerato soprattutto uno dei padri della scienza demografica, Malthus va considerato anche come un acuto studioso dell’ambiente dal punto di vista delle nozioni di risorsa e di sopravvivenza ecologica.

Per molto tempo la ricchezza delle intuizioni e delle indicazioni settecentesche relativamente alla tematica ambientale non è stata adeguatamente valutata e applicata. La cosa non può stupire oltre un certo limite. In effetti, vittima di una funesta miopia, la civiltà dell’ottocento, e ancor più quella del novecento, ha stentato assai a comprendere la straordinaria importanza dell’ambiente per la sua stessa sopravvivenza. Il consumo non cauto e sorvegliato dei frutti naturali, la violenza crescente delle élites dominanti sulle classi sempre più numerose degli indigenti, il superficiale e improvvido atteggiamento nei confronti dei problemi e degli equilibri ecologici, appartengono del resto a una storia abbastanza recente, a molti ben nota.

Indubbiamente, da qualche tempo, particolarmente in questi primi anni del terzo millennio, una parte dell’opinione pubblica ha cominciato a reagire contro tutto ciò. Si tratta però di una reazione alquanto debole e non sufficientemente organizzata, e che deve opporsi a interessi socio-economici assai forti.

Non basta. Talvolta – o spesso – si nota che le preoccupazioni ecologiche rappresentate da alcuni vengono sottovalutate o perfino disprezzate, in quanto giudicate espressione di ideologie anti-progressiste e anti-tecnologiche, quando non addirittura antiquate e irrazionali.

Ovviamente, sono in primo luogo gli esperti ambientali (nel 2015 venne riconosciuta dall’allora MISE – oggi divenuto MIMIT – la figura professionale dell’esperto ambientale che si occupa di progettare e gestire interventi di conservazione, valorizzazione e ripristino delle risorse ambientali, volti alla salvaguardia del territorio, all’ottimizzazione e alla tutela delle risorse idriche e agroforestali, al trattamento delle acque reflue, alla gestione dei rifiuti, al controllo delle emissioni in atmosfera, ed altro) che possono dare risposte appropriate agli atteggiamenti di cui sopra. Forse, però, anche il filosofo può portare un modesto contributo all’elaborazione di tali risposte. E può farlo anzitutto riflettendo su determinate componenti storico-teoriche dell’ideologia anti-ambientalistica, tuttora così potente.

La componente primaria (l’unica su cui mi soffermerò per ragioni di brevità) sembra la seguente. La civiltà occidentale si è costituita, almeno in un suo filone essenziale, come civiltà antropomorfica. Ha collocato l’uomo al centro del cammino della storia e gli ha consentito di sfruttare a suo piacimento la natura. Ma – ecco la replica, o l’obiezione – la natura è davvero un puro oggetto inerte e passivo, che il soggetto uomo può manipolare al di là di ogni limite e regola? Il filosofo (qualche filosofo…) dice che non è così. E aggiunge che l’intero problema dei rapporti soggetto-oggetto, o essere umano-natura, va ripensato in termini profondamente diversi.

Bisogna, in effetti, sottolineare con forza che l’uomo non è un essere autosufficiente, né tantomeno un essere che si possa auto-innalzare sul trono dell’onnipotenza e dell’arbitrio. A questa concezione deificata dell’uomo occorre contrapporne un’altra, elaborata da un ben preciso orientamento della riflessione filosofica. Per esso, l’essere umano è un essere costitutivamente mancante, e che proprio per tale mancanza si protende verso il mondo, a cercarvi un appoggio, un completamento. Già sotto questo profilo il mondo (la natura) appare un referente non riducibile a pura cosa manipolabile. Al contrario, esso si configura in qualche modo come il partner indispensabile di una ricerca di armonia che l’uomo non può compiere da solo. Ne deriva – ed è un punto cruciale – che essere umano e realtà naturale, ben lungi dal potersi strutturare secondo una gerarchia, si devono organizzare secondo un sistema nel quale l’uno e l’altra fanno parte di una vicenda bio-naturale e storico-temporale unitaria, che li vede coinvolti con pari diritti e pari responsabilità.

Alcuni studiosi integrano quanto appena detto con un’ulteriore osservazione. La natura esige rispetto non solo dal punto di vista degli interessi pratico-economici ed etico-spirituali dell’uomo: essa possiede anche una sua propria dignità, una sua propria autonomia. Se e quando riusciamo a guardarlo fuori dal nostro consueto orizzonte antropomorfico, scopriamo che l’universo naturale è straordinariamente ricco di valori, di suggerimenti, di messaggi etico-culturali diretti e indiretti. Come gli uomini non asserviti alla civiltà tecnologica ben sanno, la natura è una sorgente inestimabile di lezioni che arricchiscono l’uomo assai più di quando egli si reclude entro la gabbia dorata della sua sola cultura, della sua sola techne.

Certo, la natura è un’alterità rispetto a noi e, come tutte le alterità, rimane misteriosa, enigmatica, perfino incomprensibile. Ma una certa filosofia va da sempre sostenendo che l’uomo, per essere tale, non può fare a meno dell’alterità. Non può rinunciare all’esperienza di qualcosa che lo fronteggi straniero. In effetti, proprio da questa esperienza egli ricava la coscienza che ogni cosa – anche l’uomo stesso, anche il suo pensiero, anche il suo logos – non è il-limitata, ma possiede, sempre, precisi limiti: limiti con i quali è legittimo misurarsi, cimentarsi; come Ulisse giunto alle colonne d’Ercole. Ma limiti, anche, che devono esserci, che è bene che ci siano, per ricordare all’essere umano, sempre tentato dal demone dell’assoluto, che la Terra – casa dell’uomo – è la dimora di enti finiti, di soggetti relativi. Il messaggio etico di umiltà e, appunto, del senso del limite che emerge da tutto ciò, appare cruciale per una vita umana degna di questo nome. Ed è un fatto significativo che tale messaggio possa provenire proprio da un corretto rapporto con quell’ambiente naturale che tanto spesso l’umanità ha umiliato, offeso, ferito, soprattutto nell’era attuale.

Oggi, nell’età della perdurante pressione demografica, della crisi delle risorse naturali, dei crescenti squilibri e sovvertimenti ecologici, l’uomo è chiamato ad assumere un atteggiamento profondamente e consapevolmente nuovo nei confronti della natura. La natura ci guarda e il suo sguardo è, insieme, di implorazione e di minaccia. Si tratta di cogliere il messaggio, d’altronde eloquente contenuto in questo sguardo (anche il recente dramma alluvionale che ha colpito molti paesi dell’Emilia Romagna lo attesta). Si tratta di capire che tale messaggio ci riguarda. Si tratta, anzi, di scoprire che la realtà naturale non è una sorta di paese straniero e lontano, che possiamo anche ignorare. Quella realtà non è un’alterità rispetto a noi. Essa, al contrario, è noi stessi: fa parte della nostra identità, del nostro passato e, quel che più conta, del nostro presente e del nostro futuro.

L’obiettivo, è chiaro, non dev’essere quello di rinunciare alla cultura o di svalutare il pensiero. Dev’essere l’altro, di trasformare questa cultura e questo pensiero, in modo da produrre una nuova sensibilità ecologica, una nuova apertura verso la natura. Occorre imparare a considerare la natura non come dominio integralmente manipolabile dall’uomo, ma come irrinunciabile alterità di un sistema in cui l’essere umano e l’ambiente naturale coesistono alla ricerca dell’armonia. Per questo, l’uomo è chiamato ad uscire dai propri confini tradizionali, a farsi ente contestuale, soggetto interagente, in modo responsabile e lungimirante, con l’ambiente. Tutto ciò, è bene ripeterlo, non solo non implica alcuna riconduzione dell’essere umano a pura naturalità, ma implica, al contrario, un allargamento, un accrescimento della coscienza etico-intellettuale umana.

L’uomo deve giungere a scoprire di essere insieme abitante e custode del mondo. Solo chi abita il mondo con la consapevolezza che quella è la sua casa (la casa sua e dei suoi discendenti), solo quell’uomo si innalzerà all’altezza dei diritti e dei doveri che gli incombono. E solo chi custodirà, con cura e con amore, la casa del mondo sarà custodito con altrettanta cura e amore dal mondo.

(Guglielmo di Burra – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web© Diritti riservati all’autore)

 

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