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Avrei preferito fare l’astrofisico Poi, leggendo un libro di John Eccles, il premio Nobel che studiò i neuroni, capii che l’universo è dentro il cervello» Camillo Ricordi

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Diabete di Stefano Lorenzetto Corriere della Sera

L’incipit è avvincente: «Sono Camillo Ricordi, non un omonimo né un pronipote, sono proprio io, l’evoluzione del mio predecessore biologico, la soluzione ai suoi limiti. Ho 155 anni e non mi sono mai sentito meglio, non invecchio più da tempo e sono in grado di evolvere come mai nella storia dell’umanità». In realtà il professor Ricordi, direttore del Diabetes research institute di Miami, il più importante centro medico per la cura del diabete, di anni ne ha 65. Però ha consegnato a Mondadori (uscirà il 14 giugno) Il Codice della longevità sana, che svela il metodo «per tornare biologicamente giovani», recita il sottotitolo, anzi per restare giovani (quasi) in eterno. Nel frattempo l’amico Marco Menichelli, studioso d’intelligenza artificiale e algoritmi, gli ha creato questo avatar immortale, capace di snocciolare, fra l’altro, le sue 1.170 pubblicazioni scientifiche. «Me ne ricordavo sì e no 35», confessa il medico, che ebbe per padrino di battesimo Leonard Bernstein, il compositore di West side story, e ha visto girare per casa da Maria Callas a Mick Jagger, da Luchino Visconti ad Harrison Ford. Il suo secondo padrino fu Earl McGrath, in seguito presidente della Rolling Stones records e spasimante di Madina Ricordi, la zia.«È inutile che si dia tanto da fare: il suo nome resterà per sempre legato alla musica, non al diabete», gli aveva preconizzato il chirurgo Raimund Margreiter di Innsbruck. Il collega austriaco si sbagliava. Appartenente alla settima generazione della dinastia Ricordi, nata nel 1808 con Giovanni, che aveva fondato a Milano la casa delle edizioni musicali e pubblicato le opere di Giuseppe Verdi, Gioacchino Rossini, Giacomo Puccini, Gaetano Donizetti e Vincenzo Bellini, il luminare nel 1985 si trasferì negli Usa. Cinque anni dopo eseguì il primo trapianto di isole pancreatiche, al Transplantation institute di Pittsburgh.

Ma non doveva realizzarlo in Italia?

«Nel 1989 tornai al San Raffaele di Milano per questo. L’obiezione fu disarmante: “Nessuno c’è riuscito, perché dovresti farcela tu?”. Pochi giorni dopo mi arruolò il professor Thomas Earl Starzl, il primo a trapiantare un fegato umano».

Come arrivò a ideare l’intervento?

«In quattro anni di ricerche alla Washington University di St. Louis, sviluppai il metodo per separare dal pancreas le isole di Langerhans, che contengono le cellule produttrici di insulina. Nel diabete di tipo 1 il sistema immunitario impedisce all’organo di produrre l’ormone che regola il passaggio degli zuccheri dal sangue ai tessuti. Purtroppo le iniezioni di insulina non sono una cura, ma un cerotto su una ferita che non si rimargina mai. Devo ringraziare un macello situato in un quartiere malfamato. Credo che ogni anno gli americani uccidano dai 60 agli 80 milioni di maiali, fondamentali per il loro malsano breakfast. I pancreas li scartano. La mattina alle 5 andavo là e me ne facevo regalare un bel po’».

Del porco non si butta via niente.

«L’esperimento finale fu su un pancreas umano che recuperai a fine giornata nel bidone dei rifiuti biologici, quando i miei colleghi se n’erano andati».

Quanti trapianti sono stati eseguiti?

«Con il mio metodo, circa 2 mila nel mondo. Funzionano nell’80 per cento dei casi a un anno, nel 50 a cinque anni».

Che c’entra tutto ciò con la longevità?

«Il diabete è sintomo di un accelerato invecchiamento. Sul nostro pianeta ne soffrono 500 milioni di persone. Le malattie autoimmuni colpiscono il 20 per cento della popolazione. I bambini che nascono oggi vivranno meno dei loro genitori. Negli Stati Uniti oltre 90 pazienti su 100 sopra i 65 anni sono affetti da almeno una patologia cronica degenerativa e 75 su 100 ne hanno due. I fattori di rischio sono gli stessi che concorrono alle complicanze da Covid-19. Ogni anno di longevità sana comporterebbe risparmi per oltre 38.000 miliardi di dollari».

Chi sono i nemici della longevità sana?

«Il più temibile è l’infiammazione cronica indotta dalla dieta sbagliata. Non provoca dolore, neppure te ne accorgi. Un killer silenzioso. Vi concorrono vari fattori: troppi omega 6 e pochi omega 3, gli acidi grassi polinsaturi cattivi e buoni; eccesso di zuccheri; cibi raffinati, altamente processati; uso di oli vegetali, meno costosi di quello di oliva. Inoltre sono diminuiti i fattori protettivi, come i polifenoli e gli attivatori delle sirtuine».

Che cosa sono le sirtuine?

«Proteine che calano a partire dai 35 anni di età e dopo i 60 sono prodotte in misura minima dal corpo, il che porta a varie inefficienze nell’organismo».

Allora mi considero spacciato.

«Ma no, si possono assumere per bocca sotto forma di un integratore alimentare a base di melograno, mirtillo e politadina. Siccome ho dato indicazioni su come produrlo, evito di citarlo».

Encomiabile.

«Prima delle conferenze, proietto sullo schermo i miei conflitti d’interesse, cioè i nomi di 14 fra enti e aziende che si sono avvalsi delle mie consulenze. Mi pare doveroso. In compenso non mi sono mai fatto pagare un dollaro o un euro dai pazienti. Però confesso che Giuseppe Cipriani, figlio di Arrigo, il patron dell’Harry’s bar, mi fa il 20 per cento di sconto nel suo ristorante di Miami».

Se l’infiammazione cronica è silente, come posso accorgermi di averla?

«Con il test Aa Epa, poco noto in Italia, che valuta il rapporto tra omega 6 e omega 3. A Milano lo esegue la professoressa Angela Maria Rizzo, docente di farmacologia alla Statale. È un kit recapitato a casa: si prelevano tre gocce di sangue con il pungidito, si imbeve una cartina, la si spedisce per posta. In una settimana si ottiene l’esito».

È così importante arrivare a 100 anni da malati cronici, invalidi e magari soli?

«L’obiettivo è di far giungere tutti sani all’ultimo giorno di vita. La nuova frontiera sono le cellule mesenchimali staminali. Con quelle ricavate dal cordone ombelicale di un bimbo nato sano, ho salvato il 100 per cento dei malati di Covid-19 sotto gli 85 anni intubati in terapia intensiva».

Perché ha deciso di diventare medico?

«Militavo nel Movimento studentesco. Al liceo scientifico milanese di via Cagnola il primo giorno mi urlarono dalle finestre: “Scappa!”. Ero circondato da neofascisti con spranghe e catene. Non fui nemmeno ammesso alla maturità scientifica. Intervenne il consiglio d’istituto. Ne uscii con 60 e le congratulazioni del preside. Avrei preferito fare l’astrofisico. Poi, leggendo un libro di John Eccles, il premio Nobel che studiò i neuroni, capii che l’universo è dentro il cervello».

Divenne la pecora nera della famiglia.

«Mio padre Nanni non mi fece mai pesare di aver ripudiato la musica. Si limitava a cercare di farmela piacere. Mi regalò il sintetizzatore usato dagli Emerson, Lake & Palmer. A New York, dove sono nato, mi portava in sala d’incisione con Bernstein. Un giorno feci ascoltare a Lenny, lo chiamavo così, una mia composizione. Concluse: “Se nella vita vuoi fare qualcos’altro, non ti trattengo”».

Simpatico il padrino Bernstein.

«Una sera fu invitato a cena dalla mia nonna paterna, Maria Delle Piane Ricordi, che viveva circondata da Satana, un serpente boa, e altri animali esotici. Per l’occasione si stappò un Barolo degli inizi del Novecento. Lenny ne ingollò un calice con due enormi sorsi, come se fosse una pinta di birra. La nonna, inorridita, ordinò sottovoce al maggiordomo: “Porti al signore il vino da cucina”. Ero già ricercatore quando Bernstein m’invitò al Dakota di New York. Aprì la porta, cadde in ginocchio e si fece il segno di croce, lui, un ebreo: “Oh my God, Ricordi came here”, Ricordi è venuto qui. Con me c’era Valerie Grace, che sarebbe diventata la mia prima moglie e la madre dei nostri tre figli. Era stupefatta: “Ma tu chi sei?”».

Suo padre morì a 79 anni.

«Sì, nel 2012. Lottò per un decennio contro la paralisi sopranucleare progressiva, una malattia neurodegenerativa. Andando a ritroso nell’albero genealogico, ho scoperto che era stato il più longevo dei Ricordi. Mio nonno Camillo se ne andò a 46 anni. Suo fratello Tito III a 37. L’aspettativa media di vita della famiglia si aggirava intorno ai 63 anni. Invece mia mamma, Marialuisa Fachini, a 91 anni sta benone grazie alle sirtuine».

La vostra casa milanese, al 10 di corso Porta Nuova, pullulava di artisti.

«Da lì sono passati tutti: Luigi Tenco, Gino Paoli, Fabrizio De André, Giorgio Gaber, Sergio Endrigo, Enzo Jannacci, Ornella Vanoni, Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Gianna Nannini. Avevo 12 anni quando Lucio Battisti ci cantò in salotto il suo primo brano, “Un’avventura”. Papà fu costretto a battagliare per pubblicargli l’album. In Ricordi lo consideravano poco commerciabile. Con Giacomo Puccini era accaduta la stessa cosa. Giulio Ricordi dovette vendere la villa sul lago di Como per finanziare l’autore di “Tosca” e “Turandot”. Conservo le lettere inedite, eleganti ma porno, che il musicista spediva da Vienna al mio avo per descrivergli le conquiste femminili».

L’ottava generazione dei Ricordi s’interessa di musica?

«Carlo, 29 anni, il primogenito, esperto di marketing e comunicazione a Fort Lauderdale, suona il piano. Leonardo, 7 anni, figlio della secondogenita Eliana, promette bene: vuole dirigere un’orchestra. Di Lorenzo, l’ultimo nipote, posso dire poco: è nato lo scorso 20 maggio».

Pensa davvero di arrivare a 155 anni?

«Non è quello il mio traguardo. M’interessano le ricerche per una longevità sana. Lei crede che l’industria farmaceutica persegua questo obiettivo? Il presidente Joe Biden ha raccomandato che le cure per i diabetici non costino più di 35 dollari, ma io ho pazienti che sono dovuti tornare in Italia perché non potevano permettersi di spendere fino a 714 dollari al mese per le iniezioni di insulina».

Stefano Lorenzetto
Oggi

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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