In memoria di Giordano Bruno, martire del libero pensiero, nella ricorrenza del suo decesso (17-2-1600)
“Fermaro i passi, piegaro e dismisero le braccia, chiusero gli occhi,
bandiro ogni propria attenzione e studio, riprovaro qualsiasi uman pensiero, riniegaro ogni sentimento naturale, ed infine si tennero asini ”.
Bruno sa per certo che gli uomini saranno liberi solo se sapranno uscire dallo stadio del comportamento
“asinino”, per esercitare responsabilmente la propria individuale e civile dimensione etica e concretizzare
l’inalienabile diritto alla dignità di ciascuno.
Giordano Bruno è il filosofo della libertà di pensiero; del naturalismo; dell’affermazione della ragione sul dogma e sulla falsa autorità; della sintesi tra Medio Evo, cristianesimo ed evoluzionismo moderno; l’uomo della Rinascenza, il fustigatore dei corrotti, degli inerti e degli ignoranti; il maestro di memoria, lo speculatore instancabile, l’ingegno impetuoso; il martire dell’intolleranza.
Quella storia, quel nome, rappresenta per me uno stimolo continuo; mi sento impegnato a corrispondere, ovviamente nei limiti delle mie modeste dimensioni, ai suoi insegnamenti ed ai suoi ritmi, a non deluderlo, a cercare, come Egli vuole “con il senso e con la ragione” di impiegare il tempo “nel lavoro e meno intorpidire nel riposo; il riposo non ha sapore se non come il condimento del lavoro“.
Ebbene, mio intento questa volta – diversamente dagli anni passati per la ricorrenza del 17 febbraio – con questo scritto, non è quello di condurre chi mi sta leggendo lungo un percorso biografico-filosofico di Bruno. Emulerei, male e senza possederne le doti di sapienza e di esperienza, gli illustri studiosi che hanno profuso passione ed intelligenza, ricerche e studio nelle trattazioni del personaggio, difficile e per certi aspetti direi “umbratile“, come “umbratile” egli considerò, per l’uomo, la conoscenza della verità.
Le sue Teoriche – disse Giovanni Bovio – “non sono parole, sono esempio, in lui la teoria è pratica, è tutto l’uomo, pensare e volere. In lui il carattere filosofico resta come tipo del carattere umano“. Questo insigne studioso ci avvicina, come i tanti che hanno cercato di capire a fondo Bruno, alla personalità, al pensiero, alle ragioni, alle speranze del sostenitore di quella filosofia che “si rivolge al nobile ingegno di coloro che possono comportarsi senza servire l’opinione, la fede, e la dottrina di una parte”.
Il mio intento, oggi, è piuttosto quello di fare avvertire, tra queste righe, la presenza del Frate nolano, senza particolare enfasi, senza retorica.
Qui, tra noi, ritengo che Bruno si trovi a suo agio, perché sa che non gli faremmo mai del male, che non lo costringeremmo, per sottrarsi alla persecuzione, a girare per l’Europa come ha fatto : per luoghi diversi tra loro, in tempi in cui la commistione di religione e politica, religione e filosofia, creava seri problemi a chi, con il pensiero o con la “praxis” (per Bruno divisa in tre parti, con gli stessi termini esposti secondo la divisione triadica: Dio, intelletto, anima del mondo), intendesse sollevare il problema della separazione tra ciò che è dogma, fede, assunto predefinito e verità ricercata, mediata, sofferta; tra tenebre e luce.
L’autosuggestione, il ritenersi il vero Mercurio donato dagli Dei all’uomo per ricostruire l’ordine infranto, il portare la luce dopo secoli di tenebre, il liberare il mondo dalle “false chimere et sciogliendo l’animo umano et la cognizione che era rinchiusa ne l’altissimo carcere dell’aria turbolente” è un concetto adottato da Bruno dalla grande Tradizione ermetica. Questa convinzione di svolgere un ruolo straordinario nella “ruota del tempo“, per mandato della Provvidenza, per portare la verità tra gli uomini, fa pensare che egli abbia creduto in una predestinazione.
“Nettissimo – scrive Michele Ciliberto, filosofo e storico italiano, considerato uno dei massimi esperti del pensiero di Giordano Bruno – in lui diviene il sentimento della vita intesa come un destino, una missione universale incardinata nella vicissitudine della scienza, delle opinioni, del sapere“.
In effetti, ha del portentoso, dell’eccezionale, la mole di lavoro che Bruno svolge in non molti anni; la frenesia che pone nel procedere nella sua elaborazione mentale; l’ampiezza degli studi, delle ricerche; quanta cultura acquisisce, compresa la conoscenza perfetta di molte, tante, lingue straniere, e del latino e del greco, che pure ha imparato.
E’ la prova vivente della validità degli insegnamenti delle antiche scuole di retorica dei sofisti latini e greci, e poi dei Domenicani, che Bruno conosce bene. E’ stato uno di loro per circa undici anni, dal 1565 al 1575, in San Domenico Maggiore a Napoli, dove ha raggiunto la qualifica di “lettore di teologia”. Da quel convento scappa a Roma per sottrarsi a un processo cui si intende sottoporlo per sospetti di letture di ispirazione erasmiana e per dubbi già manifestati su “verità rivelate” come quella della “Trinità”.
Da Roma a Genova, perché apprende che a Napoli sono state trovate le opere erasmiane che gli appartengono; è il momento in cui si spoglia delle vesti dell’Ordine e ha inizio il suo itinerario per l’Europa caratterizzato da fasi alterne, costellato di onori (viene considerato in taluni ambienti una delle menti più illuminate), persecuzioni e solitudine.
I Domenicani, però, continueranno a esercitare un ruolo importante nella vita di Bruno fino agli ultimi istanti di vita.
Per Bruno, la “crisi del mondo” non consente attenuazioni o riguardi per nessuno! Scrive: “La luce è sepolta, un’empia favola si è insinuata tra le genti; la barbarie è sopravvenuta, è iniziato un secolo scellerato, in cui il sapere è considerato insano, la crudeltà e l’empietà sono pietà, la religione si riduce alla conservazione del mondo nelle sue divisioni e la forza vanifica ogni diritto“.
“Così della regola del vero e del giusto è rimasta una corrotta favola che ha sconvolto la ragione e le abitudini della vita”.
Non conservano queste denunce ancora oggi una loro attualità, cari amici miei?
Neppure la Chiesa riformata è in grado di porre rimedio a questa situazione, Bruno nega ogni valore a quelle teologie: “nate dall’utero di un’abbiettissima ipocrisia, ovvero malizia, o da un altro tipo di impostura e da una irosa temerarietà: qualità che si possono trovare tutte insieme nel cervello di un solo pedante più che in qualsiasi altro“.
I rapporti di Bruno con le Chiese riformate subiranno più bassi che alti. la delusione è forte, dalla sua conversione al Calvinismo, poi negata, in quel di Ginevra; alle polemiche aperte, aspre, contro coloro che ritiene abbiano portato ulteriori sconvolgimenti tra gli uomini stolti: “questi grammatici che in tempi nostri grassano per l’Europa“. “Veda – fa dire nello ‘Spaccio de la bestia trionfante’ – se apportano altri frutti che di togliere le conversazioni, dissipar le concordie, dissolvere le unioni, far ribellare gli figli dai padri, gli servi da’ padroni, gli sudditi da’ superiori, mettere scisma tra popoli e popoli…fratelli e fratelli…e in conclusione…portano, ovunque entrano, il coltello della divisione, togliendo il figlio al padre, il prossimo al prossimo, l’inquilino alla patria, e facendo altri divorzi orrendi e contra ogni natura e legge…”. Meglio, al limite, la Chiesa Cattolica!
E non sono soltanto questi gli aspetti più significativi della disputa con i Riformati, disputa che avrà un momento di sosta a Wittenberg; nell’università, allora nelle mani della fazione luterana, trova, dopo tanto peregrinare, un’atmosfera propensa a farlo lavorare in pace, un clima di “libertà” filosofica, di tolleranza, che gli fa mutare, anche pubblicamente, atteggiamento e giudizi nei confronti di quei docenti che, “malgrado avesse proclamato, nelle sue pubbliche lezioni, dottrine che spiantavano la filosofia non solo da quei professori approvata, non arricciarono il naso, non aguzzarono le zanne, né contro lui si enfiarono le gote, né strepitarono i pulpiti come già a Tolone, a Parigi, a Oxford. Non divampò il furore scolastico“.
“Illibata voi custodiste la libertà della filosofia, né macchiaste il candore della vostra ospitalità“.
E arriva al punto di esternare la sua riconoscenza nei confronti di chi lo aveva accolto con rispetto e magnanimità, ricambiandola con quel meraviglioso inno alla tolleranza, “l’Oratio Valeticdoria”, con la quale egli “esule”, “fuggiasco”, zimbello di fortuna”, “piccolo di corpo”, “scarso di beni”, “privo di favore”, “spremuto dall’odio della folla”, esprime considerazione per Lutero e per i dottori dell’università, con quelle splendide parole :
” Accoglieste me, cieco per l’amore della vostra Minerva, dico di quella vergine che è la vostra madre di famiglia, cieco e dissipiente, ed entro i vostri lari, per lo spazio di circa due anni, mi proteggeste, e con certa giovial mente mi sosteneste“.
Formula anche un riconoscimento più ampio a tutta la cultura tedesca, “tutti i dotti della vostra nazione”, ben diverso da quello manifestato precedentemente nei confronti dell’Inghilterra, “costellazione di pedantesca, ostinatissima ignoranza e presunzione mista con una rustica civiltà“, scrive nella “Cena delle Ceneri” dopo le aspre polemiche sostenute con l’ambiente ostile dei puritani di Oxford in materia di immortalità dell’anima e di alcuni aspetti della teoria copernicana. Quei puritani che “in nome di una maligna interpretazione dei testi biblici, spacciano la pazzia per saggezza, l’ignoranza per sapienza, l’ozio per purezza e santità di fede“, in verità lo hanno apostrofato malamente: “quando quell’omiciattolo italiano, … con un nome certamente più lungo del suo corpo…, visitò la nostra Università e non stava nei panni per il desiderio di compiere qualche memorabile impresa, di divenire famoso in quel celebre ateneo” e “quando con molta più audacia che saggezza ebbe occupato il posto più alto della nostra migliore e più famosa scuola, rimboccandosi le maniche come un giocoliere, facendoci un gran parlare di ‘chentrum’ et ‘chirculus’ et ‘ circumferenchia’, …, egli intraprese il tentativo, fra moltissime altre cose, di far stare in piedi l’opinione di Copernico, per cui la terra gira e i cieli sono fermi, mentre in verità era piuttosto la sua testa che girava e il suo cervello che non riusciva a stare fermo“.
Perciò Bruno ha ragioni da vendere e, in risposta, risottolinea la sua funzione di “domatore dell’ignoranza”, “l’amore che porta a tutti gli uomini”, “l’indifferenza verso le distinzioni di ceto, di sesso, di razza”, la sua “preferenza per coloro che nelle relazioni si mostrano più civili, pacifici e fedeli” e il suo “mirare al di là dei segni esterni, all’anima e alla cultura dell’intelletto”.
Ritornando per un momento a Oxford, e siamo nel 1583, a ulteriore testimonianza della ostilità degli Oxoniènsi, Bruno è costretto a lasciare tutto e a ritornare a Londra, nientemeno che per un’accusa di plagio sollevata contro di lui, a causa di un solerte dottore, (o “solenne dottore” come lo chiama la storica, saggista britannica, Frances Yates), che, nell’ascoltare il filosofo, riporta la sensazione di aver già letto da qualche parte qualcosa di simile e, dopo un riscontro, si convince che è proprio così, sia una prima che una seconda lettera sono state tratte dalle opere di Marsilio Ficino, il neoplatonico rinascimentale, fondatore dell’Accademia fiorentina.
Ficino rappresenta uno dei punti di costante riferimento di Bruno per le sue idee di rinnovamento della religione e della filosofia ma, soprattutto, per quelle della centralità dell’uomo e della restituzione della natura creata alla sua forma e a Dio; idee che, per il Nolano, rappresentavano un punto di partenza.
Ora, pensiamo a quante volte Bruno ha meditato sui contenuti delle opere di Ficino e come sia riuscito ad assimilarli integralmente grazie alla sua formidabile capacità di memoria. Appare quindi attendibile che egli li abbia così bene acquisiti, al punto di impossessarsene tanto da ripeterli come suoi, senza accorgersene, passi propri di quelle opere.
Ed è la sua difesa: Bruno respinge l’accusa di plagio nella “Cena delle Ceneri”. Il Ciliberto riporta le cose al posto giusto, quando, riferendosi al comportamento dei puritani nei riguardi del Frate nolano, afferma che invero “ lo scontro tra Bruno e i teologi puritani riguarda, obiettivamente, un nodo di problemi in cui si intrecciano motivi religiosi, scientifici e anche politici “.
Il riferimento a Marsilio Ficino, traduttore tra l’altro di scritti ermetici per conto di Cosimo de’ Medici, e quello alla Magia naturale, riportano al Bruno che, tra quelle seguite, cerca ansiosamente la ‘vera religione’, una religione “che non sia un insieme di superstizioni contrarie alla ragione e alla natura” e si convince sempre più che l’antichità è sinonimo di santità e di purezza.
Il cristianesimo, anche riformato, e altre religioni simili a questa, non sono per lui.
” Buona religione – egli dice – è quella che valorizza la responsabilità e l’opera dell’uomo“; è quella che promette amore, onore, premio di vita eterna “non ai pedanti e ai parabolani “, ma a coloro che “ per adoprarsi nella perfezione del proprio ed altrui intelletto, nel servizio della communitade…piaceno agli Dei“.
E allora? qual’è questa buona religione? Bruno crede di identificarla nella religione dei Romani, ma va ancora più indietro nel tempo; il fascino, il vero fascino sembra sentirlo da un’altra parte, risale agli Egizi, all’Ermetismo, a quel “tre volte grande” Ermete Trismegisto, profeta, sacerdote, filosofo, scriba degli Dei e depositario della sapienza egizia, appunto.
Ma sarà veramente esistito?
L’Ermetismo esiste come religione vera e Bruno la considera un culto, senza templi e senza liturgia, praticato nella solitudine della mente.
Echi e temi riconducibili all’ermetismo, come alla scienza magica e all’arte mnemonica, si incontrano in tutta l’opera di Giordano Bruno, anche per quanto attiene al linguaggio simbolico che spesso usa.
Egli, infatti, è molto attento anche all’aspetto linguistico, lessicale, all’uso della parola, allo stile, adattati alle situazioni e ai problemi che deve rappresentare; è l’uso della parola come tecnica.
Ora riguardo alla religione, Bruno quasi trascura gli aspetti puramente teologici, egli guarda agli aspetti civili di essa, alla sua necessità e utilità: “per l’istituzione di popoli rozzi che denno essere governati “, quindi gli interessa l’impatto sulla realtà.
E la realtà di Bruno è totale, e confluisce nell’Uno; ogni cosa, ogni pur minimo aspetto di essa – e l’ambiente ed i personaggi del Candelaio ne sono una vivace testimonianza – deve confluire nell’unità; è il passaggio obbligato per salire dal minimo al massimo, dall’inferiore al superiore, dal particolare all’universale; è il principio stesso dell’elevazione alla quale è chiamato l’uomo.
L’uomo è ora il centro dell’universo, è l’opera più perfetta di Dio, in lui si rispecchia la divinità dell’artefice; egli si distingue dagli altri animali perché ha statura eretta, mani e intelletto, perciò può essere in grado di esercitare la sua signoria sugli altri esseri naturali. E allora deve porsi alla ricerca della luce, della verità, deve uscire dall’ignoranza, può mutare il corso della fortuna, allontanarsi dall’essere bestiale e avvicinarsi all’essere divino; e deve lavorare, bandire l’ozio ‘luterano’, acquisire meriti e assumersi responsabilità. Bruno non vuole l’appiattimento, ma un’uguaglianza che si basi sul merito di chi è più degno, saggio e capace.
Il merito, come la giustizia, interviene sul fato, sul destino dell’uomo che è fatto di ascese e cadute.
L’uomo, insomma, può farsi Dio della terra, che è il suo mondo tra tanti altri mondi.
I mondi dell’universo di Bruno mutano, si dissolvono dando luogo a rinnovazioni e successioni, è un universo animato : “tutta in qualsivoglia parte è l’anima del mondo“. I mondi sono vivificati e ordinati dall’Intelletto universale; è l’universo infinito e uno, all’essenza stessa dell’universo si riconducono infinità e unità, cardini della sua filosofia.
Uno è lo spazio, una è la grandezza, uno il fondamento.
Una è la prima essenza, una la prima bontà, una la prima verità.
Uno è il principio primo da cui da cui tutte le cose procedono.
Uno è il motore che assicura l’universale vicissitudine.
Uno – Uno – Uno.
Il basso tende all’alto lungo una scala dell’essere che ha al suo vertice l’Assoluto primo, la Pienezza infinita, l’Uno.
E’ il concetto della vita, materia infinita nella quale si alternano ombre e luci, ignoranza e sapienza, vita e morte.
E in tutto questo è radicata la ragione della felicità del sapiente che, oltre alla superficie delle cose che incessantemente scorrono, sa guardare alla sostanza che è una, immutabile ed eterna.
E’ un ulteriore, graduale passaggio verso quella filosofia della “Natura”… ombra e vestigio della divinità ” provvidenza universale, in virtù della quale ogni cosa vive, vegeta e si muove e sta nella perfezione…” !
Innamorato della Natura, non alla maniera pacata di Telesio, ma animato da una passione che lo rende suo amante devoto. Si può parlare, per Bruno, di una religiosità della Natura, unica divinità adorata e ricercata.
Bruno continua a sostenere che una cosa è la filosofia, altra è la religione. Intanto, sovrani, nobili ed ecclesiastici, filosofi e politici, e lo stesso popolo rozzo, sono esposti ai suoi strali aspri e immediati.
Bruno è un uomo di campagna. Il suo paese di nascita, Nola, aveva avuto un passato con gli Etruschi, i Sanniti ed i Romani, ma all’epoca sua doveva essere poco più che un centro rurale; …poi di famiglia povera, il padre un soldato…, il periodo della formazione del carattere, istintivo ed onesto, è là che si compie. Quando andrà via, per Napoli, ha già quattordici anni. Si svilupperà la sua cultura nella misura che abbiamo visto, si evidenzieranno le doti eccezionali di memoria, la capacità di riflessione, il senso critico innato, il saper andare immediatamente al cuore dei problemi, ma il carattere impulsivo, che non conosce mezze misure, che non sa … dire e non dire, che non è incline a nascondersi dietro il velo della opportunità, quello non cambia.
Bruno attinge alla sapienza pitagorico-platonica il rapporto numeri-figure e fenomeni naturali; costruisce la teoria del ‘minimo’: struttura elementare, invisibile e sostanza delle cose; arriva all’atomo, minimo fisico, indivisibile, vivente ed eterno; gli atomi si contattano, si aggregano e si disgregano continuamente, all’infinito, dando origine ai composti, al movimento stesso della vita, alle differenze, alle disuguaglianze tra gli individui, insomma alle mutazioni, è il moto incessante dalla vita alla morte, dalla morte alla vita, dal bene al male, dal male al bene. Poi i numeri e le figure geometriche che concorrono a far conoscere la realtà; è di nuovo il discorso sull’uomo e sulla natura, l’obbedienza alle sue leggi, il dominio su di essa per salire a Dio che non è più trascendenza rivelata ma è la natura stessa, nel suo principio immanente.
Teorizza la monade (il termine venne usato per la prima volta dai pitagorici per indicare i primi elementi, matematici, dell’universo), essenza di tutte le cose; Dio è la monade delle monadi, da cui hanno origine tutte le specie animate attraverso un processo di derivazione; figura progenitrice è il cerchio; il triangolo è ” a buon diritto – scrive Bruno – incluso fra le figure celesti in quanto da esso è formata ogni figura ed in esso ogni figura torna a risolversi “.
Poi valorizza le osservazioni astronomiche a livello scientifico, ed esse provano la validità delle sue intuizioni; proclama l’accettazione dell’ipotesi eliocentrica copernicana; è la Terra che si sottrae a un rapporto di sudditanza, si libera essa stessa nello spazio infinito da una posizione di attesa dall’alto; è l’uomo stesso che intende svolgere il suo ruolo, in autonomia e libertà, andando incontro alla ‘Luce’; Bruno si libra nell’Immenso.
Raggiunge finalmente la sua verità che “sola l’annamora“. La sua vocazione di sapiente, di filosofo vero è soddisfatta, ha superato le difficoltà che derivano dal predominio dei ‘saputelli e dei filosofanti’ sul sapere, un predominio che confonde le idee e non libera dall’ignoranza.
E difende il lavoro compiuto, la sua filosofia, con tutte le forze e con la capacità di sostenere le sue tesi, in piena libertà e senza mezzi termini.
Alcuni suoi atteggiamenti potrebbero essere interpretati come presunzione, assenza di umiltà, autoesaltazione, ma la sua non è presunzione – a parte la convinzione di assolvere, in terra, a un mandato sovrannaturale – dobbiamo pensare al momento storico e alle condizioni religiose, politiche e sociali in cui lavora. La sua è la tattica dell’attacco, della provocazione, l’unica che può smuovere qualcosa, sollevare le coscienze e spronare gli uomini ‘rozzi’ a reagire.
Anche quando, tema per tema, demolisce le dottrine di Aristotele, o contesta la filosofia platonica, patristica o scolastica, quando si confronta con gli altri filosofi, la sua non è intolleranza: non incorriamo in questo equivoco. Lo testimonia, a mio modesto parere, la stima ch’egli ha riservato a Tommaso d’Aquino, maestro di teologia, ma anche filosofo del razionalismo opponibile alla fede.
I filosofi con i quali si confronta direttamente o indirettamente, del resto, sono tanti, e non soltanto Aristotele e Platone; ci sono Cusano, Erasmo da Rotterdam, Plotino, Ario, Lullo e Valla, ed anche Epicuro, Democrito, Empedocle, Pitagora e lo stesso Ermete Trismegisto, oltre ai neoplatonici fiorentini… .
Certo, Bruno, in vita e dopo la morte, è stato giudicato in modi diversi, se ne è scritto tanto e se ne scrive ancora molto, ma da tutto traspare l’importanza e la singolarità di questo personaggio, ” alto come un soldo di cacio, ma dagli occhi vivi e dalle energie impensabili”, che rappresenta una pietra miliare nella storia dell’evoluzione del pensiero. Per noi, Bruno resta un martire del libero pensiero che ha pagato con il fuoco la sua grande tensione ideale verso il miglioramento morale e materiale dell’uomo.
“ Qui fu arso e le ceneri non placarono il dogma; qui risorge e la religione del pensiero non chiede vendetta. Chiede la tolleranza di tutte le dottrine, di tutti i culti, culto massimo la giustizia ” pronunciò Giovanni Bovio, a tre secoli dalla sua morte.
Lasciamo stare se, come è stato dibattuto, è un laico e non è un laico, se è mago o non è un mago, se può essere considerato o meno un futurista, un precursore della scienza moderna senza togliere nulla a Galilei, se è l’anticipatore del pensiero moderno senza nulla togliere a Cartesio, se diventa frate per vocazione o per esigenze di studio, se è un pavido o è un coraggioso, se può essere considerato un ribelle o no.
Oggi si tende a guardare con diversa disposizione a fatti e istituzioni della storia, ci sono le cosiddette rivisitazioni.
In tal modo si tende a riesaminare il Medio Evo, e anche l’Inquisizione, con una diversa obiettività : sarebbe un discorso molto lungo.
Dico solo: dieci anni di carcere, in celle fetide e fredde, in isolamento, tra interrogazioni, esortazioni a rinnegare le proprie formulazioni, difese dell’imputato, necessarie dissimulazioni, attese lunghe, estenuanti, e tutto il resto, non è forse tortura, ammesso e non concesso che non ce ne siano state di altra natura? Ebbene, anche queste dovette patire. Alla fine di marzo del 1597, risulta che Bruno fu torturato con l’usuale mezz’ora di applicazione del supplizio della corda. In quell’occasione fu interrogato per lungo tempo sull’incredulità manifestata circa la Trinità e l’incarnazione, nonché sull’esistenza di molteplici mondi e la loro eternità. La tortura non riuscì a strappare una parola di confessione ma, una volta ancora, le argomentazioni di Bruno non “satisfecero” gli inquisitori. In un interrogatorio successivo, fu addirittura il Pontefice, Clemente VIII, a non concedere l’autorizzazione di procedere alla tortura, malgrado l’unanime richiesta dei cardinali.
La condanna a morte fu pronunciata l’8 febbraio 1600; a lettura finita, Bruno, levatosi in piedi e con viso minaccioso, rivolto ai giudici esclamò la celebre frase : “Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla”. Gli ultimi otto giorni di vita li trascorse nel carcere del Governatore in Tor di Nona. Poi, nove giorni dopo, all’alba del 17 gennaio, fu condotto in Campo de’ Fiori, “quivi spogliato nudo e legato a un palo, con la lingua in giova (serrata da una morsa: la mordacchia), per impedirgli di parlare alla folla, fu arso vivo consapevole di morire martire et volentieri “. Il corpo bruciò sul rogo, non le idee, non il pensiero di Bruno, il cui destino si conclude qui, a 52 anni.
Bruno è certamente preparato alla morte perché : ” l’anime, morto il corpo – lo ha detto lui – andavano d’un corpo in un altro et che lui era stato altre volte in questo mondo, et che molte altre sarà tornato dopo che fosse morto o in corpo Humano o di bestia“. (L’animale, per il Nolano, rappresenta l’ espressione della divinità che si nasconde nella Natura; è segno ed immagine di un universo in perenne trasformazione; è simbolo dei mutamenti a cui va soggetto l’uomo in continua ricerca. Le bestie, come concepite dal Bruno diventano, pertanto, rappresentazione dell’infinito e dell’illimitato desiderio dell’uomo di abbracciare la divina beltà, Artemide, la Natura).
E se Mocenigo, il Doge veneto, il cui nome è tristemente legato alle tragiche vicende del nostro frate, nel riferire ai giudici dell’Inquisizione questa puntualizzazione di Bruno, rise, noi non ridiamo.
Noi, invece, riascoltiamo, con molto rispetto, Giordano Bruno che librandosi verso l’alto si sta allontanando da noi in questo istante, mentre pronuncia le parole, che sono state interpretate come suo testamento spirituale, e che egli stesso ha messo in bocca al gallo vinto e morente, nel ” De Monade ” :
” Ho lottato molto: credetti poter vincere e la sorte e la natura repressero lo studio e gli sforzi. Ma qualche cosa è già l’essere stato in campo; giacché il vincer, lo vedo, è nelle mani del fato. Ma fu in me quel che poteva, e che nessuno delle generazioni venture mi negherà; quel che un vincitore poteva metterci di suo : non aver temuto la morte, non aver ceduto con fermo viso a nessuno degli uomini, aver preposta una morte animosa a una imbelle vita“.
Cerchiamo di essere degni del suo esempio.
La giustizia e la libertà non sono un dono. Sta a noi saperle realizzare.
(Di Guglielmo di Burra – Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)