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S.Maria a Vico. Anno 1957: Pellegrino Arvonio uccise la fidanzata Maria Diglio ma per i giudici fu omicidio accidentale

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I giudici ritennero accidentale l’omicidio perché il colpo partì mentre entrambi maneggiavano l’arma.

La vicenda fu così ricostruita: alle ore 21:30 del 3 maggio del 1958 il giovane Pellegrino Arvonio, accompagnato dal fratello Augusto, si presentava i carabinieri di Santa Maria a Vico e riferiva che poco prima, mentre si intratteneva con la sua fidanzata Maria Diglio nell’abitazione della stessa, si era accinto ad esaminare la propria rivoltella tipo “Smith” a cinque colpi ma la ragazza, nonostante egli si opponesse, aveva tentato di prendere delle sue mani l’arma per esaminarla a sua volta ed all’improvviso era partito un colpo che aveva raggiunto la predetta al petto. Precisava l’Arvonio che al momento dello sparo lui e la Diglio erano seduti l’uno di fronte all’altra e che subito dopo il fatto  egli aveva gettato l’arma nel giardino antistante l’abitazione,  aveva adagiato la ragazza sul letto ed aveva chiamato aiuto facendo accorrere così delle persone del vicinato. Successivamente si era portato prima a casa sua – ove aveva raccontato l’accaduto ai familiari – e poi in caserma.

I carabinieri si recarono immediatamente nell’abitazione della Diglio  e constatarono che la fanciulla giaceva cadavere sul letto, regolarmente vestita, presentava un’unica ferita da arma da fuoco “al secondo spazio intercostale sinistro sulla linea parasternale”.

Nel giardino sito davanti alla casa, la quale era composta di un unico vano a pianterreno, fu rinvenuta l’arma omicida, una rivoltella calibro sette 65 del tipo Smith, a tamburo,  a cinque colpi la quale conteneva nel tamburo una pallottola ed un bossolo. Sottoposto ad interrogatorio, l’Arvonio raccontò che si era fidanzato ufficialmente con la Diglio nel settembre del 1957 e dopo 2/3 mesi aveva incominciato ad avere con essa rapporti intimi superficiali. La sera poi del sabato santo del 58 la ragazza era stata da lui deflorata  e da quell’epoca si erano congiunti carnalmente un paio di volte alla settimana. I congressi carnale avvenivano lungo il viottolo che dalla frazione “Figliarini” conduce alla strada ferrata. Dichiarò ancora l’Arvonio che i rapporti tra lui e la fanciulla erano in sostanza buoni benché egli fosse molto geloso tanto è vero che era giunto a dirle “che l’avrebbe uccisa se fosse stato da lei abbandonato” ed a mostrarle perfino – in tale circostanza evidentemente in segno di minaccia –  “la propria rivoltella”, arma questa che trovavasi in suo possesso fin dal 57 e che egli portava sempre con sé. Qualche volta, però, vi erano stati degli screzi.  Invero qualche mese prima egli, credendo che la Maria avesse pronunciato un’imprecazione verso i suoi morti si era  risentito ed aveva dato la rivoltella scarica ad un bambino,  figlio della sorella di Maria, Assunta “dicendogli di sparare contro la zia”.

Redarguito poi dal padre del bambino, Antonio Perrotta, aveva ripresa la rivoltella ed aveva anche accompagnato la fidanzata in chiesa ad assistere alle funzioni serali. Senonché il giorno successivo, incontrata in strada Assunta Diglio le aveva mostrato dei proiettili,  che aveva allora acquistati, dicendole: “Tieni portali  a tua sorella e dille  di mangiarseli, così sta bene”.

Ed inoltre il 2 maggio, cioè il giorno prima dell’omicidio, egli non aveva trovata la fidanzata in casa ed avendo saputo dalla di lei madre, Francesca De Lucia che essa era andata in casa del fratello Angelo Diglio, si era risentito, non gradendo che la fanciulla andasse in giro. Ma poi, vista tornare la Diglio in compagnia del fratello, si era rasserenato. Continuò a narrare l’Arvonio che infine la sera del 3 maggio egli giunge in casa della Diglio verso le 19:30 o verso le 20. E poco dopo il suo arrivo Francesca De Lucia,  uscì per recarsi in chiesa cosicché lui e la fidanzata rimasero soli. Infatti nella casa abitavano solo la Diglio e la madre. La fanciulla lo invitò a partecipare alla sua cena (un piatto di patate e fagioli rinvenuti poi pressocché intatto), ma egli, avendo mangiato da poco declinò l’invito e disse di conservargli una porzione del cibo che avrebbe consumato più tardi prima di andare via.

Presa tale precauzione, per celia, puntò  l’arma contro la ragazza dicendo: “Ora ti sparo”. Tirò anche il grilletto provocando, come previsto,  lo scatto a vuoto.  A questo punto Maria lo esortò a desistere da quel gioco pericoloso. Ma egli continuò a tirare il grilletto  e,  poiché, purtroppo a seguito della rotazione del tamburo uno dei due colpi era ormai giunto in corrispondenza del percussore, partì il colpo che uccise la povera giovane. Dai familiari della vittima ( Francesca De Lucia, Angelo Diglio, Assunta Diglio, Antonio Perrotta) venne riferito che i due giovani si amavano ed andavano d’accordo. Che i due episodi di minacce narrati dall’Arvonio ( la consegna della rivoltella al bambino e la offerta dei proiettili alla Assunta Diglio) si erano verificati il 13 e il 14 aprile e che la frase detta alla Assunta Diglio suonava così: ”Portali a tua sorella e dille che si spara in bocca” . Che l’Arvonio era geloso fino al punto di vietare alla Diglio di recarsi ad attingere l’acqua alla fontana. Che il giovane era stato rimproverato da Angelo Diglio perché si recava in casa della sorella anche quando la madre era assente e da allora aveva proibito alla fidanzata perfino di recarsi dal fratello e che, infine, il giovane era solito andare armato della rivoltella.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In piedi l’avvocato Leucio Fusco

 

La morte della Diglio fu causata per errore e deve essere affermata la responsabilità dell’imputato non in ordine al delitto di omicidio volontario  ma come omicidio colposo –

Risultò altresì dalle dichiarazioni rese dalle vicine della Diglio, Giuseppina De Lucia, Antonietta Papa e Michelina Calcagno, che dopo l’omicidio erano accorse in casa dell’uccisa, dapprima la Giuseppina De Lucia, per avere udito delle grida di un uomo provenienti da detta abitazione, e poi, nell’ordine, Papa, chiamata da Giuseppina De Lucia e la Calcagno, avvertita a sua volta dalla Papa. Le predette precisarono che avevano trovato la Diglio distesa supina sul letto come se fosse svenuta ed accanto al letto l’Arvonio che piangendo gridava: “Maria perdonami per quello che ti ho fatto, andate a chiamare un medico”. 

Delle ulteriori indagini praticate dall’arma dei carabinieri al fine di stabilire il dolo da parte di Arvonio  Pellegrino nell’omicidio da lui commesso in persona della fidanzata Maria Diglio si è venuto a conoscenza che il detto Arvonio il giorno stesso dell’omicidio, verso le ore 12:00 circa, mentre faceva colazione dell’interno della cava di pietra sita in località “Appia Vecchia”, ove lavorava, si era espresso con la seguente frase: “Questa è l’ultima giornata di sole che prendo“, espressione questa alla quale gli altri operai non avevano dato alcuna importanza. Tale frase è stata rivolta direttamente ad Antonio Guadagno, da  Santa Maria Vico e sentita anche da Armando Campagnuolo. Il giorno stesso  Antonio Guadagno riferì poi al suo compagno di lavoro Sabatino De  Lucia, tagliatufo, la frase pronunciata da Pellegrino Arvonio .  Si iniziò pertanto procedimento penale, con il rito formale con mandato di cattura, a carico dell’Arvonio per il reato di omicidio volontario, detenzione e porta abusivo di rivoltella ed atti osceni continuati. L’indagine autopsica  accertò che la Diglio era deceduta per l’emorragia in seguito alla rottura del cuore causa del proiettile; che il colpo era penetrato nella regione anteriore dell’emitorace sinistro, a livello del secondo spaccio intercostale, ed aveva seguito un percorso dall’alto in basso è un poco da sinistra verso destra.

Che la Diglio era stata deflorata da vecchia data e non aveva avuto gravidanze. Innanzi all’istruttore l’imputato confermò l’interrogatorio reso ai carabinieri. Nel dibattimento  l’imputato, la madre ed i fratelli della vittima costituitisi parte civile, e gli altri testi confermavano le dichiarazioni rese in istruttoria.  Secondo i giudici  era però da ritenere  che l’Arvonio non abbia avuto intenzione di sparare e di uccidere la Diglio bensì abbia impugnato a rivoltella al solo scopo di minacciare la ragazza e premuto infine, anche a tal fine, il grilletto, nella persuasione che l’arma non fosse in condizione di sparo. Il racconto del prevenuto, come si è già visto – precisarono ancora una volta i giudici nella loro  motivazione – è certamente mendace riguardo alla ricostruzione dell’inizio dell’episodio ed anche nella rimanente parte non è immune da sospetti. Ma non può in verità escludersi del tutto che corrisponda alla realtà l’affermazione “che il grilletto venne reiteratamente azionato nella convinzione che i due soli  proiettili inseriti nel tamburo non fossero in corrispondenza del percussore e quindi non potesse avvenire lo sparo”. Di certo nella rivoltella al momento dello sparo vi erano solo due proiettili, proprio come dice l’imputato: l’arma fu repertata dai carabinieri nel corso del primo sopralluogo, fuori la casa della vittima,  ed in una non fu trovato che un solo proiettile ed un bossolo. La morte della Diglio fu cioè causata per errore – nell’uso dei mezzi di esecuzione di una minaccia – e conseguentemente deve essere affermata la responsabilità dell’imputato non in ordine al delitto di omicidio volontario contestatogli ma in ordine alla ipotesi delittuosa prevista dagli artt.  586 e 589 del codice penale. Ovvero omicidio colposo.

I processi:  la condanna ad anni 6 di reclusione (di cui 2 condonati) perché colpevole della morte come conseguenza non voluta. 

 

La Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere

 

 

 

(Prisco Palmiero, presidente; Guido Tavassi, giudice a latere; Nicola Damiani pubblico ministero), giudicò Arvonio Pellegrino accusato di aver causato la morte della propria fidanzata contro la quale esplodeva – a distanza ravvicina – un colpo di pistola che attingeva la Diglio in pieno petto. Inoltre all’imputato venne anche contestato il reato di atti osceni in luogo pubblico per essersi più volte congiunto carnalmente in luogo pubblico con la propria fidanzata e lo condannò ad anni 6 di reclusione (di cui 2 condonati) perché colpevole della morte della sua fidanzata Maria Diglio come conseguenza non voluta. Ma non era dello stesso parere la pubblica accusa la quale nel corso della requisitoria scritta   aveva evidenziato – tra l’altro – che “Si può dire quindi che è sufficientemente provato il rapporto di causalità materiale fra l’azione commessa dallo imputato e la morte della povera Diglio”.  Ecco perché si parlava prima di una causale istantanea, sorta in un soggetto violento ed intollerante. Causale istantanea che si collega all’ultima “infrazione” agli ordini commesse la sera prima dalla Diglio, la quale si era ricavata presso il fratello e non era stata trovata in casa dal fidanzato. È caratteristico che questi non parli in presenza dei congiunti della ragazza, né quella sera né in quella del fatto; ma appena  rimasto solo con lei non trovi di meglio da fare che por mano alla pistola. Ed avendone tirato il grilletto sapendo che era carica difficilmente appare credibile, lui così pronto alla minacce e all’invettiva,  quando sostiene di averlo fatto per scherzo. Ma ad escludere l’ipotesi di una responsabilità a titolo di colpa sta anche il comportamento dell’imputato subito dopo il fatto. L’Arvonio deve  rispondere quindi di omicidio volontario”. 

La sentenza emessa il 29 settembre del 1959 venne appellata dall’imputato e dal Procuratore Generale Armando De Nigris. In particolare la difesa sostenne che…”La Corte avrebbe dovuto ritenere Pellegrino Arbonio responsabile di omicidio colposo attesa la mancanza di una qualsiasi causale che avesse potuto comunque spingere esso Arvonio ad estrinsecare nei confronti della Diglio un qualsiasi atto, sia pure di minaccia. Da tutte le risultanze processuali si evince chiaramente l’assoluta mancanza di una qualsiasi causa di gelosia, di intolleranza di odio, onde la struttura e la sagoma del delitto non può essere che colposo e tale si appalesa con l’evidenza della ragione giuridica e comune. È stata una sventura: l’Arvonio è un innocente che si dibatte sotto una valanga di dolore estrinsecatasi sin dal primo momento dopo il verificarsi dell’evento involontario. A tanto si aggiunga la valutazione di tutta la condotta dell’imputato prima e dopo il fatto onde tutte le prove nella loro concatenazione e della loro unità additano il fatto chiaramente colposo. In linea subordina si fa presente che in considerazione dei  precedenti dell’imputato, della atipicità dell’evento in relazione all’azione messa in essere dall’Arvonio, della sua condotta processuale, con la concessione delle attenuanti generiche, la pena può –  in ogni caso e per qualunque definizione giuridica del fatto-  essere ridotta in più modeste proporzioni”.  Nonostante queste considerazioni in appello la pena venne confermata. Gli avvocati impegnati nei processi furono: Nicola Cariota Ferrara, Salvatore Nuzzo Leucio Fusco.

(di Ferdinando Terlizzi – Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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