Giorgia Meloni e il suo nuovo governo: tutti i giornali ne parlano, nel bene e nel male
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«Altro che Roma,
marcio su Gazprom».
Giorgia Meloni, tutti i giornali
Sogni «È TUTTO VERO! Dopo 11 anni il Centrodestra torna a Palazzo Chigi» (Titolo di Libero, sabato). A soli 45 anni, partendo dai cortei post-missini di Azione Studentesca alla Garbatella, Giorgia Meloni è dunque arrivata a Palazzo Chigi. Diamogliene atto: ha scritto una pagina di Storia (Giannini, Sta).
Compagine Ci delude e ci inquieta la qualità della compagine. Modesta: nomi forti, riconosciuti e riconoscibili, non se ne vedono. Un po’ domestica: con l’eccezione di Tajani, non un solo ministro che abbia uno standing internazionale. Molto familiare, quasi familista: il cognato all’Agricoltura, il fratello del medico di fiducia alla Pubblica Amministrazione. Avevamo preso in parola la premier, quando in queste settimane aveva promesso a più riprese “un esecutivo autorevole e competente”. Onestamente, Presidente Meloni, questo non lo è (Giannini, Sta).
Peggiori Un esecutivo che condensa tutto il peggio del centrodestra e non riesce a esprimere nulla di nuovo (Stefano Feltri, Domani).
Mediocri La premier è stata abile a destreggiarsi nella gabbia di matti della coalizione, a dimostrare di non essere ricattabile da B. (né Giustizia né Mise), a non subire diktat neppure da Salvini (sennò lui sarebbe all’Interno e Giorgetti non sarebbe al Mef). Ma nulla ha potuto contro il suo vero tallone d’Achille, la mancanza di una classe dirigente all’altezza delle attese dei tanti elettori che l’hanno votata sperando in ben altro (Travaglio, Fatto).
Limiti La Meloni sembra aver scontato due limiti, nel comporre la squadra. Il primo: a destra i politici di «rango ministeriale» non abbondano. Il bacino da cui attingere ministri politici, insomma, era un po’ a corto di acqua. Il secondo limite di Meloni è figlio della sua riluttanza ad allargare lo sguardo al di fuori degli ambienti che ha frequentato, nei quali è cresciuta e di cui si fida – riluttanza che già si è manifestata con le liste elettorali, e che la composizione del governo rende ancora più evidente (Orsina, Sta).
Gruppi Il governo può essere diviso in tre gruppi:
• uno “istituzionale”, composto da Tajani (Esteri), Piantedosi (Interni), Crosetto (Difesa), Nordio (Giustizia), Giorgetti (Economia), Salvini (Infrastrutture) e Fitto (Relazioni europee), un po’ tecnici un po’ politici, che dovranno pensare al rapporto con l’Europa, all’autunno caldo, alla riforma della riforma Cartabia, ai nuovi invii di aiuti in armi all’Ucraina, alla nuova legge di stabilità, all’attuazione del Pnrr;
• uno più ristretto, dedicato alle emergenze nazionali: Calderone (Lavoro), Urso (Sviluppo economico) e Schillaci), che dovranno fare i conti con le crisi aziendali, la riforma del reddito di cittadinanza, la riforma delle pensioni (per evitare che dal primo gennaio ‘23 tornino in vigore la legge Fornero e l’età pensionabile a 67 anni), l’eventuale recrudescenza del Covid;
• il “nucleo ideologico”, composto dalle ministre Roccella (Famiglia e natalità), Locatelli (Disabilità) e dal ministro della Cultura Sangiuliano, e che ha un ufficiale di complemento nel sottosegretario alla Presidenza Mantovano. A loro è affidata la battaglia culturale su temi delicati come l’aborto, ma anche su idee nazionaliste, sovraniste, valoriali (nel senso indicato per anni dal cardinale Ruini) (Sorgi, Sta).
Consiglieri L’ormai ex ministro Cingolani, che sulla materia assisterà Meloni come advisor (Verderami, CdS).
Sovranità Trovare qualcosa di nuovo e di buono in questa squadra, o squadretta, è arduo, se si eccettuano un paio di nomi decorosi, come Schillaci alla Salute. Abituati a giudicare dai fatti, speriamo di essere smentiti. Ma gli 11 ministri (su 24, più Meloni) reduci dai governi B. sono un pessimo segnale. Idem per Salvini, di cui s’ignorava la competenza in Infrastrutture. E per Giorgetti, che conquista l’Economia per mancanza di alternative, ma sarà difficile spacciare per nuovo, visto che sedeva nei governi B. 2 e 3, ma anche in quelli più duramente osteggiati da Meloni: Conte 1 e Draghi. I conflitti di interessi non sono più quelli macroscopici di B., ma sopravvivono in scala alla Difesa con Crosetto, capo della lobby delle armi e consulente di Leonardo, al Lavoro con Calderone e al Turismo con Santanchè. Il guardasigilli Nordio, pur non indicato da B., la pensa come lui, ed è un’aggravante. Un velo pietoso su Casellati alle Riforme (si spera che anche lì non cavi un ragno dal buco), Locatelli persecutrice di mendicanti alla Disabilità, il prescritto Fitto al Pnrr e la sanfedista Roccella alla “Famiglia, Natalità e Pari opportunità”: il ministero dei cavoli a merenda, così ribattezzato con un maquillage che cambia i nomi per non cambiare le facce. Dopo i Migliori, che lasciano l’eredità peggiore, arrivano i Mediocri, tutti allineati all’establishment, che ora si spera ci risparmi almeno il mantra sul populismo e il sovranismo, ufficialmente estinti. È il prezzo altissimo pagato da Meloni per farsi accettare dai poteri che comandano in Italia: quelli stranieri. Altrimenti mai avrebbe giurato, già alla vigilia, fedeltà cieca e assoluta a Usa, Nato e Ucraina, cioè all’ottuso bellicismo draghiano, in tandem col neoministro degli Esteri Tajani. Il famoso sovranismo a sovranità limitata (Travaglio, Fatto).
Schifati Per il bene del paese c’è da augurarsi che, memori dei disastri passati, questi sopravvissuti del berlusconismo ci stupiscano. Ma è assai più probabile che Salvini, nella sua nuova veste di ministro delle Infrastrutture, debba preoccuparsi di chiudere le frontiere per evitare le fughe di capitali, cervelli e braccia piuttosto che per arginare migranti che, pure loro, saranno ormai un po’ schifati dall’Italia che si prepara (Stefano Feltri, Domani).
Fuori dalla realtà Mi pare che il governo Meloni lo sia, che sia la conseguenza della rivolta, visibile su scala planetaria, di settori in genere non maggioritari ma assai consistenti dell’opinione pubblica contro l’accoppiata globalizzazione-individualismo e il suo impatto devastante su identità e legami sociali. Le prime a essere sfidate da questa rivolta e dalle sue conseguenze sono la cultura e la politica progressiste. Le quali per la verità, almeno finora, non si sono dimostrate granché all’altezza della sfida. Il progressismo ha reagito al montare dell’onda conservatrice facendo forza su una concezione – appunto – progressista della storia: la storia avrebbe una logica e una direzione e, una volta superate certe soglie, indietro non si può più tornare. Da qui l’accusa che vien mossa ai conservatori di essere disperatamente fuori sintonia col proprio tempo, reduci di un’epoca ormai remota e conclusa, «medievali» addirittura. L’errore è nel manico: la concezione progressista della storia non regge più, e la rivolta contro la coppia globalizzazione-individualismo nasce proprio dalla sua crisi. È perché non credono più che la storia abbia una logica e una direzione, insomma, perché sono spaesati e angosciati dal futuro, che gli elettori votano a destra. E con l’idea di progresso in pezzi, allora, tocca ai progressisti essere disperatamente fuori sintonia col proprio tempo (Orsina, Sta).
Fuori dalla realtà/2 La sinistra ha ragionato per anni sulle Pari opportunità, partendo dalle quote rosa e arrivando a impartire grottesche lezioni di grammatica. Tanti i temi toccati dal dibattito progressista: si dirà «presidente», «presidenta» o «presidentessa»? Per essere più inclusivi sarà meglio usare l’asterisco o la schwa Cosa si può fare al fine di abbattere il patriarcato e instaurare il matriarcato? Non si potrebbe dire «matria» invece di «patria»? Mentre la sinistra approfondiva questi aspetti, la destra si è presentata all’appuntamento con la storia (Gnocchi, Giornale).
Parole/1 Aggiungere allo Sviluppo Economico la dicitura “e del made in Italy”, a quello della Scuola “e del merito”, a quello dell’Agricoltura “e della Sovranità alimentare”, a quello dello Sport “e dei giovani”, a quello della Famiglia “e della natalità”. Già nella forma, prima ancora che nella sostanza, sembra di cogliere tarde reminiscenze del Ventennio: un po’ Starace e un po’ Ciano, un misto di nostalgia e autarchia, nazionalismo e provincialismo (Giannini, Sta).
Parole/2 Il nome del ministero della Agricoltura in “ministero della Sovranità alimentare”, che sembra il ministero della pasta e della pizza (Salvatore Merlo, Foglio).
Parole La parola chiave di Giorgia Meloni è nazione. «Questa nazione» ha ripetuto per due volte nel brevissimo discorso all’uscita del Quirinale. «Nazione» è il motto ricorrente dei ministri dopo il giuramento. Non è difficile prevedere che la stessa parola riecheggerà più volte nell’intervento al Senato e alla Camera della prima donna presidente del Consiglio. Le parole sono importanti. In particolare quelle con cui si indica l’Italia. La sinistra dice di solito «questo Paese»; e più è radicale, populista, indignata, più calca l’accento su «questo», come a dire che l’Italia è altro rispetto a loro, e gli italiani (come da titolo dell’ultimo libro di Francesco Cossiga) sono sempre gli altri […] In sintesi: la sinistra dice Paese, la destra dice nazione, un po’ tutti diciamo patria; Stato non lo dice nessuno. Fa venire in mente i bolli, le code, le tasse. Lo Stato è sempre altro rispetto a noi: il poliziotto è lo sbirro, il Palazzo di Giustizia il Palazzaccio. Forse la nuova destra di governo dovrà occuparsi anche di questo (Cazzullo, CdS).
Smorfie Quando davanti alle telecamere Giorgia Meloni ha detto che sul suo nome c’era stata una «indicazione unanime» degli alleati, Berlusconi ha stretto ancora di più le labbra per essere sicuro che non gli uscisse una parolaccia in russo. Poi ha cercato gli occhi di Salvini e ha inarcato le sopracciglia in una smorfia che non diceva nulla ma che voleva dir tutto, alla quale l’altro maschio alfa coupé ha risposto accennando un sorrisetto d’intesa. Dietro quegli sguardi complici e in fondo increduli c’era un mondo, anzi la fine di un mondo. C’erano due maschi dominanti che per tutto un complesso di cose si ritrovavano sull’attenti come valletti, ad ascoltare il Capo che parlava in mezzo a loro, e quel Capo — roba da matti! — era una donna. E non una donna piovuta all’improvviso da chissà dove, ma proprio colei che per anni avevano trattato con sufficienza, come una ruota destra di scorta. La smorfia dei due maschi spodestati sembrava voler dire: per l’Italia la prima donna a Palazzo Chigi sarà pure un salto evolutivo paragonabile al passaggio dal sistema tolemaico a quello copernicano, ma doveva succedere proprio adesso, e proprio addosso a noi? Avranno bisogno di tempo per smaltire la stizza e la sorpresa, ma alla lunga potrebbero trarne giovamento, come esseri umani e persino come politici. Se invece tengono il punto e continuano a strabuzzare gli occhi, un altro Matteo disposto a sostituirli senza tante smorfie si trova sempre (Gramellini, CdS).
Sfide Davanti a Giorgia Meloni vi sono ora tre sfide molto diverse ma altrettanto cruciali che si impongono: l’emergenza delle diseguaglianze; il pericolo delle autocrazie; l’unificazione della memoria nazionale sul fascismo (Molinari, Rep).
Lei Come Luigi Facta cento anni fa, il paese “nutre fiducia”, il Re repubblicano e i potentati si sottomettono senza strepito all’inevitabile. Il paese che tifa per Lei lo fa senza miti nazionalisti, a parte qualche enfasi raccogliticcia, richiamato a internazionalismo atlantismo europeismo dalla faccia tosta della nostra storia immortale di trasformismo ideologico. Il paese che avversa Lei si dice al massimo “preoccupato” (Letta al Quirinale), qualcuno prevede sei mesi prima della seconda crisi di governo (la prima c’è già stata, con verifica anche in assenza di governo), l’ultimo leader di sinistra conosciuto (Renzi) rivolge alla Ducia del fascismo liberale un caloroso “in bocca al lupo”. Mario Draghi aveva messo in agenda, la vera agenda, una “transizione serena”, e così è stato. Ci sono problemi seri? Sì, ma è tale il peso del realismo di circostanza che sembrano a questo punto perfino esagerati (Ferrara, Foglio).
Speriamo Queste emergenze, è chiaro che le dinamiche politiche diventano questioni secondarie. Il «metodo Meloni» applicato alle scelte di governo ha lasciato scorie tra alleati e in futuro si vedrà quali conseguenze produrranno. Ieri, al termine del giuramento, la premier ha realizzato di essere «entrata nella storia». Finito l’effetto ha sospirato: «Speriamo di farcela» (Verderami, CdS).
Bruxelles
di Lucia Annunziata
La Stampa
Quanto dura il governo appena varato? L’esecutivo è soggetto in queste ore a intenso scrutinio di quella che si può considerare la più grande azienda di Risk Assessment italiana, il Parlamento di Roma. Dove circola una girandola di analisi sulla durata del governo appena nato. La conclusione, in generale pende a favore del fatto che “non durerà molto”. Ma una analisi più circostanziata delle condizioni generali in cui si muove il governo, suggerisce condizioni molto più favorevoli alla coalizione di centrodestra. In particolare nel rapporto con l’Europa, indicato invece da uno stuolo di osservatori politici come il vero tallone d’Achille del governo. È forse utile dividere la questione in due parti: il programma nazionale e la collocazione internazionale. In entrambi i casi, la coalizione di Giorgia Meloni è attraversata da grandi fratture. Ma con diversa valenza politica, e gestibilità.
La composizione del Consiglio dei ministri è un’utile guida per rintracciare queste fratture. Vi si possono leggere, attraverso i nomi, tutti i potenziali conflitti.
1) Su Nord/Sud: la delega spacchettata sui porti; 2) sui Valori: il ruolo della famiglia in un esecutivo che ha famiglie non tradizionali, quella senza matrimonio della presidente del Consiglio, e quella allargata di Matteo Salvini – esperienze felici come ci hanno raccontato ieri le immagini di queste famiglie colte durante il giuramento – è difficilmente ingabbiabile dentro il rigido approccio del presidente della Camera Fontana; 3) il ruolo dello Stato nella spesa pubblica: Giorgetti l’ultimo dei draghiani pragmatici all’Economia si troverà davanti a una vigorosa spinta allo scostamento di bilancio. Ci sono poi i segni di un ritorno ai conflitti di interesse veri e propri.
1) Alla Giustizia, il ministro Nordio, con una scelta non del tutto ortodossa, si è recato a far visita a Silvio Berlusconi prima che fosse varata la lista dei ministri; 2) il settore Turismo sarà diretto da Daniela Santanchè che è proprietaria di un grande stabilimento balneare,il Twiga di Forte dei Marmi, parte di un settore che, come è noto, ha costituito la punta dell’attacco ai provvedimenti Draghi sul rinnovo delle concessioni; 3) alla Difesa arriva il ministro Crosetto, un uomo molto intelligente, che ha già dichiarato che abbandonerà i suoi “affari”, ma la distanza tra la sua funzione pubblica e il suo sia pure ex mondo del lavoro rimane esile.
Sono tante fratture, certo. Ma forse tutte sanabili con una gestione attenta e trasparente. Vedremo il corso che il governo prenderà. L’unico vero punto debole, il luogo dove esiste fra le varie formazioni del centrodestra un baratro, è invece senza dubbio la sua collocazione europea, e internazionale. Distanze evidenti, trasformatesi in aperti scontri nel periodo delle consultazioni. Le cito velocemente perché tanto le si conoscono bene: i vari audio di Silvio Berlusconi su Putin, le critiche all’Europa che i social fanno riemergere, e torniamo qui alle foto con magliette contro le sanzioni alla Russia di Salvini e Fontana; ma anche le posizioni sull’Europa di una giovane militante di nome Giorgia Meloni non ancora sulla strada di Palazzo Chigi, e la passione per le piazze spagnole, recentissima e vibrante, di una Giorgia Meloni già avviata sulla strada di Chigi. E se sull’Atlantismo la coalizione si divide ancora fra putiniani (Silvio e Salvini) e non (Giorgia), sulle armi, dove ci sarà il ministro Crosetto di cui parlavamo prima, le complicazioni si moltiplicano di nuovo – a proposito la decisione sul prossimo invio di armi da parte dell’Italia all’Ucraina, è fra i primi provvedimenti che saranno presi dall’esecutivo.
Un quadro complicato di fronte a cui è facile dire che sotto lo stress della “guardia” europea, il governo non può che rompersi. Del resto per tutti gli altri esecutivi del passato decennio questa “guardia” ha funzionato: in maniera positiva o negativa, che si voglia valutare, il peso europeo ha avuto un grande ruolo nel sostenere governi tecnici (Monti e Draghi) ma anche politici, Letta, Gentiloni, un po’ meno Renzi. Altrettanto sicuramente l’Europa ha saputo farsi valere su governi che non amavano l’Europa politica. Ricordo qui il caso più clamoroso, cioè come il governo Conte1 dovette modificare la sua prima finanziaria, presentata come “manovra del cambiamento” dagli allora due vicempremier Salvini e Di Maio, scritta con la previsione di uno sfondamento del 2,4, contro il limite europeo dell’1,6. Finita poi, con un giro di valzer a 2.04. Un vecchio episodio ma sempre gustoso per capire i rapporti di forza fra Italia ed Ue. Ricordo qui, ancora, che Salvini perse quel governo per essersi rifiutato di presentarsi in Parlamento a spiegare le sue relazioni con la Russia, dopo la vicenda Metropol.
Tutto questo, sulla carta, sembrerebbe dare ragione a chi pensa che il nuovo governo inevitabilmente va verso un percorso molto accidentato e con esito non sicuro. E tuttavia, la lettura che si fa oggi delle relazioni europee e internazionali, non prende in considerazione un altro grande cambiamento. La crisi del Covid prima e della guerra poi hanno portato a galla divisioni che in tempi più sereni parevano ed erano controllabili: l’Europa oggi è in una fase delicatissima, molto meno forte del 2019, e non ha la forza e nemmeno la voglia, probabilmente, di esercitare un ruolo di guardiano dell’ortodossia.
Non c’è nemmeno bisogno di togliersi i paraocchi. I segnali delle difficoltà sono chiari. Il più grave è una spaccatura netta nell’asse Francia-Germania, in cui l’Italia spesso svolge il ruolo di stabilizzatore di supporto. La Germania sembra regredita nel bozzolo dei suoi interessi, quelli dell’energia, e quelli militari. Il presidente francese Macron – il cui caso val la pena di esser fatto dal momento che domani sarà in visita in Italia, e sarà il protagonista del primo incontro istituzionale di alto livello della nuova presidente del Consiglio – è impegnato in un paio di sfide. In Parlamento, è scontro con le opposizioni sulla legge di bilancio, mentre i movimenti sociali, come quelli contro il caro vita, allargano lo spazio di Mélenchon. Né la Francia né la Germania sono a serio rischio, ma la reciproca sensibilità sembra essersi assottigliata. La decisione di Berlino di investire 100 miliardi di euro sulla difesa, in progetti con gli Usa, brucia uno dei capisaldi dell’accordo fra le due nazioni, che hanno sempre collaborato sulla produzione delle armi. Sull’Energia, anche la risposta è stata diversa fra le due capitali.
La visita di Macron in questo fine settimana è vista dagli esperti come una “verifica” del tipo di rapporto che offre l’Italia, dopo quello molto intenso con Draghi. Ed è vero che nel passato Meloni ha molto criticato il neocolonialismo francese, ma il presidente francese non sembra esattamente nella situazione mentale, visti i problemi europei, di soffermarsi su cose passate. Le divisioni interne del nostro continente sono state ben illustrate anche dal percorso difficile fatto dalla proposta del tetto al prezzo dell’energia, su cui si è molto battuta l’Italia contro molti paesi europei. È finita, è vero, con una sorta di accordo, ma più come warning ai mercati che come soluzione. Anche la crisi dell’Inghilterra, ormai fuori dall’Europa, può essere vista come una vicenda che pesa indirettamente sull’Italia. Le dimissioni della premier Truss sono state provocate dal “Mini-Budget” approvato dalla Truss – 45 miliardi di sterline di riduzione delle tasse, soprattutto per i più ricchi, con l’abbassamento dell’aliquota marginale dal 45 al 40% – caduto sotto i colpi dalla risposta negativa dei mercati non tanto per la riduzione delle tasse ai ricchi quanto per il fatto che fosse del tutto privo di coperture. Per un governo italiano che inizia oggi il suo lavoro e già discute di debito e coperture, è un vero e proprio avvertimento.
Infine, ci sono gli Usa, alla vigilia di un nuovo voto, quello di Midterm che quasi sicuramente cambierà gli equilibri del Congresso. Che impatto avrà questo cambiamento sulle già notevoli distanze fra Europa e Washington è tutto da ridefinire. Non è un quadro allarmista. L’Europa non è certo sull’orlo di una crisi generale, ma sicuramente è un intreccio di instabilità, di questione nuove entrate nel vecchio quadro strategico. Una situazione in cui l’ultima cosa che l’Ue vuole avere sono crisi di governo in paesi centrali per il suo equilibrio. Nessuno in questo momento in Ue potrebbe del resto intervenire in una crisi di un paese fondatore. L’esecutivo Meloni, se agisce con accortezza, può mettere le vele al vento di queste debolezze.
FONTE:
(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)
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