Giustizia e referendum. ‘Luci della ribalta’: argute considerazioni dell’ex senatore di Vincenzo D’Anna
Si avvicina il referendum sulla giustizia. Il 12 giugno gli italiani dovranno scegliere se andare al mare o votare per riequilibrare il potere dei magistrati.
Un potere che ha travalicato le competenze e le responsabilità dei togati, soprattutto di quelli inquirenti (i pubblici ministeri) ed i procuratori della Repubblica.
Sono ormai più di centomila i cittadini sottoposti ad ingiusta carcerazione; poco più della metà quelli risarciti per il danno morale, fisico ed esistenziale subìto.
Ovviamente paga lo Stato con i soldi dei contribuenti. Gli stessi con i quali paga i pentiti. Sì, anche quelli che poco o niente hanno da dire ma sono funzionali ad imbastire teoremi da parte di certi pm rendendo dichiarazioni non verificate preventivamente. Insomma: una comodità costosissima che allevia il peso delle indagini sovvertendo l’onere della prova dall’accusatore all’accusato, costringendolo a “rincorrere” le dichiarazione rese da delinquenti abituali, omicidi plurimi e confessi.
L’importo di questi sperperi non viene rivelato dal ministero di Giustizia ma ammonta a diverse centinaia di milioni di euro.
Più o meno la stessa cifra che si spende per l’abnorme uso delle intercettazioni, altra comodità riservata agli inquirenti.
Tuttavia ai magistrati non bastano queste costosissime agevolazioni. Nossignore.
Occorre loro anche una legge: quella del concorso esterno in associazione malavitosa, un reato non previsto da codice penale ma costruito attraverso le sentenze emesse dai vari tribunali.
C’è da aggiungere, tra l’altro, che quel reato non è stato mai tipizzato, né sono stati chiariti gli ambiti ed i limiti di applicabilità. Onde per cui i pubblici ministeri se la cantano e se la suonano da soli cacciando in galera chi fa loro comodo.
Una discrezionalità assoluta che viene mascherata sotto il nome di obbligatorietà dell’azione penale, quella, per capirci, che consente di stabilire quali reati e quali rei possano estinguersi per decorrenza dei termini di giudizio.
Non roba da poco se oltre il 60 percento dei processi imbastiti si prescrive prima che si arrivi in aula per scarsezza di prove.
Insomma: una giustizia “fai da te” nella quale chi accusa può fare il bello e il cattivo tempo e se, nel frattempo, così facendo, si distruggono vite, carriere e reputazioni, pazienza, di nulla essi rispondono e niente ci rimettono. In un paese di parolai come il nostro, l’arte di mistificare le espressioni cambiandone il significato è stata sempre molto redditizia per politici, giudici e demagoghi.
Quindi l’autonomia della magistratura si trasforma in impunità ed irresponsabilità anche quando le sviste si rivelano clamorose ed i danni irreparabili.
Un quadro non certo rassicurante per chiunque capiti negli ingranaggi della giustizia, di sicuro non dissimile da quanti, tutti i santi giorni, sono costretti a misurarsi con le mille pastoie burocratiche, con la corruzione di chi gestisce timbri ed autorizzazioni per qualsivoglia pratica.
Nel caso della giustizia però, spesso ci si lascia la vita, soprattutto quella di chi l’ha sempre vissuta senza infrangere la legge.
E cosa dire degli intrallazzi degli stessi magistrati? Di quelli che venivano favoriti dal cosiddetto “metodo Palamara”, e che grazie alla vicinanza politica col PD, assurgevano ai vertici delle Procure e degli incarichi più prestigiosi?
Quanti saranno stati i giudici che, dopo avere fatto i moralisti, carcerato innocenti, fattasi pubblicità perseguendo vip e soggetti noti (per finire sulle pagine dei giornali ed in tv), hanno ottenuto uno scranno in Parlamento o una poltrona da Ministro?
E quanti sono quelli disponibili con chi detiene il potere perché chiamati alla direzione generale di un Ministero, oppure un Authority o un Gabinetto politico?
E quelli inseriti nelle commissioni, con lauti appannaggi, per definire arbitrati, liti e transazioni tra lo Stato ed i suoi creditori?
Roba alla quale ci siamo assuefatti e che, ahinoi, non desta più scandalo né perplessità. Ma non basta.
Il peggiore di tutti resta, infatti, il giudice etico, colui il quale usa la giurisdizione (i compiti e le funzioni che esercita) per moralizzare il mondo, per raddrizzare la schiena a tutti coloro i quali infrangono la legge perché costui si sente investito di una missione trascendente ed etica.
Sono quelli che si dichiarano incorruttibili ed intransigenti salvo poi finire ad occupare incarichi di grado elevato per notorietà acquisita. Costoro non applicano la legge.
Semmai la utilizzano per scopi ultronei, per perseguire altri scopi estranei al proprio compito. Lo fanno con un pizzico di calcolo futuro e narcisismo presente. Abbiamo esempi plurimi del passato.
Non a caso due ex magistrati hanno finanche fondato partiti politici come Tonino Di Pietro e Antonio Ingroia.
Quello che va di moda, soppiantando un altro giudice dal mandato “sociale“ come Nino di Matteo, adesso si chiama Nicola Gratteri.
Spende più tempo per interviste e comizi a sfondo sociologico e morale che in tribunale. Il procuratore di Catanzaro in genere ne inquisisce centinaia e ne arresta molte decine, dopo varie conferenze stampa con tanto di pistolotto incorporato.
Peccato poi (si fa per dire, ovviamente!) che di questi ne vengano liberati e poi assolti oltre il novanta percento! Si atteggia al nuovo Giovanni Falcone, tratteggia spesso un parallelo con il martire di Capaci, suppone attentati a suo carico e prefigura il rischio del martirio.
Insomma: altro che giudice sereno che parla attraverso le sentenze. Qui siamo alle classiche luci della ribalta.
(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)