Napoli. Addio a Tullio Pironti, il libraio-editore che ‘prese a pugni’ i grandi
“Ero una molla sul ring. Colpivo e scappavo. Colpivo e scappavo. Quella volta mi toccò incontrare uno più forte di me. Allora scappai per tutto il tempo da un punto all’altro del ring, poi – non so come – gli assestai un cazzotto proprio sul mento. Cadde a terra. Pregai che non si rialzasse più, altrimenti per me sarebbe finita”.Invece Tullio Pironti vinse quell’incontro, come raccontò a Emanuele Trevi, e quei cazzotti hanno dato senso alla sua vita fatta di pugilato e di libri, e la sua autobiografia (Libri e cazzotti) – oggetto del colloquio con lo scrittore – ne era la prova logica e conseguente. Le selezioni in nazionale, i 50 incontri di boxe all’attivo, l’amicizia e la competizione con un ragazzo di Trieste, Nino Benvenuti, che sarebbe divenuto il campione che sappiamo.
Pironti non è stato il libraio di Napoli. Pironti era Napoli, era piazza Dante, la sua mitica officina di carta dove ogni cosa, in una cornice di confusione effervescente, l’alto e il basso, la grande letteratura e la minuzia scolastica, trovavano accoglienza e nobiltà.
Scugnizzo di via dei Tribunali, figlio di famiglia che amava i libri e con i libri campava, Pironti è riuscito ad arruolare, nell’isolata condizione di editore dalle tasche sempre un po’ vuote, perché nel Mezzogiorno i grandi editori sono stati personaggi illuminati e costantemente squattrinati, narratori di successo, firme portentose. Nel suo catalogo sono centinaia e centinaia i volumi che ha dato alle stampe, e grandi volti della letteratura straniera. Fregò a Mondadori Bret Easton Ellis, provando che per una volta l’agilità dei piccoli può fregare i grandi. Batté infatti Mondadori acquisendo Meno di zero, che fece un botto poi nelle vendite. La spuntò sulla casa milanese offrendo 51 milioni di lire per i diritti. Mondadori non poté rilanciare perché per statuto aziendale gli acquisti superiori a 50 milioni dovevano essere approvati dal consiglio di amministrazione.
Don DeLillo e Fernanda Pivano, Nagib Mahfuz e Raymond Carver e Tahar Ben Jelloun (rapporto editoriale che poi finì con quest’ultimo in tribunale, purtroppo) e cento e cento di scrittori che hanno raccontato Napoli, il Sud, la passione e la malavita. Il camorrista di Joe Marrazzo, poi film di Tornatore, gli diede soldi, l’energia vitale per continuare a fare un mestiere che non fa ricchi.
Piazza Dante prima e poi Palazzo Bagnara le sedi storiche. Pironti era lo stemma di Napoli, il segno identificativo, il punto geografico dove chiunque fosse stato in città aveva attraversato e conosciuto. E infatti a Napoli, alla sua gloria così rumorosa voleva consegnare la propria eredità: duecentomila libri da regalare al municipio e da lì distribuire gratuitamente a chiunque. Ciascuno col suo libro, col suo Pironti in tasca.
Non se ne fece nulla per le solite fanfaluche burocratiche, e in questo il Sud è maestro.
Oggi che nella chiesa Caravaggio, naturalmente in piazza Dante, è stato dato l’ultimo saluto all’uomo che aveva 84 anni, proviamo a capire cosa perde ancora Napoli.
La città, che in questi giorni si trova impelagata in una svogliata campagna elettorale nella quale bisogna decidere chi dopo De Magistris debba essere sindaco, si trova, celebrando Pironti, a raccontare ciò che è stata. Anche la ricandidatura di Antonio Bassolino, che a palazzo San Giacomo ha governato nell’ultimo spicchio del secolo scorso, produce questa immagine di una testa sempre rivolta al passato e perciò di una ricchezza che mano a mano sfiorisce, dei grandi pensatori o dei grandi mecenati o dei grandi imprenditori della cultura che l’età porta via. Napoli ha già perso il grande Aldo Masullo, tra i più grandi pensatori italiani, e ora, con Pironti, si chiude anche l’età dello struscio in libreria, il nome che ha attraversato le generazioni e fatto conoscere la forza della parola, la grandezza della parola, la necessità della parola.
Il fatto che Pironti sia stato prima scugnizzo, poi pugile, quindi libraio e infine editore, dà l’esatto contegno, il cursus honorum classico, la cifra tonda della napoletanità. E per questo anche un po’ retrò, consumata, afflitta dai suoi successi ma anche dalle proprie debolezze. Quella di una modalità intuitiva della vita, di una stanzialità quasi perenne, di un difetto nell’elaborare strade nuove, possibilità e modi nuovi di fare editoria.
Piccolo era e piccolo è rimasto. Ricchezza certo, ma anche limite. Ora che se ne è andato, quella saracinesca sarà chiusa o qualcun altro la aprirà?
Questo è il dilemma di Napoli: le sue ricchezze, la cultura, il talento, la dimensione enorme della propria capacità di ergersi a capitale delle arti figurative, di quelle narrative e di quelle musicali, deve sempre fare i conti con il vizio di una certa fissità evolutiva. Troppe cose nascono e troppe però poi muoiono per mancanza della benzina necessaria, i soldi spesso ma anche le difficili condizioni ambientali.
Pironti non c’è più, ed è come se un mattone fosse tolto al muro della città. Tolto per sempre.
P.S. di Ferdinando Terlizzi:
(di Antonello Caporale – Fonti: Il Fatto Quotidiano – Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)