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“La luce in sala”/ Fabelmans di Spielberg

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Per il numero di gennaio della rubrica “La luce in sala” Marco Palladino recensisce “The Fabelmans”(USA 2022) di Steven Spielberg

“Non poteva esserci visione migliore per celebrare l’anniversario della proiezione del primo film dei fratelli Lumière a un pubblico pagante.
The Fabelmans è un atto d’amore (tra i più fulgidi) nei confronti della Settima Arte: quell’arte capace di “contenere” nel suo grembo tutte le altre arti e di sublimarle. Un autentico miracolo, capace di estorcere dal cuore quello stupore originario, quella meraviglia mista a terrore, che caratterizza l’incontro dell’io con l’emergere misterioso della realtà dall’abisso del nulla. La stessa meraviglia, intrisa di angoscia, che fece scappare gli spettatori che assistettero alla proiezione di L’Arrivée d’un train à La Ciotat, invade gli occhi di Sammy/Steven quando, per la prima volta, incoraggiato dai genitori, assiste al suo primo film, The Greatest show on earth di Cecil DeMille. La scena che mostra la tragedia dello scontro fra il treno e l’automobile, incide negli occhi sgranati del bambino le stigmate di quel sacro terrore, di quel trauma originario che produce, come il Sacro (Das Heilige) di Rudolf Otto, fascinazione e repulsione, come se ci si trovasse di fronte all’aprirsi di un baratro. Per tutto il tragitto, dal cinema a casa, il piccolo Sammy/Steven resterà in silenzio, destando la preoccupazione e il rimorso dei genitori. Quel silenzio, pregno d’angoscia, a ben vedere, è il primo sintomo di quella conversione dello sguardo e della memoria in cui, in ultimo, consiste il cinema. Quella luce abbagliante dello schermo, intessuta di ventiquattro fotogrammi al secondo (più di quanti la mente riesca effettivamente a conservare, fa notare il papà di Sammy/Steven) squarcia l’oscurità che funge da preludio alla visione, e, al contempo, quell’oscurità che si addensa attorno al centro del nostro esserci, separandoci da noi stessi e dagli altri. Il cinema ha il potere di infittire la memoria personale di altri sogni e di generare un’autentica connessione emotiva tra coloro che decidono di immergersi nello stesso sogno/film.
Sammy/Steven, tornato a casa, cerca di riprodurre l’origine del trauma, la scena del film di DeMille, utilizzando il modellino di un treno elettrico e la 8mm del padre. L’atto del filmare/riprodurre il trauma patito genera la sua trasfigurazione. Il cinema è un’illusione, un inganno, un sogno. Ma, per citare Orson Welles, è <<una menzogna che conduce alla verità>>. L’illusione appartiene a ciò che vediamo, alla sua esistenza fantasmagorica, ma non al vissuto, al sentire che soggiace al diramarsi della fantasmagoria. Così accade che addentrarsi, con l’occhio vigile della macchina da presa, nell’intimità del lutto (la morte della nonna, ottenuta attraverso la drammatica alternanza di soggettive e semi-soggettive) o del lutto della separazione dei genitori, lungi dal contraffare la vivezza originale del vissuto, serve ad allargarlo, ad approfondirlo e, in ultimo, a trascenderlo, a superarlo hegelianamente, a toglierlo conservandolo, a riportarlo su un’altezza spirituale capace di integrarlo per la propria crescita emotiva, per la scultura del proprio tempio interiore. Questo lavoro di appropriazione-approfondimento della memoria risulta essere, se si ha contezza del percorso cinematografico del regista, in tutti i suoi momenti apicali, una cifra inconfondibile del suo fare cinema. Si pensi, ad esempio, a Schindler’s list. Lì il corpo da plasmare era la memoria collettiva di un intero popolo, quello ebraico. Qui, la carne su cu si incide il segno vivido del regista, è la sua memoria personale. È egli stesso.
La connessione tra arte e scavo della memoria raggiunge il suo apogeo nella scena in cui Sammy/Steven scopre il tradimento di Mitzi (Michelle Williams), la madre. È interessante soffermarsi sul fatto che la scoperta derivi dall’attività del montaggio di un film dedicato interamente alla figura della mamma: un film voluto dal padre per aiutare la moglie a superare il lutto da poco occorsole.
Come si sa, l’attività del montaggio somiglia all’attività di selezione della memoria. Sammy/Steven è costretto a “eliminare” le scene che ritraggono la mamma nelle braccia di Bennie, il miglior amico di Papà Burt (Paul Dano). Questo gesto del taglio non è solo, come si intuirà, funzionale alla protezione dell’intimità della madre e del padre, ma potrebbe identificarsi con quella prima fase dell’elaborazione del lutto descritta da Elizabeth Klüber-Ross: la fase del, rifiuto, della negazione. Se è vero che il processo che sottintende ogni creazione artistica è un processo di progressiva trasfigurazione del sentire, di sublimazione del negativo che tracima in esso, allora non è del tutto sbagliato identificare questo film, e in generale ogni opera d’arte, come l’elaborazione sofferta di un’assenza, di una lacerazione nel tessuto della nostra singolarità. The Fabelmans racconta la nascita di un uomo. E questa nascita coincide con quella dell’artista. Non è possibile separare la maturazione interiore da quell’estetica, perché il cinema è l’arte dell’illusione che svela la verità di noi stessi e del mondo. E, se è vero che è questo, il cinema allora ci educa sentimentalmente e si impone come un umanesimo integrale, senza compromessi – il cinema di Spielberg, pur svelando le storture dell’umano, resta una fiaccola accesa sulla sua capacità di orientarsi verso il Bene e verso la condivisione di un comune orizzonte valoriale. Se volessimo utilizzare una formula coniata da Mancuso per definire la sua teologia naturale, egli non è né ottimismo né pessimismo, ma “ottimismo tragico”: uno sguardo che tiene insieme, in un solo pugno, le bassezze e le altezze dell’uomo, sapendo, però, che l’alto, il Bene, è il suo destino (la scena finale di Schindler’s List, capolavoro assoluto della storia del cinema, è più che eloquente).
Non è un caso, dunque, che nelle battute finali, quando Sammy/Steven si ritrova al cospetto di John Ford (David Lynch), l’anziano regista chiede al giovane Sammy/Steven che cosa sia l’arte: porsi la domanda sull’essenza dell’arte significa porsi la domanda sull’essenza dell’umano stesso. Essere uomini significa essere artisti. Ossia, significa estrarre dal fondo del proprio dolore un significato capace di strapparlo alla sua stolida immediatezza.
John Ford (David Lynch), mostrando i quadri che tappezzano la parete del suo studio, chiede all’aspirante regista di individuare l’orizzonte. Nel primo quadro, l’orizzonte si trova in basso; nel secondo, si trova in cima alla composizione. John Ford (David Lynch) afferma perentoriamente che nei grandi film l’orizzonte si trova o in basso o in alto. Quando si trova al centro, si tratta sicuramente di un film noioso e mediocre. Quest’indicazione non è preziosa solo sul piano formale, ma anche su quello strettamente contenutistico. Il cinema, in particolare il cinema di Spielberg, colloca l’umano nell’orizzonte del basso e in quello dell’alto. La macchina da presa che, riprendendo il giovane Sammy/Steven mentre fiducioso s’incammina verso l’alba della sua arte, si sposta per cambiare la linea dell’orizzonte secondo l’insegnamento dell’anziano regista, conferma la posizione del cinema di Spielberg: né oltre, né al di sotto dell’umano. Ma nel punto capace di unire ciò che lo avvince alla terra e ciò che lo consegna al cielo della sua destinazione etica”

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