1957, in Santa Maria la Fossa, Dino Quamini, fu accusato di duplice tanto omicidio per aver cercato uccidere il padre Michele e il fratello Ottorino perché voleva in donazione 50 mila lire e altro terreno in occasione della sue nozze- Fu condannato a 10 anni di reclusione – di Ferdinando Terlizzi
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1957, in Santa Maria la Fossa, Dino Quamini, fu accusato di duplice tanto omicidio per aver cercato uccidere il padre Michele e il fratello Ottorino perché voleva in donazione 50 mila lire e altro terreno in occasione della sue nozze- Fu condannato a 10 anni di reclusione – di Ferdinando Terlizzi
Il 1 marzo del 1957, Michele e Ottorino Quamini denunciavano ai carabinieri di Santa Maria la Fossa Dino Quamini, figlio del primo e fratello del secondo, per il reato di minaccia grave, assumendo il Michele che il figlio, verso le 14 del 28 febbraio in via Camino, gli aveva rivolto la frase: “Se non la smettete, certamente vi ammazzerò”. Ottorino, a sua volta, assumeva che il fratello, verso le ore 18:00 del giorno 1 marzo del 1957, con la pistola in pugno, l’aveva minacciato di morte, rivolgendogli le parole: “Se entro domani non mi date dell’altro terreno, uno di voi devo ammazzare”. Michele Quamini faceva presente che il figlio pretendeva altro terreno in aggiunta a sei moggia cioè concessigli piccola e, pertanto, tra loro non intercorrevano buoni rapporti. Il giorno 2 marzo si presentavano spontaneamente dai suddetti carabinieri le sorelle Assunta ed Ernesta Spagnuolo le quali dichiaravano che nel giorno precedente Dino Quimini mostrò loro una pistola e disse contemporaneamente: “Se mi padre e mio fratello Ottorino non mi danno lire 50mila e 2 moggia di terreno e la quota delle bestie entro domani li ammazzerò con questa pistola”. Dino Quamini, interrogare dai carabinieri, si professava innocente, pur ammettendo di avere incontrato il padre ed i fratelli. Egli affermava di non avere neppure rivolto la parola al padre e di essere stato percosso dai fratelli Oreste ed Ottorino i quali lo avrebbero invitato a lasciare la terra. I carabinieri di Santa Maria la Fossa denunciavano il 6 marzo del 57 Dino Quamini per il delitto di minaccia, facendo presente che era risultata negativa la perquisizione eseguita allo scopo di rinvenire la pistola citata da Ottorino e dalle sorelle Spagnuolo. Con successivo rapporto i carabinieri riferivano all’A.G. che nella mattinata del 10 marzo Michele e Ottorino Quamini, mentre transitavano, in motocicletta, il località “Stradella” del Comune di Santa Maria la Fossa, erano stati fatti segno a vari colpi di pistola esplosa da Dino Quamini. Ottorino Quamini, che stava alla guida del veicolo era stato attinto alla regione scapolare-omerale destra da uno dei proiettili e, pertanto, era stato ricoverato presso l’ospedale civile di Caserta. Michele Quamini, interrogato in merito al fatto, aveva dichiarato che egli ed il figlio Ottorino percorrevano in motocicletta la via cammino diretti a Santa Maria Capua Vetere. Nei pressi dell’azienda “Cirio”. zuccherificio di Capua, il figlio Dino era sbucato da sotto al ponte ivi esistente ed, appena essi erano giunti alla sua altezza, aveva cominciato a far fuoco con una pistola nella loro direzione ed aveva continuato a sparare anche dopo che era stato sorpassato. Complessivamente erano stati esplosi 6/7 colpi ed uno di essi aveva attinto Ottorino alla spalla destra. Essi Michele e Ottorino che si trovavano l’uno sul sedile posteriore del mezzo e l’altro alla guida, dopo una ventina di metri erano caduti a terra, mentre il Dino, prelevata una bicicletta da sotto il ponte, si era allontanato verso Casal di Principe. I carabinieri col suddetto rapporto facevano presente che il Quamini si era reso irreperibile e che, tra lo stesso i familiari da tempo non intercorrevano buoni rapporti, in quanto egli pretendeva dal padre altra estensione di terreno oltre quella in precedenza concessa di 2 ettari. Ottorino e Michele rendevano al drappello della pubblica sicurezza dell’ospedale civile di Aversa dichiarazioni nelle quali riferivano il fatto verificatosi la mattina del 10 marzo di 57 negli stessi termini in cui venne narrato ai carabinieri di Santa Maria la Fossa dal Michele Quanimi.
L’istruttoria – Le indagini – il mandato di cattura la costituzione del fratello contro il fratello – Le versioni contrastanti – La legittima difesa precisando che il fratello, istigato dal padre, gli aveva esploso contro ben tre colpi di pistola.
Veniva iniziato il procedimento penale con il rito formale nei confronti di Dino Quamini per i reati di tentato omicidio, lesioni, violenza privata e minacce con arma e fu emesso nella circostanza un mandato di cattura contro lo stesso. In giudizio il fratello si costituì parte civile. L’imputato arrestato il 6 ottobre del 57 sosteneva nel suo interrogatorio di essere stato costretto ad agire in stato di legittima difesa precisando che il fratello, istigato dal padre gli aveva esploso contro ben tre colpi di pistola. Solo allora, e dopo il terzo colpo, egli si era deciso a rispondere al fuoco, esplodendo a sua volta un sul colpo di pistola e gettandosi contemporaneamente a terra lasciando credere di essere rimasto ferito. Infatti fu questa l’impressione che riportarono i suoi aggressori i quali si allontanarono in opposte direzioni. Prima, però, che andassero via, il fratello si lamentava di essere rimasto ferito e il padre gli disse di andare a denunciare il fatto ai carabinieri tacendo, naturalmente, sull’esplosione dei colpi da parte sua. Oreste Quimini e la moglie Assunta Spagnuolo affermavano concordemente che mentre si recavano all’ospedale ove era stato trasportato Ottorino, avevano notato in bicicletta Dino Quamini e, nel sorpassarlo l’Oreste gli aveva rivolto l’epiteto “vigliacco” e l’altro aveva estratto di tasca una pistola. Oreste aveva avuto paura, aveva accellerato la marcia ed avendo incontrato una pattuglia di polizia stradale, aveva riferito il fatto, ma il fratello si era sottratto all’inseguimento degli agenti dandosi alla fuga. La Spagnuolo a sua volta riferiva che nella sera del 1 marzo del 1957 il cognato Dino le mostrò una pistola a rotazione ed alcune cartucce e disse che “doveva ammazzare il marito, il suocero e la suocera”. Successivamente affrontò il fratello minacciandolo per cui essa era in continua preoccupazione. Ella precisava che il suocero, all’atto del matrimonio dei figli aveva diviso le 28 moggia di terreno che aveva in concessione, fra i cinque figli, in modo che ad ognuno di essi ne toccavano 6. Nella parte di terreno di pertinenza del marito costui costruì con i suoi risparmi dei pozzi artesiani per meglio coltivare la terra. Ciò non piacque a Dino che avrebbe preteso che il marito avessi fatto altrettanto sul suo terreno. Inoltre Dino reclamava altre moggia di terreno di qui il suo rancore ed il suo comportamento nei confronti di familiari. Ernesta Spagnuolo riferiva anche sulle pretese avanzate dal Dino nonché sul fatto che costui, nella sera del 1 marzo di 57, disse alla Assunta Spagnuolo che se il marito non gli avesse fatto dare altre moggia di terreno e noi gli avesse portato 50.000 lire, sarebbe stato ammazzato. Quando pronunciò tali parole egli, però, non mise fuori alcuna pistola. Dall’Ottorino apprese poi la stessa sera che il fratello lo aveva minacciato. Giuseppe Raimondo, indicato dall’imputato nel suo interrogatorio, dichiarava che in un giorno del mese di marzo, mentre percorreva via Camino con il proprio automezzo, superò Dino Quamini che era in bicicletta. Dopo aver percorso un 200 metri vide sulla strada Michele Quimini ed il figlio Ottorino e sentì che costoro pronunciavano le parole “quella carogna sta arrivando”. Dopo un minuto di marcia, fatti a velocità non troppo elevata date le condizioni della strada, sentì esplodere tre colpi, uno appresso all’altro e poi, dopo un intervallato, un altro l’altro. Luigi Di Puorto deponeva che il Dino Quamini si era lamentato con lui perché il padre lo maltrattava, lasciandolo anche senza mangiare. Egli una volta si recò dal Michele Quamini per fare cessare tale situazione ma fu cacciato fuori. L’Ottorino al quale si rivolse per fare tornare l’accordo in famiglia, gli risposi che portava addosso la pistola e, se avesse visto per la strada il fratello lo avrebbe ammazzato. Vincenzo Di Bello, a sua volta, dichiarava che Dino Quimini , dopo i fatti per cui il processo gli chiese di andare dal padre per mettere pace, ma “egli non volle spiegare il suo intervento perché con il Michele Quamini non si poteva discutere”. Il Dino in tale occasione gli disse che aveva sparato contro il padre per ragioni di interesse che in precedenza il padre lo aveva maltrattato.
Condannato ad anni 10 e mesi 6 di reclusione. In appello furono invocate varie circostanze (il pubblico ministero: “inasprimento della pena”; gli avvocati: “legittima difesa”) e la condanna venne ridotta ad anni 7.
Con sentenza del 30 settembre del 1958 il giudice istruttore dichiarava chiusa la formale istruttoria ordinando il rinvio a giudizio innanzi la Corte di assise. Negli atti preliminari si costituivano parte civile Michele e Ottorino Quamini. L’imputato, al quale fu contestata la recidiva generica per il delitto e quella specifica infraquinquennale per le contravvenzioni, nel rendere dichiarazioni uniforme a quelle dei precedenti interrogatori, precisò, circa le modalità del delitto che gli sparò contro il fratello che si trovava di fronte a 20 m. circa, quanto riguarda i precedenti rapporti con i familiari che costoro per allontanarlo dal fondo avuto dal padre gli facevano dispetti tanto che egli più volte ricorse ai carabinieri. Il padre ed il fratello più volte gli avevano chiesto la restituzione del terreno e, non avendolo ottenuto con le buone, trascesero alla violenza, percuotendolo e sparandogli contro. Terminata l’assunzione delle prove, la parte civile chiese la condanna dell’imputato e il risarcimento dei danni, mentre il pubblico ministero chiese la condanna per i reati di cui era stato accusato contestando anche la continuazione (per il tentato omicidio) e i difensori l’assoluzione per insufficienza di prove dal delitto di minaccia, per la degradazione della rubrica di tentato omicidio in quella di lesioni in concorso con il delitto di tentata estorsione, con le circostanze attenuanti generiche, con quelle della provocazione in subordine con l’esclusione della premeditazione. Che nei fatti accertati ricorrono gli estremi dei reati ascritti a Dino Quamini non può essere messo in dubbio. E’ appena il caso di rilevare in ordine ai reati contestati che la detenzione di pistola, non denunciata, il porto abusivo della stessa e la minaccia di morte in danno di più persone compiuti in esecuzione di un medesimo disegno criminoso è la prova provata della sua volontà di uccidere; per quanto concerne i delitti nessun dubbio, sussiste solo la volontà omicida, sia in base a quanto esplicitamente e per le varie proposte fatte molto tempo prima dall’imputato, sia in base, alla reiterazione, direzione dei colpi, alle modalità dell’aggressione. Gli atti compiuti devono ritenersi senz’altro idonei a produrre la morte, e, se tale evento non si verificò si deve attribuire a circostanze indipendenti alla volontà del colpevole. “Sussistono le aggravanti del rapporto di parentela e quello della premeditazione. Invero – stigmatizzarono infine i giudici della Corte di assise – quest’ultima consiste nel proponimento di delinquere accompagnato da una riflessione per la quale tale proponimento si protrae permanentemente. Essa richiede il concorso simultaneo di due elementi quello ideologico e quello cronologico. Il primo ricorre quando il proponimento criminoso sia costantemente perdurante il reo, l’altro quando l’attuazione del proposito segue dopo un apprezzabile intervallo di tempo. Nell’affermare la responsabilità dell’imputato in ordine al delitto di tentato omicidio continuato – così unificati i capi di imputazione relativi al duplice tentato omicidio con le attenuanti generiche. Arrestato e tratto al giudizio con sentenza della Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Eduardo Cilento; giudice a latere, Guido Tavassi; pubblico ministero, Nicola Damiani), venne condannato ad anni 10 e mesi 6 di reclusione. In appello furono invocate varie circostanze (il pubblico ministero: “inasprimento della pena”; gli avvocati: “legittima difesa”) e la condanna venne ridotta ad anni 7. Il Procuratore Generale Ignazio Gusto, nei suoi motivi di appello evidenziò il fatto che…”Non può essere assolutamente posta in dubbio la gravità dei delitti commessi da Dino Quamini la cui gravità, del resto è stata ampiamente riconosciuta dagli stessi giudici di primo grado, anche in relazione alla natura della causale, che assume rilievo di dolo per lo speciale ambiente nel quale maturò e la retriva mentalità del turpe protagonista, il quale non esitò ad impugnare un’arma particolarmente micidiale contro l’autore dei suoi giorni e contro il fratello Ottorino, sol perché non si riteneva soddisfatto di quanto aveva ricevuto, sulla proprietà paterna. Alla luce di tutti i precedenti delle gravissime modalità con le quali il bieco disegno fu posto in essere e della particolare intensità del dolo che presidiò l’azione violenta del Quamini, la pena che i giudici hanno ritenuto di comminare in concreto allo stesso – sia pure tenendo nel debito conto le concesse attenuanti generiche – doveva essere maggiormente proporzionata all’entità dei delitti contestati, che furono commessi dal Quimini con fredda determinazione e senza che la vittima avesse comunque fatto alcunché per darvi causa, come è stato ampiamente riconosciuto della sentenza impugnata. Si chiede, pertanto, alla Corte di assise di Appello in accoglimento del presente che elevi adeguatamente la pena inflitta al Quimini dai primi giudici, relativamente ai delitti allo stesso contestati nella misura che sarà richiesto dal sostituto di udienza”. La difesa, invece prospettò che: “… Doveva la Corte assolvere l’imputato del reato di minaccia quantomeno per insufficienza di prove. Invero a suo carico vi è solo la parola della parte lesa e non può costituire, secondo l’insegnamento costante del Supremo Collegio, valido e sufficiente elemento di accusa. In linea del tutto subordinato e per tale reato il minimo della pena. Per il reato di detenzione e porto abusivo di pistola si chiede il minimo della pena e la concessione delle attenuanti generiche. Per le gravi contraddizioni in cui sono cadute le parti lese, la cui parola, fra l’altro è priva di ogni controllo, doveva la Corte ricostruire i fatti seguendo la versione che ne ha dato l’imputato e di conseguenza assolverlo per aver agito “in stato di legittima difesa”. Inoltre la Corte doveva degradare la contestazione di tentato omicidio in quella di minacce e lesioni aggravate; di tentata estorsione aggravata ed escludere l’aggravante della premeditazione e considerare l’attenuante della provocazione del tutto subordinata sempre in ogni caso il minimo della pena. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Carlo Cipullo, Mario Zarrelli, Renato Sansone, e Antonio Simoncelli.
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(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)
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