Il Racconto, Notturno vesuviano
Storie antiche, storie di Portici all’ombra del vulcano più famoso del mondo: il nostro autore ci delizia con un racconto vesuviano …
di Giovanni Renella
Com’erano cambiati quei luoghi da quando, tempo addietro, li aveva visti per la prima volta.
Le strade a quei tempi erano illuminate da fiaccole e torce con cui i servi precedevano i padroni illuminandone il cammino.
Aggirarsi al buio, per quelle campagne a ridosso del Vesuvio, avrebbe messo i brividi anche al più impavido degli uomini o alla più coraggiosa delle donne, ma di certo non a lei, che anzi preferiva uscire al calare delle tenebre.
Nel corso dei secoli aveva assistito alla trasformazione di quella zona da cui, in più di duecento anni, non si era mai allontanata.
Il suo destino, infatti, era legato a quello di una famiglia, i Russo, che viveva lì sin dal Settecento.
Coloni di un antico casato nobiliare, che aveva eletto a Portici la propria residenza estiva per seguire la famiglia reale quando soggiornava nella reggia cittadina, i Russo si erano stabiliti definitivamente nella ridente località vesuviana.
A quella stirpe di contadini il suo destino era legato da sette generazioni.
Erano trascorsi quasi duecentocinquanta anni da quando Viviana aveva cominciato a vegliare sulla famiglia Russo per proteggerla dalle avversità.
Tutto era cominciato la notte di San Giovanni del 1772.
Agli inizi di giugno, a Napoli, era nata la reale infanta Maria Teresa, figlia di Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina d’Asburgo.
Spinta dalla curiosità, Viviana era partita da Amorosi, un piccolo paese della provincia di Benevento, per poter vedere la primogenita del re.
Sapeva che non avrebbe incontrato la regina a passeggio per la città con in braccio la neonata, ma nulla avrebbe potuto impedirle di avvicinarsi alla culla della bambina: Viviana, infatti, era una janara, una strega del Sannio.
Giunta a Portici, dove la famiglia reale stava trascorrendo l’estate, stanca per il viaggio, Viviana pensò che fosse il caso di riposarsi prima di introdursi nel palazzo reale.
Mentre cercava un riparo dove trascorrere la notte, la sua attenzione fu attirata da un casolare illuminato dalla luce della Luna.
Furtiva si avvicinò all’abitazione e, da una finestra, sbirciò all’interno.
Non c’era nessuno o almeno così le sembrò.
Attraverso la serratura s’introdusse in casa ma, prima ancora che potesse assumere nuovamente una forma corporea, un grosso sacco di juta la coprì da capo a piedi: qualcuno l’aveva catturata!
Sgomenta la janara cercò di liberarsi, ma ogni tentativo fu inutile: il suo destino, a quel punto, era segnato.
Riacquistate le sembianze umane, la strega, ancora chiusa nel sacco, pregò che la liberassero, giurando che, se l’avessero fatto, non se ne sarebbero pentiti.
Alla sua preghiera fecero seguito lunghi attimi di silenzio; poi qualcuno sciolse le corde che chiudevano il sacco.
Tornata libera, Viviana vide di fronte a sé un uomo grande e grosso che imbracciava, minaccioso, un forcone.
Alla vista di quella giovane donna, Peppino Russo restò ammutolito, chiedendosi perché si fosse introdotta in casa sua e cosa potesse volere, ma soprattutto come avesse fatto ad entrare.
Compreso lo stupore dell’uomo e prima ancora che lui potesse formulare le sue domande, Viviana gli confessò che era una janara; ma di questo non si sarebbe dovuto preoccupare poiché, avendola catturata, lei era obbligata a proteggere e a garantire il benessere alla sua famiglia per sette generazioni.
Incredulo, e temendo di essere raggirato, Peppino continuava a tenere Viviana sotto la minaccia del forcone, tanto che la giovane dovette impiegare l’intera notte per convincerlo delle sue buone intenzioni e del fatto che, anche volendo, non avrebbe potuto sottrarsi all’impegno di vegliare sulla sua famiglia: se non l’avesse fatto, un’antica maledizione l’avrebbe uccisa.
Era l’alba quando Peppino Russo abbassò il forcone e lasciò che la donna uscisse dalla casa; ma da quella famiglia Viviana non si allontanò mai più.
Il contadino non raccontò a nessuno cosa fosse accaduto in casa sua la notte del 24 giugno del 1772, neanche alla moglie e ai figli, temendo che lo credessero pazzo.
Portò con sé il segreto e spesso pensò che fosse stato solo un sogno.
Diversi anni dopo, però, dovette ricredersi.
Era già vecchio quando la repressione della rivoluzione napoletana del 1799 insanguinò la città e la sua provincia.
Bande armate si aggiravano fra Napoli e i suoi dintorni e, approfittando dello scompiglio seguito ai capovolgimenti di fronte del governo cittadino, agivano pressoché indisturbate, facendo razzie un po’ ovunque, specie nei casolari di campagna.
La sorte volle che un manipolo di manigoldi prendesse di mira la casa della famiglia Russo.
I banditi si appostarono nelle vicinanze e, per un intero pomeriggio, spiarono i movimenti degli ignari contadini; la posizione isolata del casolare e la presenza di diverse donne, di cui avrebbero potuto abusare, furono determinanti per la scellerata scelta.
Non appena le luci si spensero, la banda di gaglioffi fece irruzione nella casa con le armi in pugno, immobilizzò gli uomini, che furono legati e chiusi in cantina, e passò ad occuparsi delle donne.
Denudate e gettate sui letti o per terra, le femmine della famiglia Russo stavano per essere stuprate da un branco di bestie con le sembianze umane quando, all’improvviso, un vento gelido attraversò l’interno della casa e la lama di un pugnale fluttuò nell’aria.
Prima di essere sgozzati, quei lestofanti non ebbero neanche il tempo di tirare su i pantaloni.
Le donne, ancora sconvolte per ciò che era accaduto, raccontarono poi a Peppino e agli altri uomini della famiglia di avere avuto l’impressione di aver visto una figura femminile che sorrideva, quasi volesse rassicurarle: di sicuro un angelo vendicatore accorso a salvarle!
Al vecchio contadino scesero le lacrime: Viviana era stata di parola.
Anni dopo Peppino morì di vecchiaia, portando il segreto con sè nella tomba, ma era sereno perché sapeva che la janara avrebbe vegliato sulla sua famiglia ancora a lungo.
In quei luoghi ameni, racchiusi fra il Vesuvio e l’incanto del golfo di Napoli, la vita dei discendenti di Peppino Russo continuò a scorrere tranquilla, grazie soprattutto alla protezione della strega, ormai assurta a lume tutelare dell’ignara famiglia.
Nei secoli a venire, Viviana dovette intervenire spesso in aiuto della progenie del buon Peppino; e il più delle volte si trattò di salvarli da morte sicura durante le tante guerre che insanguinarono l’Ottocento e il Novecento.
Quando sui campi di battaglia gli uomini della famiglia Russo erano in pericolo, ai nemici che li fronteggiavano succedevano le cose più strane.
Baionette che cascavano dalle canne dei fucili, pistole che s’inceppavano, colpi sparati a distanza ravvicinata che non raggiungevano il bersaglio; se poi la situazione diveniva ancor più critica, sui soldati della famiglia Russo calava una fitta nebbia e sparivano dal luogo in cui infuriava il combattimento, per ritrovarsi al sicuro dietro le proprie linee difensive.
Insomma, dalle guerre d’indipendenza e fino al secondo conflitto mondiale, Viviana dovette darsi molto da fare per rispettare l’impegno preso con Peppino Russo.
Le capitò anche, e non di rado, di dover ricorrere ai suoi sortilegi per risollevare le sorti economiche della famiglia, quando i raccolti erano scarsi e i soldi ancor di più.
In quei casi ai Russo toccavano in sorte eredità inaspettate di lontani parenti sconosciuti, o cospicue vincite al lotto grazie a biglietti che avrebbero giurato di non aver mai giocato, ma che si ritrovavano in tasca senza sapere come e perché.
Anche il Novecento finì e il giro di boa del nuovo millennio trovò la janara impegnata a vegliare sulla settima generazione della famiglia di Peppino: quella sarebbe stata l’ultima.
Erano trascorsi più di duecento anni dalla notte del 24 giugno del 1772 e, durante il corso di quei secoli passati a proteggere i discendenti del contadino che l’aveva catturata, Viviana si era affezionata ai Russo.
Aveva gioito ai loro matrimoni e alle nascite dei bimbi e aveva pianto quando il tempo aveva portato via i componenti, ormai vecchi, di quel nucleo familiare.
Ora che il suo impegno stava per volgere al termine, le dispiaceva doversi separare da quella famiglia e ancor di più da Peppino Russo, l’ultimo discendente, in ordine di tempo, che portava il nome dell’antico avo.
Peppino aveva quasi trent’anni, era bello, simpatico e dai modi così accattivanti che più di una donna aveva perso la testa per lui e alla stessa Viviana il giovane non era indifferente.
La strega, che nonostante il trascorrere dei secoli conservava le sembianze umane di una giovane donna, era attratta dal bel Peppino, al quale, senza rivelare la sua vera natura, si era anche manifestata nella sua essenza corporea; e poiché era una gran bella ragazza, il giovane Russo l’aveva notata.
Alla janara sarebbe bastato distillare un filtro magico per avere Peppino ai suoi piedi, ma la donna, che per la prima volta provava un turbamento che non sapeva descrivere, voleva l’attenzione spontanea di Peppino, senza ricorrere all’ausilio di sortilegi.
Certo, qualche fattura per tenere lontano le rivali più focose e spregiudicate dovette pur farla, ma fu solo nell’interesse del giovane, affinché non finisse nelle grinfie di una donna dai facili costumi; la qual cosa, secondo la strega, rientrava, sia pur con una leggera forzatura dell’etica, nell’ambito del suo obbligo di vegliare sulla famiglia Russo.
Per Viviana, che conosceva Peppino meglio di chiunque altro, avendo vigilato su di lui fin dalla nascita, fu semplice creare un’occasione per incontrarlo e attirare la sua attenzione.
I due cominciarono così a frequentarsi, assiduamente.
La bellezza di Napoli e dei suoi dintorni fece da sfondo alla storia che stava nascendo fra loro e che sembrava volgere verso un lieto epilogo.
Ammaliato dalla bella Viviana, il giovane Peppino finì per innamorarsene; e anche la janara capì cosa fosse quel rimescolamento interno che la agitava da quando aveva guardato Peppino con gli occhi di una donna e non di una strega: si chiamava amore e lo stava provando per la prima volta nella sua lunga esistenza.
Purtroppo l’eco della passione che era divampata fra Viviana e Peppino giunse sino al paese d’origine della giovane, in quel di Benevento, proprio quando, nel fitto di una boscaglia, era in corso un sabba delle streghe.
Nel bel mezzo di un rito orgiastico durante il quale le janare copulavano con gli stregoni, un uccello del malaugurio portò la notizia della strega che, all’ombra del Vesuvio, si era innamorata di un umano.
L’infausto convegno delle fattucchiere e dei malefici maghi s’interruppe di colpo e il silenzio assoluto calò tutt’intorno.
Al che la decana delle streghe prese la parola e sentenziò: se Viviana non avesse rinunciato subito a Peppino avrebbe perso ogni potere e sarebbe stata condannata a invecchiare e a morire come tutti gli umani; l’uccello del malaugurio avrebbe comunicato la decisione del sabba all’interessata quella sera stessa!
Quando la notizia la raggiunse a Portici, Viviana si sentì venir meno; poi montò la rabbia.
L’invidia di quelle vecchie baldracche, che non avevano mai conosciuto l’amore e che si accoppiavano solo con gli stregoni come animali in calore, era tale da causare una simile ripicca, solo perché lei amava un uomo e ne era ricambiata senza aver fatto ricorso a un filtro magico?
E poi, in quale codice stregonesco era prescritta una simile pena per chi si fosse innamorata di un umano?
Quelle arpie stavano commettendo un abuso; ma era anche vero che le decisioni del sabba, per un’antica consuetudine mai messa in discussione, erano inappellabili.
A Viviana non restava che scegliere: rinunciare a Peppino o al suo status di strega.
Mentre si arrovellava sul dilemma, si ritrovò a percorrere la strada che dalle pendici del Vesuvio porta giù sino al porto borbonico del Granatello e, riflettendo sulle trasformazioni di quei luoghi avvenute nel corso degli ultimi secoli, pensò a quanto anche lei fosse cambiata durante gli oltre duecento anni trascorsi a Portici a vegliare sulla famiglia Russo.
Da quando aveva sgozzato i banditi che volevano violentare le figlie e le nipoti del vecchio Peppino Russo, nel lontano 1799, Viviana non aveva più ucciso nessuno.
L’indole feroce della strega, abituata a risolvere le situazioni critiche ricorrendo alla violenza, aveva ceduto il passo alla ricerca di soluzioni altrettanto efficaci ma incruente, mutuando i comportamenti dei Russo che, di sicuro, non erano inclini all’aggressività o alla prepotenza.
Ma era pur sempre una janara e non poteva permettere a nessuno, e tanto meno ad un’altra strega invidiosa, di commettere un sopruso ai suoi danni e passarla liscia.
Giunta al porto emise il richiamo per l’uccello del malaugurio, che la raggiunse di lì a poco: aveva un messaggio da far recapitare alla decana delle streghe di Benevento.
L’uccellaccio malefico volò rapido nel Sannio e raggiunse la vecchia janara: Viviana l’attendeva al porto di Portici per comunicarle la sua decisione.
La notte successiva la perfida fattucchiera raggiunse il luogo dell’appuntamento, già pregustando l’amaro sapore del sopruso compiuto ai danni della janara innamorata, poiché l’ingiustizia era insita nella scelta: rinunciare per sempre all’amore o rinunciare a essere una strega!
Viviana l’attendeva in un capanno degli attrezzi dei pescatori e la vecchia strega, per non perdere le buone abitudini, pensò bene di entrarvi dal buco della serratura.
Non appena fu dentro, un attimo prima di riassumere la forma corporea, sulla megera calò una rete da pesca che la coprì da capo a piedi: era stata catturata!
Mentre si divincolava pronunciando le più blasfeme bestemmie mai udite a memoria d’uomo, Viviana la osservava divertita e compiaciuta, già assaporando il dolce epilogo della storia, con la vecchia janara che, per sette lunghe generazioni, avrebbe dovuto vegliare sulla famiglia di chi l’aveva catturata.
E la famiglia, in questo caso, sarebbe stata quella di Viviana.
Quella stessa mattina, infatti, Viviana e Peppino si erano sposati in gran segreto e, per poter invecchiare accanto all’uomo che amava, la giovane aveva rinunciato a essere una strega, senza però trascurare di garantire a sé stessa e alla sua discendenza protezione e benedizioni per diversi secoli a venire.
Nato a Napoli nel ‘63, agli inizi degli anni ’90 Giovanni Renella ha lavorato come giornalista per i servizi radiofonici esteri della RAI.
Ha pubblicato una prima raccolta di short stories, intitolata “Don Terzino e altri racconti” (Graus ed. 2017), con cui ha vinto il premio internazionale di letteratura “Enrico Bonino” (2017), ha ricevuto una menzione speciale al premio “Scriviamo insieme” (2017) ed è stato fra i finalisti del premio “Giovane Holden” (2017).
Nel 2017 ha vinto il premio “A… Bi… Ci… Zeta” per i racconti bonsai.
Nel 2018 è stato fra i finalisti della prima edizione del Premio Letterario Cavea.
Alcuni suoi racconti sono stati inseriti nelle antologie “Sette son le note” (Alcheringa ed. 2018) e “Ti racconto una favola” (Kimerik ed. 2018).
Nel 2019 ha pubblicato la raccolta di racconti “Punti di vista”, Giovane Holden Edizioni con cui ha vinto il Premio Speciale della Giuria al “Premio Letterario Internazionale Città di Latina”.
Nel 2020 alcuni suoi racconti sono stati inseriti nelle antologie “Cento parole” e “Ti racconto una favola” entrambe edite dalla Casa Editrice Kimerik.
Con un racconto, pubblicato dalla Giovane Holden nel volume n.7 “Bukowski. Inediti di ordinaria follia”, è risultato finalista al Premio Bukowski 2020.
Sempre nel 2020, altre sue storie sono state selezionate e inserite nell’antologia “Io resto a casa e scrivo” edita dalla Kimerik.
Nel 2021 due sue favole sono state pubblicate nell’antologia “Ti racconto una favola 2021” ed. Kimerik.
A luglio 2021 un suo racconto è stato pubblicato nell’antologia “Desiderio d’estate” ed. Ensemble.
Nel 2022 due suoi racconti sono stati pubblicati dalla Rudis Edizioni nelle raccolte “Storie d’estate” e “Pianeta Favole”
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