Ecco in che condizioni vivono i malati psichiatrici nelle carceri e nelle Rems di Valerio Bispuri L’Espresso, 1 maggio 2022
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Ecco in che condizioni vivono i malati psichiatrici nelle carceri e nelle Rems
di Valerio Bispuri
L’Espresso, 1 maggio 2022
Abbandonati, dimenticati, legati ai letti. Sono i pazienti psichiatrici che si trovano dove non dovrebbero. “Oggi non mi sento in forma, sono un po’ ingrassata, ma devo essere bella per stasera, perché vado a cena con Bob Kennedy”.
Mentre mi racconta del suo appuntamento, “Marilyn Monroe” si mette degli occhiali a forma di gatto con dei brillantini e sorride. Accanto un signore di mezza età alla sua quarta sigaretta negli ultimi quaranta minuti, aspira il mozzicone ormai consumato e mi saluta dicendomi che deve andare a discutere di una cosa importante con Napoleone. Tutti e due sono ospiti frequenti del Spdc (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) del San Filippo Neri di Roma. Quelli che arrivano qui sono pazienti il più delle volte in preda a crisi psicotiche, i loro volti nel momento più acuto sono deformati da un dolore interiore che non ha più barriere e si trasforma in angoscia, in terrore di una realtà che non riconoscono.
Prima di iniziare questo lungo viaggio nell’universo della psichiatrica italiana e africana conoscevo poco il mondo della follia: i gesti, gli sguardi, il tempo di chi fa fatica a vivere al ritmo emotivo e veloce della realtà. Ero stato oltre 15 anni fa nel Borda, il manicomio di Buenos Aires, per una settimana e avevo percepito la difficoltà e molto spesso il dolore acuto di chi è rinchiuso solo nel proprio mondo interiore. Anche nel lavoro sulle carceri italiane mi ero imbattuto in qualche detenuto con problemi psichici, spesso isolato in una cella singola, altre volte insieme ad altri carcerati. Schegge di un mondo che mi ha accompagnato fino al momento in cui quasi cinque anni fa decisi di approfondire, di capire, di entrare nelle stanze della mente di chi si disconnette dalla realtà e prende una strada tutta propria, fatta di tante piccole sfere che si intersecano tra loro.
Riuscire a decifrarne il processo è una cosa complessa, perché la pazzia non è una sola e non si rispecchia in un’immagine unica, ma ha mille forme diverse che rimbalzano da persona a persona e afferrano l’inconscio per la coda facendolo azzittire o urlare o semplicemente bisbigliare un linguaggio spesso estraneo a chi sta intorno a loro.
Per questo ogni persona malata ha bisogno di una cura e di un’attenzione differente e le varie “stanze della mente” cambiano e rendono mutevoli le “voci” che i pazienti sentono ogni tanto o tutto il giorno. All’inizio del lavoro ricordo di aver chiesto a una psichiatra che cosa volesse dire sentire le voci… nel senso concreto del termine. Mi rispose dicendomi di immaginare di mettere l’orecchio accanto a una parete sottile e sentire che qualcuno dall’altra parte del muro sta parlando con te o di te. Mi spiegava inoltre che a volte queste voci possono essere religiose o imperative, altre volte aggressive o noiose. Mi sono allora immaginato cosa si possa provare ad avere una persona o più persone che non vedi ma senti parlare con te.
Il mio reportage fotografico è iniziato proprio da queste voci e dall’assenza. Prima di iniziare a fotografare non ho scattato ma sono rimasto a osservare lo spazio e il tempo di chi rimaneva ore seduto su un divano a guardare il vuoto e di chi invece si muoveva freneticamente senza smettere di parlare. Spesso mi torna alla mente ancora oggi il volto magro di Alessandro, la barba lunga, la sigaretta sempre accesa e il suo silenzio quasi eterno. Ogni tanto diceva qualche parola, poi tornava nel suo mondo. Alessandro stava da quasi cinque anni in una comunità a Primavalle, mi ero affezionato a lui, sempre separato da tutti, con lo sguardo fisso nel vuoto. Ci sono stati dei pomeriggi in cui siamo riusciti anche a giocare a carte insieme, a burraco, e a camminare lungo il corridoio.
La malattia psichica è così, prende forme diverse, come nel caso di Roberto, ospite in una casa-famiglia e cristallizzato al 1987, quando aveva 19 anni ed era stato lasciato dal suo primo e unico amore. Da quel giorno tutto dentro di lui si era fermato e mi parlava dei gol della Roma di Di Bartolomei come fosse successo l’ultima domenica o del film “Gli Intoccabili” di cui aveva una videocassetta. Tutto era fermo a quel momento, a quell’anno e qui ho cominciato a capire che quasi sempre c’è un evento emotivo forte, un trauma psichico che sconvolge ogni cosa e come un maremoto entra nella mente e allaga tutte le stanze. Questo avviene su persone già fragili che vivono situazioni familiari difficili e hanno una predisposizione genetica per cui non costruiscono barriere emotive. Non c’è però solo un episodio a sconvolgere tutto. Sempre di più, soprattutto tra i giovani, la valanga arriva attraverso le droghe che prese in eccesso e per molto tempo se non uccidono il corpo distruggono piano piano la mente, interrompendo i circuiti con il reale. Una cosa di cui mi sono accorto in questi anni è che totalmente non si esce mai dalla malattia psichiatrica, da quella che spesso viene definita generalmente “follia”. Si può stare meglio, molto meglio, si può quasi guarire e arrivare a un’autonomia quotidiana ma la “follia” non cancella mai completamente quel senso di separazione e basta pochissimo per ricominciare da capo, avere una crisi e tornare al punto di partenza, al ricovero nel Spdc di qualche ospedale. È un sottile filo, così labile che si può sempre spezzare.
La storia sulla malattia mentale è diventata così un altro capitolo della mia ricerca costante sul mondo degli invisibili che porto avanti da oltre venti anni: un’investigazione antropologica su quella che è la libertà perduta di chi è rinchiuso in carcere, di chi fa uso di droga, di chi è sordo e ora di chi ha una problematica psichiatrica. Ho iniziato a fotografare il mondo della follia, come quasi sempre mi capita, dopo aver aspettato, dopo essere stato tante volte nei luoghi che ospitano i pazienti psichiatrici, iniziando proprio dalla fine, dalla casa-famiglia, dove vivono insieme in due, quattro, fino a sei persone e condividono un appartamento e solo una volta al giorno passa un operatore a vedere che tutto vada bene. Scendendo poi tante volte nei reparti psichiatrici degli ospedali San Filippo Neri e Santo Spirito a Roma ho incontrato Marilyn ma anche tanto dolore e alcuni malati in piena crisi contenuti nel letto, legati mani e piedi per impedire loro di far del male a se stessi o agli altri. La legge lo prevede in determinate situazioni, quando non c’è altro modo per fermare un attacco psicotico aggressivo, anche se in Benin in Africa ho visto il missionario Gregoire avvicinarsi a pazienti per strada molto violenti e riuscire a calmarli con una carezza e delle parole sussurrate all’orecchio. In Italia ci sono due scuole di pensiero sul senso o meno del contenimento di un paziente: c’è chi lo ritiene indispensabile e chi lo rifiuta cercando altri metodi. Ancora oggi dopo tanti anni ho incontrato chi è a favore di quello che hanno portato Basaglia e la legge 180 sulla chiusura dei manicomi e chi ne vede invece le criticità.
In questo tempo sospeso dove cercavo di capire e trovare la chiave fotografica ho passato interi pomeriggi nelle comunità a mangiare con i pazienti, a vedere video musicali a ripetizione, a fare partite di ping-pong, a cercare di spiegare cos’è la fotografia. Alla fine una delle cose più preziose erano sempre i loro abbracci ogni volta che andavo via e poi ritornavo e questo ritornare sempre dava loro tranquillità e a me permetteva di avvicinarli sempre più in profondità. Tutto il reportage ha così cominciato a muoversi verso quella parte interiore, ogni volta diversa e uguale, perché se è vero che la malattia mentale cambia da persona a persona ci sono poi dei gesti che si ripetono in tutti: la sigaretta continua e persistente fumata oltre il filtro, l’attaccamento spasmodico al cibo, quel muoversi lentamente e poi di scatto, quella voglia di andare e restare. Le foto hanno cercato di seguire questi gesti e questi sguardi, le abitudini e il loro senso nello spazio.
L’ultimo anno l’ho dedicato completamente a quelle che sono le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, in acronimo le Rems, gli ex Opg o se vogliamo manicomi criminali. Nelle tre Rems del Lazio a Subiaco e Palombara Sabina da alcuni mesi sto facendo un corso di fotografia con i pazienti e sono loro stessi a raccontare una storia che alla fine sarà una mostra collettiva. Le Rems sono delle piccole carceri dove vengono ospitati circa 16 pazienti, tutti con delle pene da scontare, ma a differenza del carcere vero e proprio con i relativi permessi possono uscire a fare attività e hanno una relativa maggiore libertà. Con alcuni di loro siamo diventati amici, chiacchieriamo, cuciniamo insieme, prendiamo il caffè e facciamo sfide a biliardino. Li osservo, ogni tanto scatto, a volte quasi anticipando un loro gesto, altre volte fermandomi nei loro sguardi. Con Guido, Gianpaolo, Valerio, Fabrizio Mosè e con tutti gli altri costruiamo la loro storia giorno per giorno, insieme. Ho sempre pensato che un progetto fotografico non sia solo di chi fotografa e che per raggiungere una profondità nell’immagine c’è bisogno di un lavoro collettivo, fatto dai pazienti ma anche dagli psichiatri, psicologi, dagli operatori, da chi mi ha permesso di entrare in luoghi interdetti ai fotografi.
Negli ultimi mesi sono rientrato in carcere, di nuovo, questa volta per raccontare chi ha problemi psichici ed è rinchiuso. Sono entrato nel carcere di Pescara, a San Vittore a Milano, a Rebibbia e Regina Coeli a Roma. In quasi tutte le carceri ci sono dei cosiddetti “repartini” che ospitano una decina di pazienti. Molti di loro sono segregati in celle singole o massimo di due persone. Ci sono però decine di pazienti psichiatrici che vivono insieme ai detenuti comuni, in cella con loro. Qui la comunicazione è stata più difficile, l’aggressività era in alcuni casi esasperata e senza possibilità di dialogo. Scattavo spostandomi velocemente, avevo come la percezione di dover essere rapido, di entrare direttamente, un po’ come avevo fatto tanti anni prima raccontando le carceri sudamericane. I loro occhi avevano più rabbia e i gesti non seguivano il ritmo che avevo conosciuto lungo tutti questi anni nei luoghi della follia in Italia ma anche in Africa.
Ora, verso la fine di questo viaggio nella malattia mentale, che è il grande labirinto che sto attraversando nello sforzo di capire e di testimoniare, ho tante immagini che mi porto dentro, ma se chiudo gli occhi per un attimo mi arrivano gli occhi spalancati di Gennaro che si guarda allo specchio.
(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)
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