Lecco, la ferocia dei Ficarra-Piromalli su un 74enne cui estorcono 80mila euro: “Mi mostrarono la vasca con il solvente”.
Si svolta a sinistra dalla statale e la strada inizia a salire con l’ultimo spicchio meno nobile del lago di Como che scompare sotto la nebbia. Il paese sta qua. Poche case, bar, edicola, chiesa e scuola. Tutto in salita, comunità montana, ottomila anime.
Gli sguardi incrociano chi non è del posto, capiscono, sono diffidenti. È in questo luogo lombardo che si riannodano i fatti di una storia di ’ndrangheta antica, violenta e insospettabile in tempi di colletti bianchi e giochi finanziari. Perché casomai qualcuno ancora pensasse che mafia possa significare il rispetto per certe regole, la storia del signor Franco, la cui identità è altra, pensionato all’epoca dei fatti, comasco di nascita, e di residenza là dove il lago di Como va verso Lecco, svela l’inganno di alcune narrazioni sul tema. Bussare oggi alla sua porta, a distanza di tempo, per chiedergli conto di quel dramma, perché la sua voce possa dare benzina alle denunce, vale un bel po’ di insulti. Al citofono Franco prima urla e poi attacca: “Andatevene, chiamo le forze dell’ordine”. Mi qualifico come giornalista. Capisco subito che il margine è poco. Abbandono l’idea. Per Franco i fatti sono ancora troppo vivi, la vergogna anche, il terrore, la paura di morire. Meglio dimenticare.
Perché la storia di Franco, messa nero su bianco negli atti giudiziari, leva la maschera agli “evoluti” boss lombardi e li mostra nella loro ferocia. Disposti a tutto per i soldi. Persino a trascinare Franco in un capannone di Mozzate (Como) e minacciare di scioglierlo nell’acido “se non paghi!”. Mafiosi, presunti, ricostruisce l’inchiesta di Milano, lontani da schemi finanziari raffinati, radicati ancora nell’arcaico modus dell’estorsione. I protagonisti sono alcuni appartenenti alla famiglia Ficarra, collegati, secondo l’accusa, alla cosca Piromalli e finiti nel blitz di novembre dell’Antimafia milanese e della Direzione centrale anticrimine diretta dal prefetto Francesco Messina sulla presenza della ’ndrangheta nelle province di Como e Varese. Sono Daniele Ficarra e i nipoti, entrambi di nome Domenico (Ficarra), di cui uno, classe ’84, è ritenuto dalla Procura il capo in Lombardia per conto dei clan della Piana di Gioia Tauro.
I fatti, denunciati da Franco nell’ottobre 2018, si svolgono tra luglio e settembre dello stesso anno, quando Franco, pensionato di 74 anni, vive in un paese della provincia di Lecco. La vita gli ha dato tre figli e una moglie che muore nel 2016. I figli sono grandi. Lui è solo e tirar cena dal mattino è lungo il tempo. Cerca compagnia, la trova in Jessica, prostituta ungherese. Ma più che il sesso, vuole qualcuno con cui confidarsi. Jessica gli sembra la persona giusta. Le regala i gioielli della moglie. Spesso, quando si incontrano, la donna è accompagnata da un ligure di 50 anni, Alessio D.
A luglio, Franco gli confida di voler vendere a 35mila euro un camioncino per i panini. È solo una chiacchiera, che però trascina l’uomo all’inferno. In un mese, secondo quanto si legge nel decreto di fermo a carico di 54 persone, dal 22 luglio al 22 agosto consegnerà ai Ficarra, in contanti o tramite assegni o bonifici, 80.500 euro.
Il 22 luglio Franco pubblica un annuncio di vendita del mezzo. Pochi giorni dopo entra in scena Daniele Ficarra, che lo contatta e si dice interessato per conto di un’altra persona, parente dei Ficarra (a cui non è contestata l’estorsione), il quale consegna a Franco un assegno da 31mila euro. A Franco ci vorrà poco a capire che l’assegno è scoperto. Ne parla con Daniele Ficarra il quale si incarica di risolvere il problema.
È in questo momento che entra in scena uno dei due nipoti, Domenico Ficarra detto Blindo (non indagato per questa estorsione). In totale balia dei corvi della ’ndrangheta, Franco confida ai Ficarra di volere riprendere i gioielli dati a Jessica, ma non vuole che alla donna sia fatto del male. Daniele Ficarra si incarica anche di questo. Dirà poi di averla picchiata ma di non aver raggiunto il risultato. È solo una messa in scena. La donna chiama Franco: “Con quello che mi hanno fatto quelli che hai mandato, rischi fino a dieci anni di galera!”. Non è vero nulla, ma la cosa serve per intimorire la vittima.
Arrivano anche le minacce da parte di Daniele Ficarra. Franco: “Tutte le volte che mi chiedeva i soldi, io cercavo di oppormi ma a questo punto minacciava di recarsi dai miei figli a dire tutto. Io per la vergogna pagavo”. Ficarra rincara la dose: “Io comando su questo territorio! Chiedi chi è la famiglia Ficarra in Calabria (…). Vengo con un falcetto e ti faccio a pezzetti”.
Si arriva agli inizi di ottobre. È in questo momento che entra in gioco il presunto “boss” Domenico Ficarra, e Antonio Salerni, detto lo Zio. Ficarra si presenta con il finto nome di Francesco Lipari. Inizialmente Lipari-Ficarra si dice interessato all’auto, dopodiché si spaccia per protettore di Jessica e vuole altri soldi. Il 10 ottobre la scena si sposta in un capannone in via Anna Frank 3 a Mozzate già di una società di Antonio Salerni.
Ricorda Franco: “Sono stato condotto da Ficarra (alias Lipari) nel capannone dove c’era la società di trasporti dello Zio (Salerni). Sono salito al primo piano. Qui era presente un contenitore vecchio dove Lipari-Ficarra mi diceva che c’era dell’acido e minacciava di buttarmi lì dentro se non avessi pagato”.
Pochi giorni dopo, Franco va dai carabinieri di Merate per denunciare tutto.