La vecchiaia ‘ringiovanita’ in ‘Arrugas’: sferzante romanzo a fumetti di Paco Roca
Forse uno dei tratti distintivi del nostro tempo, e la pandemia non ha fatto altro che esacerbarlo, è la rimozione del morire e della vecchiaia.
Essere vecchi ed esposti costantemente alla fragilità dell’esistenza, avere il viso solcato dalle “rughe”, dal tempo che si scolpisce nel volto e diventa carne, significa – ancor di più oggi – affrontare il senso di colpa che sorge dinanzi al proprio essere finito.
Questo sentimento, però, all’interno di una società come la nostra, dove il valore si riduce sempre più all’utile e all’efficienza produttiva, viene sistematicamente prodotto e inculcato.
I vecchi e i malati, sovente, a causa della loro inefficienza, scivolano dal rango di “persone” a quello di “cose”.
Ospedali e ospizi diventano luoghi gelidi, esangui, deputati a favorire il processo di reificazione dell’umano, e non, come ci di aspetterebbe, ad arrestarlo (Cfr. Ivan Illich, Nemesi medica), marcando risolutamente la radicale separazione fra chi è attivo e produttivo, tra chi conduce una vita normale, e chi, invece, patisce e si sente inutile, tagliato per sempre fuori dal flusso ordinario della vita sociale, come un giocattolo guasto che ha smesso di funzionare come deve.
E lo fa avendo bene in mente il duplice carattere della sofferenza – esistenziale e sociale – che segna di sé la vecchiaia e la malattia.
Egli squarcia il velo di quel luogo in prima persona, consapevole che un artista è tale solo se impara a guardare ciò che ai più è celato. Perché è l’atto del guardare la prima incisione grafica che si opera sulla carta.
Paco Roca decide così di tessere i fili di una storia che restituisca dignità alle persone malate, allargando lo sguardo sulla loro vita, senza ritagliare ossessivamente solo i momenti di dolore, ma mostrandoli con delicatezza, con grazia, assecondando, forse, la lezione di Paul Klee, per cui “l’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”.
L’artista spagnolo, infatti, non “racconta”, didascalicamente, ma “mostra”, suggerisce soltanto, l’angoscia di Emilio, il protagonista.
A parlare del suo dolore è il silenzio del suo sguardo attonito, le sue spalle ricurve nel clangore della notte, la linea che, incerta, perimetra la sua figura; l’opacità cromatica in cui annega la forma del suo corpo e di coloro che lo accompagnano in quella via dell’esistenza in cui i contorni del senso – di sé, del mondo – iniziano a slabbrarsi drammaticamente.
Le rughe (Arrugas) sono cicatrici di ferite che fanno male, senza che se ne ricordi il motivo. Ma il sale di queste ferite indicibili è trasfigurato, nei colori e nelle linee del fumettista, sempre dalla dolcezza dell’ironia.
Qui risiede la potenza formale e narrativa di Paco Roca. La sofferenza non può essere “detta”, può essere solo indicata con riverenza. Il riso, che traluce nella caduta, abbisogna invece di emergere in tutta la sua forza; abbisogna di linee, di colori, di parole.
Perché è la gioia, nel dramma, il vero il non-detto del dolore. Emilio ripete a se stesso “Un altro modo, un altro modo, deve esserci un altro modo…”.
Quest’altro modo gli viene fornito da Miguel, suo autentico contraltare psicologico ed esistenziale.
Miguel gli insegna che è possibile ridere anche senza ricordare perché si ride; che si vive anche senza sapere perché si vive.
Questo cardine concettuale dell’opera, personalmente, fa pensare a Lucky di John Carrol Lynch. Lucky, interpretato magistralmente da Harry Dean Stanton alla sua ultima grande prova d’attore, verso la fine del film indica “un altro modo” di abitare il tempo della vecchiaia, della malattia, e, dunque, della vita:
Paulie: Che è…
Lucky: Che… tutto svanisce. Tu, tu, tu, tu, me stesso, questa sigaretta, tutto. Nell’oscurità, nel nulla. E non c’è nessuno a vigilare. E cosa ti resta? Nu cazz’.
Paulie: Nu cazz’.
Lucky: Niente. Non…
Elaine: E cosa puoi fare?
Howard: Cosa possiamo fare?
Lucky: Sorridere.
Paco Roca, parimenti, con l’essenzialità del suo stile, riesce a a rendere vivo il legame inscindibile che avvince la gioia al dolore. La sua storia fa ridere riflettendo e fa riflettere ridendo:
La memoria si sfilaccia, i ricordi precipitano inesorabilmente nel nulla. Tutto, lentamente, si consuma. Ma resta, anche in mezzo al nulla, l’abbaglio di un sorriso: altrettanto misterioso come il silenzio della sofferenza.
Quando riusciamo a sorridere, nonostante i colpi sferzanti del niente, le nostre rughe – le nostre cicatrici – smettono di far male.