Rubrica “La luce in sala”/ Crimes of the Future (USA 2022) di David Cronenberg
Per il numero di dicembre della rubrica “Il buio in sala” diretta dal prof. Pasquale Vitale, Marco Palladino (esperto di filosofia e cinema) recensisce “Crimes of the future” di Cronenberg.
“Il film è il testamento filmico-filosofico del regista canadese. La summa artistica e concettuale, condensata in 105′, di un intero itinerario cinematografico. Fin dai primissimi fotogrammi che ritraggono il bambino accovacciato sulla sabbia, intento a mangiare un pezzo di plastica, mentre alle sue spalle si distende un paesaggio segnato da toni plumbei, glaciali, lo spettatore si ritrova immerso nella stessa atmosfera straniante, carica di angoscia, di Maps to the stars, il film che precede quest’ultima fatica cronenbergiana. L’assassinio del bambino, da parte della madre, poco dopo, conduce subito ad uno dei temi portanti dell’opera: il rifiuto del mutamento e, dunque, del dolore connesso ad ogni mutamento. Il mondo tratteggiato da Cronenberg sembra ricalcare, come ha fatto notare qualcuno, quello di eXistenZ, l’opera del 1999. Se in eXistenZ la tecnicizzazione integrale della vita mirava a smaterializzare nella fantasmagoria del virtuale l’immediatezza della corporeità, qui, in Crimes of the future, lo si apprende dalla bocca del burocrate che registra la comparsa di nuovi organi, il progresso tenco-scientifico ha estinto il dolore e, dunque, ogni residuo d’umanità. Chi, come l’algido ed enigmatico Saul Tencer (un Viggo Mortensen sugli scudi) vive nel e del dolore, è tributato come l’apostolo di un’umanità ormai perduta. Qui già si tocca la carne viva della filosofia cronenbergiana. Se Descartes, aprendo difatti il corso alla filosofia riflessiva che culminerà nell’hegelismo, aveva affidato al Cogito, all’esercizio del dubbio, la conferma della certezza assoluta dell’esistenza (<<Je pense donc Je suis>>), Cronenberg, riecheggiando Le Senne, ribatte: <<Je souffre donc Je suis>>. Soffro, dunque sono. È il dolore la prova tangibile dell’indubitabilità dell’esistenza. Posso dubitare di tutto, tranne del fatto che soffro, che sono una carne ansimante. L’immediatezza del sentire divora la mediazione del pensare.
Saul Tencer, insieme alla collega Caprice (una Léa Seydoux che conferma ancora una volta il suo enorme talento), sono riusciti insieme a trasformare il dolore in performance artistica. Saul Tencer, infatti, afflitto dalla continua escrescenza di nuovi organi, esibisce al pubblico la rimozione degli stessi. La pratica di rimozione degli organi e di ricucitura della ferita diviene unione sessuale. Ciò che eccita non è il vigore, la potenza, ma la vulnerabilità di un corpo che sanguina. La bellezza interiore è la deviazione dalla norma, il disordine che sconquassa i meccanismi dell’organismo. Qui, con una scena che supera per intensità e maestria cinematografica tutte le altre (i movimenti di macchina che rallentano per indugiare sul corpo di Saul che si lacera e al tempo stesso geme di piacere, coinvolgendo, per contagio emotivo, la stessa Caprice) s’innesta il discorso cronenbergiano sull’identità tra arte ed erotismo, tra chirurgia e sesso (“la chirurgia è il nuovo sesso”, dirà Timlin, interpretata da una bravissima Kristen Stewart). Vi sono, ovviamente, immediati riferimenti ai punti apicali della filmografia cronenbergiana: il già citato eXistenZ, Videodrome, Dead Ringers, soprattutto Crash. Ma non solo. Si possono scorgere, in controluce, anche le figure di registi estremi come Philippe Grandrieux e Antoine D’Agata. Per Cronenberg e i summenzionati, nel tempo della riproducibilità tecnica di ogni immagine, l’arte deve essere la figurazione dello spasmo della carne. L’artista è chiamato a filmare il momento in cui, drammaticamente, il dolore si fonde inestricabilmente al piacere. Se il cinema vuole essere ancora il luogo della finzione che svela, seppur per cenni, la verità, deve potersi insidiare negli interstizi della carne, lì dove risiede la sua strutturale e tragica antinomia.
Nella seconda parte l’intensità di stempera. Cronenberg si lascia andare a un certo didascalismo. Scopriamo che il bambino assassinato è il frutto di un esperimento capace di permettergli di ingerire qualsiasi cosa, anche la plastica. È il martire di una fetta della popolazione che, attraverso la chirurgia, punta a guidare il processo evolutivo. Il padre del bambino, guida di questo singolare transumanesimo, propone a Saul Tencer e Caprice di condurre l’autopsia/performance artistica del proprio figlio, affinché il mondo conosca ciò che egli chiama “il miracolo”.
Qui il discorso filosofico vira sulla liceità etica del mutamento della carne: fin dove può spingersi la tecnica Il finale sembra inequivocabile. Saul Tencer, dapprima restio, decide di immolarsi per la “causa”. La macchina da presa vira lentamente verso i corpi di Caprice e Saul Tencer, i colori si stingono, tutto si tinge di bianco e nero. La macchina da presa effettua un primo piano intensissimo del volto sofferente di Saul Tencer. Una lacrima gli riga il viso, mentre lo sguardo sempre mirare un Altrove insperato, l’orizzonte di un mondo in cui il dolore è il viatico alla trasformazione della carne.
Come mi ha fatto notare un’amica, la scena è chiaramente una citazione di Joan of Arc di Dreyer. Il volto di Viggo Mortensen sembra proprio quello di Renée Falconetti. Come Giovanna D’arco, Saul Tencer decide di diventare eresia, maledizione. Ma la sua fede è una fede diversa. La fede nella gloria e nella vita della nuova carne.
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