Cancello Arnone. Anno 1958: cronaca di un delitto commesso per pascolo abusivo, ma non solo
Delitto commesso anche per il mancato rilascio di parte di in podere
dell’O.N.C. assegnato alla famiglia dell’assassino, quindi non solo per pascolo abusivo.
Il 17 luglio del 1958, alle ore 19:15, il ragazzo Armando Verazzo denunziava ai carabinieri di Cancello Arnone che poco prima in località “Bonito” suo fratello Giuseppe era stato ferito da due colpi di fucile esplosi di tale Carmine Fontanella.
Accorsi immediatamente sul luogo, i carabinieri rinvennero, in un campo di stoppia, due cartucce per fucile calibro 12 esplose e constatarono che in un fosso, profondo circa 1 metro e distante metri 12:30 dal punto dove si trovavano le cartucce, vi era una macchia di sangue.
Dalle prime indagini risultò che il Fontanella si era allontanato a bordo di una motovespa e che Giuseppe Verazzo era stato trasportato all’ospedale civile di Aversa ove versava in gravi condizioni per anemie seguito a lesioni plurime, da colpi di arma da fuoco.
Il ferito, dato il suo stato, non potè rendere alcuna dichiarazione e poche ore dopo il ricovero decedette.
Armando Verazzo narrò ai verbalizzanti che nel tardo pomeriggio aveva condotto il gregge della sua famiglia, composta da 120 pecore, a pascolare in un campo di stoppia del fondo di proprietà “Zalatelli”, ma dopo pochi minuti era stato mandato via dal Fontanelle e dalla di lui moglie Cristina Manfrellotti.
Successivamente era stato raggiunto dal fratello Giuseppe che, saputo dell’intervento del Fontanella della Manfrellotti, osservò che il campo di stoppie si apparteneva ai “Zalatelli” e non ai Fontanella e ricondusse, aiutato da lui, il gregge su quel fondo.
Intanto il Fontanella, dopo essersi portate nella propria abitazione, era ornato sul posto armato di fucile, su una motovespa e, lasciato il motociclo ai bordi del fondo, si era avviato direttamente verso di loro.
Quando fu a breve distanza, il predetto si tolse l’arma dalle spalla imbracciandola e disse a Giuseppe di non muoversi altrimenti avrebbe sparato.
Giuseppe rispose di avvicinarsi perché desiderava ragionare e chiarire la questione, ma dopo pochi istanti l’altro esplose due colpi di fucile facendolo stramazzare al suolo nel fosso ove era stato rinvenuta la macchia di sangue.
Compiuto il delitto, il Fontanella che era seguito da suo cognato Enrico Manfrellotti, ricaricò l’arma e si allontanò con la motovespa, mentre tale Luigi Puca, Armando Verazzo, Aniello Puca, Luisa Puca, Adolfo Griffo, ed altri accorsi nell’ordine presso il fosso, prestavano soccorso al ferito, curandone il trasporto all’ospedale.
Armando Verazzo aggiunse che non sapeva se il fratello fosse armato.
Dichiarò infine che tra il Fontanella e la sua famiglia, trasferitasi in località “Bonito” di Cancello e Arnone da Casal di Principe nel 1955, non correvano buoni rapporti perché il Fontanella deteneva una parte del Podere loro assegnato dalla ”Opera Nazionale Combattenti”, e si era rifiutato di restituirlo sicché era stato anche convenuto in giudizio.
Peraltro, alcuni giorni prima egli aveva portato il proprio gregge in detto terreno condotto dal Fontanella e di proprietà della sua famiglia, perché pascolasse tra le stoppie, ed era stato estromesso dalla Manfrellotti.
Dalle dichiarazioni rese dalla madre, dalla sorella di Giuseppe e Armando Russo, (Rosa Schiavone e Annunziata Verazzo), e da quelle di Anna Iavarone, Antonio Zalatelj, Adolfo Griffi, Nicola Goglia, Vittorio Orsi, e dei fratelli Luisa, Aniello e Luigi Puca, risultò che verso le ore 18:00 del giorno 17 il Fontanella assieme alla moglie si erano portati nella loro abitazione – ove erano convenuti il Goglie e l’Orsi che dovevano riscuotere il loro compenso per i lavori di trebbiatura eseguiti nei giorni precedenti; che il Fontanenella, ad un certo momento, era salito al primo piano e, dopo una decina di minuti, era ritornato giù, armato di fucile e di un nervo di bue, dicendo: “Queste pecore mi stanno scocciando, si deve finire una volta per sempre”… che la Cristina Manfrellotti allora esortò la vicina Anna Iavarone a togliere il fucile di mano al marito e costei provvedette a tanto, ma poi finì per accondiscendere alla richiesta del Fontanella di restituirgli l’arma; che indi Fontanella aveva messo in moto la Vespa facendosi spingere dalla moglie e si era diretto verso la strada provinciale in direzione del Fondo “Zalatelj”, nel quale facevano pascolare le pecore Armando e Giuseppe Verazzo; che poco dopo, altri vicini del Fontanella, Luisa, Luigi e Aniello Puca, – avvertiti dalla Manfrellotti della partenza del marito e pregati dalla stessa di accorrere per evitare il peggio – si erano portati, insieme al Goglia e all’Orsi, verso il fondo “Zalatelj”, tagliando per l’abitazione dei Verazzo; che ai Puca si erano aggiunti lungo il cammino, anche Annunziata Verazzo e la Schiavone; che i predetti e Antonio Zalatelj, il quale si trovava nel suo fondo (contiguo a quello del fratello Luigi ove pascolava il gregge) avevano, alcuni visto altri sentito, Fontanella sparare due colpi di fucile, e indi avevano raggiunto – unitamente ad Adolfo Griffo – la cui attenzione era stata richiamata dalla loro presenza – Giuseppe Verazzo che giaceva ferito nel fosso.
A detta della Schiavone e della Annunziata Verazzo, Giuseppe Verazzo, quando fu colpito era seduto sul ciglio del fosso.
Luigi e Aniello Puca riferirono invece di aver visto il Fontanella puntare un fucile verso il fosso, ma non di aver scorto in quel momento Giuseppe Verrazzo.
E il Goglia e l’Orsi a loro volta precisarono di aver visto, prima degli spari, il Fontanella con il fucile in posizione di sparo e le braccia alzate di Giuseppe Verazzo.
Luigi Puca aggiunse che quando sia avvicinò al fosso vide che il ferito impugnava nella mano destra una pistola e consegnare detta arma al fratello Armando dicendogli di uccidere il Fontanella; che l’Armando Verazzo, presa la pistola, si mise ad inseguire lo sparatore, ma esso Puca, dato l’allarme, lo raggiunge e lo disarmò; che il Fontanella, che si stava ormai allontanando, al suo grido si voltò, senonchè Aniello Puca gli si pose davanti, impedendogli così di continuare a far fuoco.
Tale assunto del Luigi Puca, il quale consegnò la pistola, a suo dire tolta ad Armando Verazzo, venne confermato, sia pure in parte, da Aniello Puca, dall’Orsi e dal Goglia.
Infatti, Aniello Puca disse che il Fontanella, mentre si allontanava, ad un certo momento si era voltato ed aveva puntato il fucile cosicchè egli gli aveva gridato di star fermo mentre suo fratello Luigi si lanciava addosso ad Armando Verazzo.
E l’Orsi e il Goglio riferivano di aver notato che il ferito aveva al fianco destro una fondina per pistola (fondina poi rinvenuta dai sanitari dell’Ospedale).
Cristina Manfrelotti confermò quanto riferito da Armando Verazzo circa i rapporti tra le due famiglie e circa il pascolo avvenuto alcuni giorni prima del fondo di proprietà Verazzo e condotto dal Fontanella, immediatamente prima dell’omicidio, nel campo di stoppie del fondo di Zalatelj, fondo che in parte era tenuto in fitto e coltivato a meloni dal marito.
Precisò la Manfrellotti che il ragazzo, a seguito delle sue proteste, aveva finito per allontanarsi dal campo di stoppie del fondo Zalatelj, ma poco dopo era ritornato con il gregge e con il fratello Giuseppe.
Ed allora suo marito, preso il fucile chi teneva nel pagliaio sito nel campo di meloni, si era avvicinato al gregge.
A questo punto ella, preoccupata per ciò che poteva accadere, era ritornata a casa.
La costituzione le sue ragioni della legittima difesa – Il movente non solo nel pascolo abusivo – Il mistero della pistola impugnata dalla vittima
Il Fontanella, costituitosi in data 21 luglio, ripetette quanto dichiarato dalla moglie e aggiunse che, dopo essersi armato del fucile, che teneva già, come di abitudine, carico, si diresse verso il gregge dei Verazzo per farlo allontanare, se non che giunto presso il fosso di scolo che delimita il fondo di Luigi Zaletelj con quello di Giacomo Martino, aveva visto comparire improvvisamente davanti a sé Giuseppe Verazzo, che era sbucato, armato di pistola, dal fosso del quale prima doveva stare appastato.
Egli, nel vedere Giuseppe Verazzo, che era a circa 3 metri da lui, aveva istintivamente puntato il fucile nella sua direzione e premuto il grilletto.
Quindi si era allontanato, ma mentre andava via aveva sentito Luigi Puca gridare: “Attenzione, attenzione”! e pertanto si era voltata ed aveva visto che il predetto Puca disarmava Armando Verazzo di una pistola.
Durante la fuga si era infine disfatto del fucile gettandolo in un canale nei pressi di Grazzanise.
Il Fontanella riconobbe nelle sue cartucce esplose trovate sul luogo dell’omicidio quelle da lui sparate.
Ed il suo fucile venne rinvenuto nella località da lui indicata e sequestrato.
A seguito di tali risultati – oggetto del rapporto dei carabinieri di Cancello Arnone del 30 luglio 1958 si iniziava procedimento penale, con rito formale, a carico del Fontanella per i reati di omicidio volontario, e dell’Armando Verazzo per i reati di minacce con pistola.
Le indagini medico-legali accertarono che Giuseppe Verazzo era stato attinto, da uno o due colpi di fucile, carichi a pallettoni, all’inguine sinistro, riportando la lesione dell’arteria femorale, ed era deceduto per anemia acuta a seguita della imponente emorragia causata da detta lesione.
Innanzi all’istruttore il Fontanella, nei confronti del quale veniva emesso mandato di cattura, confermava quanto già detto ai carabinieri. Il Verazzo interrogato, con mandato di comparizione invece modificava di poco la sua versione dei fatti.
Egli ammetteva infatti di essere stato disarmato da Luigi Puca della pistola dallo stesso consegnata ai carabinieri. A suo dire, detta arma non gli fu data dal fratello Giuseppe ma era da lui detenuta per averla ricevuta in donazione dal cugino Mario Verazzo.
I testi già sentiti dai carabinieri in buona sostanza ripetevano al giudice istruttore le dichiarazioni già rese. Venivano escussi anche altri testimoni: Luigi Zaletelj proprietario del fondo in cui si verificò l’omicidio, chiariva che Carmine Fontanella conduceva in fitto sei moggia del podere; per coltivarli a meloni, mentre egli coltivava le restanti sei a grano; che ogni anno, il sette agosto, alla scadenza annuale del contratto, si scambiavano le zone onde attuare la rotazione delle colture; cheil 7 agosto del 58 il Fontanella avrebbe dovuto consegnargli la zona già coltivata a meloni e prendere possesso di quella ove avvenne l’omicidio, già coltivata da esso Zalotelj a grano che su questa ultima zona, dopo la mietitura, sia il Fontanella che il Verrazzo ed altri vi avevano raccolto erba, il che egli non aveva autorizzato esplicitamente ma tollerava di buon grado perché aveva piacere che il terreno fosse liberato dalle erbacce dalle stoppie.
Il Processo – Negata la legittima difesa – La condanna – L’appello
Nel dibattimento il Fontanella ammetteva di avere preso, prima dell’omicidio, il fucile a casa sua.
Affermava di essersi recato a casa per pagare l’Orsi ed il Goglia e si era armato sia perchè aveva scorto da casa sua le pecore nel fondo, sia perché doveva fare la guardia ai meloni.
I testimoni non modificavano le proprie dichiarazioni, tranne la Manfrellotti che confermava che il marito si era armato in casa.
Pasquale Verazzo, Rosa Schiavone e Nicola Verazzo, rispettivamente i genitori e fratelli di Giuseppe Verazzo, si costituivano parte civile.
Veniva contestato all’imputato la recidiva generica infraquinquennale.
I giudici nello motivazioni della sentenza di condanna precisarono che …” Il Fontanella sostiene di aver esploso i due colpi di fucile che ferirono a morte Giuseppe Verazzo in una situazione di legittima difesa, per sfuggire cioè ad un’aggressione armata che il Verazzo aveva iniziato contro di lui. Spiega il prevenuto che quando Giuseppe Verazzo ed il fratello Armando ricondussero le loro pecore nel fondo di Luigi Zaletelj, e precisamente nel campo di stoppie che confina a sud con il terreno di Giovanni Martino – donde erano stati già allontanati poco prima da sua moglie Cristina Manfrelotti – egli accorse sul posto, portando seco il fucile, per scacciare gli animali, mentre ciò faceva si vide comparire improvvisamente davanti Giuseppe Verazzo, che era sbucato da un fosso estraendo contemporaneamente una pistola”.
Per le considerazioni svolte vanno respinte sia la tesi difensiva di legittima difesa, reale o putativa, sia quella subordinata dell’eccesso colposo in legittima difesa. Ma “l’animus necandi” trova ulteriore conferma anche nella circostanza che il prevenuto fece fuoco, come ammette e come hanno concordemente riferito i testi presenti al fatto, solo quando fu ad appena qualche metro di distanza dalla vittima.
I difensori del Fontanella chiesero con insistenza la concessione dell’attenuante della provocazione. Ma anche questa richiesta – rintuzzarono i giudici – deve essere respinta.
La Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere (Prisco Palmiero, presidente; Guido Tavassi, consigliere; Francesco Simeone, Filiberto De Angelis, Evelina Maliziano, Antonio Cicatelli, Francesco Tessitore e Antonio Garofano, giudici popolari; Nicola Damiani, pubblico ministero), con sentenza del 15 luglio del 1960, condannò il Fontanella per omicidio ad anni 22 e mesi 6 di reclusione.
La Corte di assise di Appello di Napoli, con sentenza del 16 marzo 1963, in parziale riforma della sentenza di primo grado ridusse la pena di un anno.
La Corte di Cassazione con sentenza del 16 ottobre del 1964, rigettò il ricorso.
Nei processi furo impegnati gli avvocati: Alfonso Martucci, Giuseppe Garofalo e Ciro Maffuccini.
(di Ferdinando Terlizzi – Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)