Là, dove non tramontava mai il sole
La storia di quest’uomo ha oltrepassato i limiti del proprio personaggio, un personaggio, che si è perso tra i problemi sollevati e le peripezie della vita. Bisogna fare uno sforzo, per isolarlo dallo splendore di ciò che lo ha circondato. Bisogna non osservarlo, ma intravvederlo, poiché non si è trattato di uno di quegli uomini con i quali lo storico può dialogare a fondo. Gli studiosi hanno tentato, senza tuttavia riuscirvi, di mettere a nudo i suoi pensieri, il suo temperamento, il suo carattere. Nella storia, a detta di molti di questi, nulla ha presentato maggiori difficoltà. Troppe testimonianze sono state giudicate sospette, troppi documenti, ancorché ufficiali, rivelano poco di lui, tanto più perché redatti con una scrittura, quella rinascimentale del XVI Secolo, arzigogolata e pindarica. In mezzo a tante scartoffie, è sempre stato come cercare un ago nel pagliaio.
Carlo V, perché è di lui che stiamo parlando, fu, senza ombra di dubbio, uno dei più importanti sovrani della storia moderna. Il suo Impero era così vasto che, come si usava dire all’epoca, “su di esso non tramonta mai il sole”. Era nato a Gand, nell’attuale Belgio, la notte tra il 24 ed il 25 febbraio 1500, figlio di Filippo il Bello d’Asburgo e di Giovanna la Pazza, nipote dell’imperatore del Sacro Romano Impero Massimiliano e del re di Spagna Ferdinando il Cattolico. Sotto la guida amorevole di una zia, Margherita d’Asburgo, con il di lei consigliere, l’italiano Mercurino Arborio, Marchese di Gattinara e sorretto spiritualmente dal Cardinale Adriano Florisz Boeyens, di Utrecht, poi Papa Adriano VI, venne da subito educato ad un martellate ideale di monarchia universale. Nel 1506 ereditò dal padre i Paesi Bassi, il Lussemburgo, l’Artois e la Franca Contea e, nel 1516, da Ferdinando il trono di Spagna, con i domini italiani e le colonie americane. Nel 1519, la morte del nonno Massimiliano gli consegnò, assieme alla corona austriaca, anche quella, il 27 giugno, del Sacro Romano Impero, una volta ottenuto l’appoggio dei sette grandi elettori, designati dalla Bolla d’Oro. Sembra che dovette pagarli, per questo, con le risorse provenienti dalle Americhe e con prestiti di denaro, ottenuti da diversi banchieri europei, tra cui Jacob Fugger, principale imprenditore tedesco dell’inizio dell’Età Moderna. I sette elettori, quattro laici e tre esponenti del clero, erano il re di Boemia, il duca di Sassonia, il Conte Palatino del Reno, il Malgravio di Brandeburgo, gli Arcivescovi di Colonia, di Magonza e di Treviri. La Bolla d’Oro rimase in vigore fino al 1806, data in cui il Sacro Romano Impero si sciolse.
Di Carlo V sono giunti a noi un’infinità di dipinti ma, secondo illustri esperti d’arte, non tutti veritieri. Si va da un’immagine di bambino, attribuito a Bernard van Orley, al drammatico disegno, della collezione di Arras, che tratteggia l’Imperatore nel momento della morte. In tutte le raffigurazioni, si riscontrano, altresì, i caratteristici tratti del viso della sua stirpe, il naso affilato, la bocca aperta e difforme. Un volto, che il pragmatismo asburgico gli aveva comunque segnato, con la violenza e, in generale, con una cattiva respirazione che, nel suo caso, aveva la complicanza di uno sviluppo anomalo delle tonsille e di una sindrome asmatica, che lo attanagliava fin da piccolo. I ritratti giovanili, come tutti quelli che vennero dopo, mancano di allegria e di gioia di vivere. Così come quello equestre, dipinto da Tiziano Vecellio nel 1548, per celebrare la schiacciante vittoria sui protestanti avvenuta l’anno precedente a Mühlberg, “assomiglia ad una pessima fotografia”, come disse il noto critico d’arte fiorentino Emilio Cecchi. Con una “tale irriverente osservazione” (come lui stesso la definì), lo studioso voleva semplicemente dire che “questo ritratto a cavallo non ci confida più degli altri l’essere segreto al di là della maschera[lett.]”, una maschera che fu imposta a Carlo, fin dalla più tenera età, nella sua infanzia da orfano. E gli occorsero molti anni per liberarsi dei citati precettori. Su di lui pesava una grande eredità, nella cui catena, Giovanna di Trastamara, di Aragona e di Castiglia, più conosciuta come “Giovanna la Pazza”, non fu né il primo né l’ultimo anello.
Volle concedersi il capriccio di farsi crescere la barba, seguendo una moda molto in voga a quei tempi. Ma lo attese un’esistenza triste, austera, con viaggi, con compiti interminabili e la dura vita degli accampamenti. Parlando di sé, diceva di essere un “forzato del potere”. Le uniche distrazioni, la caccia e le donne. Con esse, senza privazioni, ma con una discrezione che altri, del suo rango, non ebbero mai. Si gettava a capofitto in pranzi doviziosi, sfruttando una forte costituzione fisica che, nonostante le intemperanze dello stomaco, gli evitò seri problemi di salute. Osservò, una volta, il suo maggiordomo Quijada: “I Re indubbiamente si immaginano che il loro stomaco ed il loro organismo siano differenti da quelli degli altri uomini”. E si sa che, durante tutto il volontario esilio nella piccola cittadina spagnola di Cuacos de Yuste, rinunciò a tutto, fuorché ai piaceri della mensa.
Ebbe un periodo di vera serenità, dopo il matrimonio con la principessa Isabella d’Aviz del Portogallo, celebrato a Siviglia, nel febbraio del 1526. L’Imperatore arrivò nella città andalusa, in festa, con un pomposo seguito, lei lo precedette di due giorni. Gli sposi trascorsero la luna di miele prima a Cordoba, poi a Granada, nel sontuoso ed immenso palazzo arabeggiante, chiamato Alhambra. Quell’unione, voluta per Ragion di Stato, fu invece felicissima. Ma la scomparsa dell’Imperatrice, durante il parto del loro terzo figlio, nel 1539, immerse Carlo in un dolore così immenso, da accompagnarlo fino alla fine dei suoi giorni. L’idea della morte, una vita religiosa, tanto più intensa man mano che passavano gli anni, la volontà di distacco, furono questi i tratti, in contraddizione apparente con la vita ostentata e tumultuosa del padrone di quell’Impero, che spiegano, forse, quell’impressione di segretezza e di mistero che, nel corso dei secoli, hanno ostacolato i tanti tentativi di avvicinarsi a Carlo V. Non erano atteggiamenti comparsi con la vecchiaia, se di vecchiaia si può parlare. Erano gesti significativi, che da sempre avevano evidenziato il dualismo della sua personalità. Fu intravisto, talvolta, disteso sul selciato di una chiesa, con le braccia a croce ed il volto a terra. Nella cattedrale di Ingolstadt, cittadina bavarese sulle rive del Danubio, nel 1546, uno dei suoi ufficiali lo scorse, a mezzanotte, inginocchiato, in estatica preghiera, di fronte al Cristo. Amava rifugiarsi nella musica religiosa ed il suo personale “coro” pastorale, che lo seguiva ovunque, era uno dei più soavi d’Europa. Il progetto, infine, di finire il suo tempo, lontano dai fastidi del mondo, aveva cominciato molto presto ad ossessionarlo, forse dopo il trionfale ritorno dalla spedizione di Tunisi, come egli stesso ebbe a confessare, poco prima di spirare. Spesso, infatti, oppresso da un tormento, apparente o segreto, sceglieva il ritiro spirituale.
Si è tentato, nei secoli, a scandagliare il perché di tutto ciò. Fu, per molti, assurdo attribuire queste particolari manifestazioni, al carattere ereditario trasmessogli da Giovanna, ad un segno di squilibrio mentale, all’inquietudine. Né, tantomeno, ritenere che la sua condotta fosse stata una sorta di rimorso, nei riguardi dell’infelice madre. Nessuno ha mai conosciuto la verità e, sicuramente, nessuno mai ci riuscirà. È sempre stata convinzione unanime, che non sia stato il rimorso ad aver condotto Carlo V a Yuste, per spogliarsi di tutto, dopo l’abdicazione. Il bisogno di un distacco, piuttosto, ed il distacco è ciò che gli uomini comprendono con minor facilità. Qualunque sia stato l’ultimo segreto della sua vita, nulla vi fu di più lucido e di più bello, in quella fine voluta, preparata ed accettata con coraggio, semplicità e grandezza d’animo.
Carlo V, Imperatore del Sacro Romano Impero, morì di malaria, il 21 settembre del 1558, a Cuacos de Yuste, nel suo ultimo agognato riparo, profondamente deluso, per non essere riuscito a coronare il sogno di creare una monarchia universale, capace di garantire un ordine politico pacifico, che racchiudesse nel cattolicesimo il proprio fondamento morale e religioso, “cuius regio, eius religio” (i sudditi dovevano professare la religione scelta dal loro sovrano), e costituisse un’invalicabile barriera all’incontenibile espansione dell’Impero Ottomano.
Il sole, alla fine, inesorabilmente, tramontò sul suo impero e quel sogno si infranse, con la sua morte. Le spoglie riposano, ancora oggi, nel Monastero dell’Escorial, a Madrid, Pantheon dei re di Spagna, fatto costruire, in suo onore, dal figlio Filippo II.
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