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AttualitàCaserta e Sannio

Liceo “Leonardo Da Vinci” di Vairano/ Tante guerre, una Resistenza

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Ogni resistenza ha la propria “questione privata”


Vairano– Il frutto pazzesco e brutale di chi sceglie la via dell’aggressione e della violenza, piegando e rifiutando energicamenteogni tentativo di risoluzione delle controversie mediata dalla diplomazia e dai propositi di pacificazione internazionale, è il comune denominatore di ogni guerra.

L’ennesima guerra, l’ennesima catastrofe che ci trova impreparati, ci coglie alla sprovvista, perché alle generazioni adulte e giovani la guerra non è nota: ne manca una cognizione vicina, una memoria recente. Le immagini che arrivano addolorano e trascinano in un senso di angoscia mortale, soprattutto se fanno pensare ai rischi (concreti) di un’estensione del conflitto a livello planetario e una sua verosimile trasformazione totale dovuta al ricorso ad armamenti non convenzionali.

Purtroppo, la guerra ci riguarda, ci tocca, sta entrando – giorno dopo giorno, quasi come una ripugnante abitudine – nella nostra mente, nell’anima, nella carne. Ci indigniamo, ci scandalizziamo, non siamo in grado di approdare a spiegazioni ragionevoli, siamo sconvolti dalle notizie che arrivano dai luoghi di scontri e bombardamenti.

Il mondo è osservatore impotente ed esterrefatto di avvenimenti che ci superano, rispetto ai quali non si riesce ad organizzare una reazione efficace. Siamo comprensibilmente solidali con il popolo ucraino violato e oppresso, ma tra gli oppressi c’è anche la gente russa, almeno quella che quando prova a ribellarsi, a manifestare il dissenso, è repressa duramente.

L’essere umano è capace di tante oscillazioni ed espressioni contraddittorie. È in grado di essere carnefice, violento, oppressore, tormentatore, ma, al contempo, nobile, dignitoso, solidale. Non è superfluo, in un mondo pieno di atti efferati, fermarsi a riflettere su quanto l’uomo sia capace di far emergere quel carattere più insopprimibile della sua natura ovvero l’orientamento a fare il bene ed evitare il male: qual è il valore dell’essere solidali ed esercitare concretamente tale missione umanitaria in un tempo di atrocità come questo?

La guerra è pianificata dai grandi, dagli assetati di potere, dai bramosi di sogni di gloria e progetti imperialistici, ma è sempre e solo combattuta dagli innocenti, dai poveri, dagli umili, da padri e madri, figli e fratelli, dalle vittime. In questa circostanza, dominata in modo soverchiante dalla paura, dal terrore, dallo sconforto, la resistenza ha un ruolo cruciale; è dal suo movimento che germoglia e si fortifica una solidarietà in grado di salvare. Si tratta di una resistenza politica, una resistenza militare, ma anche e soprattutto una resistenza personale, quella del popolo, della gente comune, per la quale tutti si mobilitano nella prospettiva della speranza, spinti da un profondo desiderio di riscatto, coesi per la loro salvezza. La guerra di resistenza in Ucraina è la dimostrazione di quanto sia fondamentale ed essenziale lottare ininterrottamente per i valori fondamentali della vita umana, soprattutto per la libertà. Combattere per non cedere ad un’ingiusta prepotenza, non demordere per il proprio futuro, anche quando gli eventi sembrano essere totalmente sfavorevoli, quando tutti sono fermamente convinti che non vi sia alcuna possibilità di prevalere, quando la domanda che si presenta più frequentemente è proprio: perché non arrendersi?

Chi fa la guerra, non la fa semplicemente contro qualcuno, la fa contro l’umanità intera, quindi anche e innanzitutto contro se stesso. La guerra brutalizza tutti i suoi protagonisti, disumanizza tutti i suoi attori: non ci sono vincitori, né vinti (se non sulle cronache e i libri di storia). Questa guerra, ogni guerra, rende tutti perdenti, perdenti in umanità, in civiltà, in progresso. Se il mondo non saprà fermarsi, non avrà futuro: c’è un valore che non bisogna mai perdere per nessuna ragione al mondo. Si chiama dignità (Antonio Papi).

Il dramma dei profughi, la tragedia delle vittime innocenti, il dolore dei bambini morti o abbandonati ci fanno pensare che le guerre costringono con violenza le vite umane a fare i conti con il proprio destino, innanzitutto individuale, personale, privato. La sofferenza dei singoli si impasta con gli eventi atroci di quanti hanno in maniera sacrilega violato la dignità, la libertà, la giustizia dei popoli, la loro storia, la loro civiltà.

La guerra non è fatta solo da una regolare cronaca quotidiana di avvenimenti militari, politici o diplomatici; è fatta soprattutto da molteplici questioni private, da situazioni, affetti, motivazioni, da sogni infranti, spesso lontani dalle ragioni ideologiche o dalle narrazioni o dalle propagande istituzionali, sparse per offrire dei sensi fasulli alle inutili stragi.

È la storia di sempre, è la storia di ogni essere umano, vittima e protagonista involontario di ogni guerra, come quella che fa da contesto al romanzo Una questione privata di Beppe Fenoglio, testimone della resistenza italiana di quasi settant’anni fa. Anche in quel caso c’è una guerra di liberazione nella quale si inseriscono le vicende personali, affettive, psicologiche, esistenziali dei protagonisti completamente immersi nella bolgia della storia dei grandi.

Beppe Fenoglio, partigiano, scrittore e traduttore italiano,nel romanzo “Una questione privata”, pubblicato postumo nell’aprile del 1963, due mesi dopo la morte dell’autore, spiegherà in maniera drammaticamente veritiera una delle peggiori atrocità della Guerra:

” – E allora? Allora perché mi ammazzate? – Due lacrime gli erano spuntate agli angoli degli occhi e, senza scrollarsi, stavano crescendo smisuratamente. – Io ho solo quattordici anni. Voi lo sapete che io ho solamente quattordici anni, e ne dovete tener conto “.

Il romanzo che tutti avevamo sognato […], il libro che la nostra generazione voleva fare  – dirà Italo Calvino – nel quale Fenoglio narra una resistenza fatta da uomini concreti, con i loro sogni, con le loro ossessioni, con il loro disagio quotidiano, alla ricerca non di atti eroici destinati a risplendere in memorie monumentali, ma di contraddizioni e probabili sconfitte personali. Ogni accadimento, persino la guerra, non è altro che una questione privata per ogni singola persona che lo vive. Alle celebrazioni della Resistenza e a tutte le visioni ottimistiche della storia e del suo sviluppo, Fenoglio oppone la tragica verità dell’impossibilità di attribuire un significato a quanto è avvenuto, proprio come in questo tempo non è facile trovare un senso ragionevole alle vicende amare di una guerra assurda. La sua rappresentazione della Resistenza non ha un carattere documentario e non presume di offrire modelli di comportamento positivo: è una rappresentazione legata a dirette radici autobiografiche, a un’esperienzadirettamente vissuta, che la scrittura trasferisce su un piano assoluto, facendone un’immagine totale del mondo. La condizione partigiana diventa un segno rivelatore della condizione umana, come un modo tragicamente perfetto di essere nel mondo. Colui che resiste è una metafora di ogni esistenza, perché esistere è resistere. Fenoglio privilegia, in questo modo, una prospettiva antieroica, evidenziando quelle che sono le insicurezze e le difficoltà dei partigiani, senza scardinarne il valore etico.  

Tutti i movimenti del protagonista di questo romanzo – un partigiano che si mette alla ricerca del suo probabile rivale in amore, affrontando le dinamiche della guerra partigiana ed infine un’inesorabile sconfitta – in mezzo alla guerra e alla violenza sono segnati dal bisogno assoluto e assurdo di guardare fino in fondo nell’evento traumatico che per lui rappresenta la rovina del suo amore: la sua è una ricerca disperata, per vedere la rovina del suo amore, della sola forza che lo dovrebbe mantenere ancora vivo nello scempio della guerra. Si legge nel romanzo: “Non poteva più vivere senza sapere e, soprattutto, non poteva morire senza sapere, in un’epoca in cui i ragazzi come lui erano chiamati più a morire che a vivere”.

Si annulla così qualsiasi altro scopo, qualsiasi obiettivo del suo combattere: la sua ossessione è come una molla insensata che lo spinge a muoversi in totale solitudine in un mondo già di per sé privo di senso. I compagni di lotta, i luoghi che egli tocca, gli eventi a cui partecipa, gli restano estranei; conta soltanto l’irriducibile ostinazione della sua ricerca, il voler sapere qualcosa che dovrà dargli dolore e disperazione, ma che egli non potrà arrivare a sapere.

Il protagonista (Milton), come un antico cavaliere degradato nel presente e come tanti grandi personaggi della letteratura europea del Novecento, cerca se stesso e la propria sconfitta, in un mondo vuoto di senso, in una realtà dominata dall’assurdo, un assurdo di cui la guerra costituisce l’immagine tragica, micidiale, meschina: in questa ricerca può approdare soltanto al nulla e alla fine.

Rimane emblematico l’episodio della cattura di un prigioniero fascista funzionale allo scambio con il suo antagonista in amore, che tuttavia finisce tragicamente. Esso suscita la rappresentazione più lucida e drammatica di una lotta fratricida, che richiama alla coscienza la distanza tra i combattimenti tra gli eserciti russi e ucraini e il sentimento di comune appartenenza dei due popoli, vittime dell’arroganza ideologica e politica dei leader, ma certamente forti nel sentimento di fratellanza che li anima, come anima e vivifica tutti i popoli di quest’unica razzaumana.

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