Le guerre dimenticate alimentano le migrazioni
«Dobbiamo ripartire dal dolore e da questo deve scaturire una determinazione rinnovata capace di vedere le responsabilità e anche le omissioni che possono favorire tragedie come queste». Le parole del presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinal Matteo Zuppi, ci invitano a superare il mero scontro politico e ad analizzare la tragedia dei migranti morti annegati a pochi metri dalle coste italiane con il cuore e la ragione.
Il cuore ci impone di immedesimarci in quanti mettono a rischio la propria vita per costruire un futuro migliore per sé e per i propri figli. Non è retorica, è la verità. La stessa verità che suggerisce alla parte ricca del mondo di impegnarsi con sempre maggior determinazione a governare un fenomeno che è planetario e non si potrà fermare. Ce lo insegna il passato: nel corso dei millenni migrazioni si sono sempre registrate e fanno parte della storia dell’uomo. «Il Mediterraneo – ha detto ancora il cardinal Zuppi – ha sempre rappresentato un grande spazio d’incontro. Dovremmo dire, l’Italia in particolare, che questa è la vocazione per governare il fenomeno migratorio».
La ragione ci dovrebbe invece spingere a considerare i motivi dei fenomeni migratori, spesso dimenticati. Abbiamo la memoria corta, eppure dovremmo rammentare che pochi mesi fa noi Occidentali abbiamo letteralmente abbandonato il popolo afghano nelle mani dei talebani, aprendo la strada a un esodo di massa reso peraltro assai difficile da uno dei peggiori regimi attualmente esistenti al mondo.
E ancora, negli scaffali dei nostri supermercati nell’ultimo anno non sono mai mancati pane e pasta perché per molti Paesi europei, Italia compresa, l’Ucraina non era il primo mercato di riferimento per il grano. Invece ci sono economie popolose e giovani, come quelle dei Paesi del Nordafrica, che acquistavano una parte significativa del grano dall’Est Europa: la riduzione delle esportazioni conseguente alla guerra ha contratto le quantità disponibili e fatto innalzare i prezzi aggravando la condizione economica di Stati come l’Egitto, che da solo conta 109 milioni di persone.
Non ce lo ricordiamo abbastanza, ma ci sono nazioni come il Mali, il Burkina Faso e la Costa d’Avorio che devono fronteggiare l’avanzata dell’integralismo islamico: sono Paesi poveri in guerra contro un nemico ben attrezzato sotto l’aspetto ideologico e militare, nei quali le popolazioni rurali sono in balia della violenza.
Non fa notizia, ma il panorama del Corno d’Africa è drammatico. La Somalia da anni è un “non-stato” nel quale i civili subiscono inermi la guerra tra bande armate e in epoca più recente (da almeno un decennio) gli effetti dell’estremismo islamico. In Etiopia il conflitto “tigrino” ha provocato decine di migliaia di profughi. In Eritrea è instaurata una dittatura e il presidente Isaias Afwerki è stato accusato di crimini e violazione dei diritti umani sulla popolazione civile in Tigray.
La Siria non conosce pace e sta sperimentando in queste ultime settimane il dramma di un terremoto devastante che si abbatte su un’economia e una società già duramente colpite dalla guerra e all’epoca dell’Isis dalla parziale occupazione dei fondamentalisti islamici. La Libia resta fortemente instabile, senza un governo riconosciuto in maniera univoca sull’intero territorio statuale: le denunce per le carceri lager nelle quali vengono rinchiusi i profughi che arrivano dal Sahara non accennano a fermarsi.
A pochi chilometri da noi, in Serbia, Bosnia e Croazia, famiglie siriane e afgane camminano nella neve per giorni lungo la “rotta balcanica”, puntando verso Italia, Germania e Francia, nella speranza di non essere intercettati dalla polizia e dalle milizie private che danno loro la caccia.
Non illudiamoci, dalle coste africane e turche partiranno nuovi barconi perché siamo di fronte a un fenomeno epocale che non può essere governato da un solo Stato. Così come proseguirà l’afflusso di migranti che dall’America centrale raggiungono gli Stati Uniti, la prima potenza mondiale. E dalle zone più povere dell’India e del Pakistan si continuerà a guardare ai facoltosi paesi del Golfo Persico: il clamore sul rispetto dei diritti umani scatenatosi durante i Mondiali di calcio del Qatar sembra essersi ridotto a una flebile voce. Forse era solo parte dello spettacolo. Lorenzo Rinaldi
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