Rubrica “La luce in sala”, Marco Palladino recensisce “Aftersun” di Charlotte Welles
Per il numero di dicembre della rubrica da me diretta “La luce in Sala”, Marco Palladino recensisce “Aftersun” di Charlotte Welles.
”Si tratta di un’opera prima che sembra già avere la maturità del testamento estetico e filosofico. Sì, perché la Welles, con questo film, ci ricorda la capacità ineguagliabile e ineguagliata del cinema di rapprendere, nel corpo, nello spazio vibrante dell’immagine, il dicibile e l’indicibile, la luce e (per citare il titolo di una famosa canzone di Nick Drake, “The things behind the sun”) ciò che si nasconde al di là di essa, oltre il visibile dell’evidenza estetica (forse il titolo, Aftersun, può essere letto anche in questa chiave qui).
L’invisibile in Aftersun è, in realtà, un abisso. L’abisso che dilania le coscienze di Sophie (Francesca Corio) e di Calum (Paul Mescal). Questo abisso, fin dalle prime battute, s’incarna in un fotogramma che inseguirà lo spettatore durante tutto l’arco narrativo della storia. È Sophie, adulta, che si ritrova nel fragore di una pista da ballo, mentre la luce accende e oscura il suo volto segnato dallo smarrimento. È una crepa nella luminosità quasi accecante dell’estate vissuta insieme al Padre Calum, il quale, separatosi dalla moglie, decide di portare con sé la piccola per un viaggio in Turchia. Un viaggio che viene rigorosamente filmato dai due protagonisti, perché il tempo trascorso insieme è un ritaglio d’eternità che deborda dal consueto scorrere dei giorni e va gelosamente custodito. La macchina da presa, lo sguardo della Welles, ci mostra dunque l’impossibilità costitutiva di uno sguardo puro, oggettivo, sulle cose. L’atto stesso del filmare, e dunque del guardare, è già di per sé distorsione e trasfigurazione; anche le immagini della vacanza sono filtrate dalla soggettività dei protagonisti, dalla curvatura inevitabile del ricordo, dalla piega irriducibile dei vissuti. Ogni sguardo disincarnato, astratto dalla concretezza della situazione, è un’illusione. Eppure la vita, con i suoi strappi, con le sue lacerazioni, si svolge oltre il filmato, oltre l’occhio che funge da testimone. Così accade che le zone d’ombre del vissuto dei protagonisti siano preannunciate dal progressivo diradarsi dell’immagine. In tal modo, per un istante, è come se la contraddizione vissuta da Calum, il conflitto tra la volontà di essere padre e amico di Sophie (i dialoghi fra i due rivelano un’intimità che trascende il rapporto genitore-figlio) e il peso lancinante della sua disperazione coesistessero nello stesso perimetro visivo. È come se allo spettatore venisse offerto l’interno e l’esterno del protagonista, il visibile e il suo invisibile, in una sofferta simultaneità. Calum, quando l’occhio vigile della telecamera non lo sorveglia, è ritratto di spalle, curvo sulle ginocchia, lontano dallo sguardo di Sophie e “lontano” dallo sguardo della regista e dello spettatore, i quali lo vedono, lo sentono, è vero, ma non possono superare quello scarto fatale che separa il loro vissuto da quello di Calum; quello scarto che è scavato dal fatto che si possono solo immaginare i suoi occhi inumiditi dalle lacrime, ma non possiamo incrociarli. Paradossalmente, quella prossimità visiva è il segno della più profonda distanza. L’immagine cinematografica, così, assolve la sua primigenia funzione, quella di rivelare e di nascondere al contempo la verità irriducibile del vissuto, dell’esser-sé – ognuno è solo, avvinghiato al palpito “incomunicativo” (un vissuto, notava Masullo, non è “incomunicabile”, ma “incomunicativo”: ossia, comunica, a sé e agli altri, l’impossibilità della sua trasparenza, della sua comunicabilità) della sua carne.
La scena del ballo, scandito dalle note di Under Pressure dei Queen, sembra quasi rimandare alla scena del ballo di Call me by your name di Guadagnino. Anche lì il ballo inquadrava il prorompere di un sentimento, della sua travolgente energia. Anche lì la musica aveva la funzione di fornire una cornice storica agli eventi. Ma qui accade qualcosa di diverso. Il reale viene incrinato dal riemergere del trauma. Calum si ritrova immerso nello stesso scenario del ricordo/sogno di Sophie adulta. I Due, immersi nella stessa luce intermittente, si guardano negli occhi. In quel momento, fuori dalla diacronia del tempo reale, i loro abissi si fondono in un unico abisso. Ma è solo un’istante, una ricomposizione ex-post di Sophie. La sovrapposizione delle immagini marca, ancora una volta, la sovrapposizione degli sguardi e l’impossibilità, forse, che riescano a penetrare davvero l’uno nell’altro. Il finale acuisce questa sensazione. La macchina da presa dapprima immortala il saluto di Sophie mentre all’aeroporto si congeda dal padre, il quale non manca di immortalare con la telecamera ogni istante del congedo. Poi, lentamente, scivola dal passato al presente. Ma lo fa senza operare “stacchi”, senza tagli nel tessuto del tempo. Come se il passato e il presente fossero elementi di un tempo unico, il tempo del trauma, dell’abisso interiore. Così vediamo Sophie, ormai adulta, che guarda nella telecamera il filmato di quella vacanza, di quell’ultimo ricordo che la lega al padre, comprendendo di aver visto l’invisibile attraverso i suoi occhi. Ma la macchina da presa procede oltre, nuovamente senza cesure: dal presente di nuovo al passato. Vediamo Calum che riprende Sophie all’aeroporto, mentre si appresta a congedarsi. A congedo avvenuto, chiude la telecamera e se ne va – è l’ultima volta che i due si vedranno. Ciò che è straordinario in questo ultimo frame è che Calum, in realtà, non riprende solo lo sguardo di Sophie bambina, ma lo sguardo di Sophie adulta. E questo sguardo non è solo il “suo” sguardo, ma anche il nostro. Il suo senso di “abbandono” ci appartiene, ci minaccia, ci interroga, ci scruta. È la potenza del cinema, la potenza di un occhio che guarda se stesso”
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