Sessa Aurunca. Centrale Nucleare: per la bonifica occorrono almeno altri 15 anni
Il punto fermo da considerare, prima di ogni annuncio sul futuro dell’energia nucleare, qualunque sia il tasso di innovazione tecnologica, lo conoscono anche i bambini: è difficilissimo garantire la sicurezza degli impianti e la storia ha dimostrato pure l’incapacità di gestire rapidamente e con efficienza lo smaltimento dei rifiuti radioattivi e il decommissioning degli impianti. L’Italia, per dire, da decenni si trascina dietro (o spedisce all’estero a pagamento) rifiuti che non sa dove piazzare. Deciso l’abbandono del nucleare con il referendum del 1987 e spente entro il 1990 le centrali, ancora si discute della collocazione di almeno 78mila metri cubi di scorie e, giustamente, si litiga sulla loro posizione.
La pubblicazione a inizio anno della cosiddetta “Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee” (Cnapi), quella che avrebbe dovuto identificare le aree dotate dei requisiti per accogliere il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi, ha risolto poco e aizzato i sindaci che amministrano le 67 zone indicate. Hanno chiesto, e ottenuto, una proroga per presentare le loro osservazioni a Sogin, la società pubblica incaricata dello smantellamento nucleare. Già così si è passati da tre anni e mezzo a oltre quattro anni di attesa stimata tra la pubblicazione del Cnapi e il solo avvio della costruzione del deposito.
I ritardi si sono però accumulati. Siamo rientrati da poco in procedura di infrazione perché già nel 2014 non avevamo inviato a Bruxelles il programma nazionale di gestione dei rifiuti radioattivi. Pure l’Ispettorato per la sicurezza nucleare e protezione radiologica (Isin), previsto da un decreto del 2014, è – anche secondo l’ultima relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul nucleare – sottodimensionato e con almeno un centinaio di via libera ai lavori da dare per pratiche risalenti a 10 anni fa.
Come racconta Luca Zorloni in un articolo di Wired, mancano poi all’appello finanche i decreti attuativi di una legge del 1995, non sono state ancora riorganizzate le competenze tra ministeri, autorità indipendenti ed enti di ricerca e i costi e i tempi del decommissioning – attualmente stimati in 7,9 miliardi di euro con fine dello smantellamento nel 2035 – rischiano di aumentare come stimato da Sogin. Per ora sono raddoppiati i fondi provenienti dalle bollette rispetto alle stime del 2001, così come si è dimostrata molto più alta, nei fatti, la percentuale dei fusti ammalorati da smaltire. Anche la ormai trentennale, ancorché sempre impellente, questione del deposito sembra nascondere delle magagne, rilevate a luglio da Massimo Scalia, presidente della Commissione scientifica sul decommissioning nell’ambito della consultazione sulla Cnapi. C’è ad esempio un problema, spiega, di compatibilità tra il tipo di rifiuti: “È la prima volta nel mondo occidentale che si si vogliono collocare in un unico sito sia i rifiuti di bassa-media attività che lo ‘stoccaggio temporaneo’ (così Sogin, ndr) dei rifiuti di alta attività, i più pericolosi, nonostante prassi e letteratura internazionale tengano ben separata la gestione di queste due tipologie di scorie nucleari”.
Semplificando, i rifiuti di bassa-media attività sono quelli che raggiungono livelli di emissioni dimezzati in 30 anni e trascurabili in 300. Per alta intensità si intendono quelli con tempi di dimezzamento dalle migliaia ai milioni di anni. “Che cosa fare di queste scorie è un problema aperto – spiega la relazione della Commissione –. Una sistemazione ideale potrebbe essere il loro confinamento in un sito profondo, le cui caratteristiche biogeochimiche forniscano un isolamento per milioni di anni dall’ambiente esterno, dalle falde acquifere”. Fino ad allora lo “stoccaggio temporaneo” richiederebbe un vero e proprio impianto nucleare, che li custodisca per decenni e quindi con linee guida specifiche: “Serve una Vas per verificare la compatibilità di un unico sito sia per i rifiuti di bassa e media attività (Deposito nazionale) che per lo stoccaggio ‘temporaneo’ dell’alta attività”. Secondo la Commissione scientifica, bisogna poi prevedere per legge il diritto di recesso della popolazione coinvolta: anche una volta iniziata la costruzione del deposito.
È lo stesso Scalia a spiegarci, alla luce delle dichiarazioni del ministro Roberto Cingolani, se cambierebbe qualcosa con il ricorso ai mini reattori. La risposta è no: “Si prova a farli dagli anni 80 perché si credeva fossero socialmente più accettabili, ma le scorie sono le stesse, con le stesse difficoltà e la stessa incapacità di gestirle”. Il ricorso all’energia nucleare ha, secondo Scalia, una tara originaria: è passato troppo rapidamente dall’uso militare (per i sommergibili) a quello civile. Un salto che ha di fatto traslato la materia dai fisici agli ingegneri e l’ha riempita di falle applicative che, ad oggi, non sono mai state colmate. E la quarta generazione di reattori? “Nessuno dei sei reattori proposti al Generation IV International Forum corrisponde alle fanfaluche del ministro”.
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Nucleare, ecco perché Cingolani vende fumo. Il ministro e la lobby fuori tempo
Transizione energetica. L’atomo di “terza generazione” ha fallito. Per la “quarta” servono 20 anni (se bastano): e la decarbonizzazione? (di Stefano Barazzetta)
Alla luce delle raccomandazioni del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu (IPCC) – che segnala l’urgenza di abbattere il più rapidamente possibile le emissioni di CO2 per evitare l’aggravarsi della crisi climatica – è utile fare il punto sulla storia del nucleare e sullo stato di sviluppo delle nuove tecnologie.
Il nucleare a noi noto è il nucleare a fissione: grandi impianti dalla potenza di centinaia di megawatt, costruiti su larga scala a partire dagli anni 60 del secolo scorso. A oggi sono in funzione 440 reattori per una potenza di 395 GW e producono il 10% dell’elettricità mondiale, in discesa dal massimo storico del 18% registrato nel 1996. I paesi leader sono gli Stati Uniti (95 GW) e Francia (60 GW), mentre negli ultimi 10 anni lo sviluppo del nucleare è stato appannaggio della Cina, che ha raggiunto i 50 GW.
Il Giappone prima di Fukushima generava il 30% dell’elettricità dall’atomo, oggi solo il 5%: il Paese sta lentamente riattivando le centrali ed è impegnato nel cleanup, cioè il tentativo di “pulire” gli effetti del disastro del 2011, che durerà almeno fino al 2050 a un costo – stratosferico – stimato tra i 200 e i 600 miliardi di dollari.
Nel mondo sono in costruzione impianti per altri 58 GW, ma poiché molti reattori si avvicinano a fine vita una buona parte sarà destinata a rimpiazzare gli impianti che verranno chiusi nei prossimi anni. Vale la pena di notare anche che il nucleare è molto concentrato: considerando anche Russia e Corea del Sud, il 72% del nucleare è installato in soli 6 Paesi.
Come noto, in seguito al disastro di Chernobyl del 1985 il nucleare subì una battuta d’arresto in tutto il mondo (non solo in Italia): negli anni 90 e duemila vennero installati 80 GW in totale, contro i 200 GW installati nei soli anni 80. Verso la fine degli anni 2000 si iniziò a parlare di “Rinascimento Nucleare”: Chernobyl era lontano e nuovi design, a partire dal francese EPR – gli impianti di terza generazione, che erano alla base del piano italiano bocciato nel 2011 – inducevano alla speranza.
Le cose sono poi andate diversamente: i due impianti EPR che avrebbero dovuto rilanciare il nucleare in Occidente si sono rivelati problematici e al momento non sono ancora entrati in funzione: Oilkiluoto (Finlandia) ha un ritardo di 13 anni sulla tabella di marcia e budget triplicato, Flamanville (Francia) è in condizioni simili. Due reattori sono entrati in funzione in Cina e altri due sono in costruzione in Gran Bretagna (Hinkley Point C) per un costo totale di 26 miliardi di euro, grazie a un sussidio che consentirà al gestore di vendere l’elettricità a un costo superiore a quello di mercato, con un extra ricavo di circa 50 miliardi di euro che ricadrà sulle spalle dei cittadini. In Francia la Corte dei Conti si è pronunciata contro gli sprechi del programma EPR e il governo francese si è impegnato a ridurre la dipendenza dal nucleare abbassandone la quota di elettricità dal 70% al 50% entro il 2035. Negli Stati Uniti circa un terzo degli impianti nucleari esistenti rischia di chiudere perché non riescono a coprire i costi operativi (sarebbe quindi impossibile coprire gli investimenti necessari per costruire nuovi impianti) e i sostenitori del nucleare chiedono allo Stato sussidi per tenerli aperti. Quel che viene sempre omesso dal dibattito è che il nucleare è la fonte d’energia più “statale” in circolazione: probabilmente non esiste al mondo un singolo reattore che non sia stato costruito con qualche forma di sostegno o sussidio pubblico.
Il gas e le sempre più competitive rinnovabili stanno mettendo fuori mercato il Chilowattora (kWh) nucleare: per impianti di larga scala il costo del kWh solare ed eolico si è ridotto rispettivamente del 90% e del 70% negli ultimi 10 anni e costa oggi meno della metà del kWh nucleare. E questo senza considerare i costi – di fatto ignoti – di decommissioning (smantellamento) degli impianti a fine vita, che includono la gestione delle scorie: a oggi la sola Finlandia ha individuato e sta costruendo il primo deposito geologico permanente.
Esistono alternative “atomiche” al nucleare tradizionale? Se da un lato c’è accordo pressoché unanime sul fatto che la fusione nucleare richiederà ancora qualche decennio per raggiungere la scala commerciale (se ci arriverà, non abbiamo certezze) una speranza per il futuro potrebbero essere gli SMRs menzionati da Cingolani, l’ormai famoso nucleare di quarta generazione.
Si tratta di piccoli reattori modulari, con potenza inferiore rispetto a quella dei reattori tradizionali (300 MW), che nelle intenzioni degli sviluppatori potranno risolvere i problemi di costo e tempistica del nucleare tradizionale. Esistono circa 50 diversi design in concorrenza tra loro al momento e alcuni impianti sono in costruzione in Russia e Cina, ma la scala commerciale è ancora lontana e difficilmente sarà raggiunta prima di 10-15 anni.
Cosa fare quindi? L’atomo tradizionale è in crisi, almeno in Occidente, afflitto da costi in crescita, tempi di costruzione lunghi e incerti, e da competizione serrata: in queste condizioni sembra difficile giustificare nuovi investimenti, almeno nei mercati europei e americani. Il nucleare è sempre meno in grado di attrarre capitali privati, i mercati preferiscono finanziare tecnologie che offrono maggiori garanzie in merito a rischio e rendimento, come le rinnovabili.
E anche se l’Italia decidesse di lanciare un nuovo programma nucleare il primo kWh non verrebbe prodotto prima di 15-20 anni, considerando anche – ma non solo – la necessità di superare i due referendum del 1987 e 2011. Ha invece senso sostenere il nuovo nucleare – fissione e SMRs – tenendo però ben chiaro in mente che servirà ancora qualche decennio perché possa contribuire alla decarbonizzazione.
Nel frattempo le rinnovabili continuano la loro corsa e costituiscono una soluzione economica e di rapida implementazione per abbattere le emissioni: senza considerare il contributo dell’idroelettrico, nel 2019 hanno superato il nucleare per elettricità prodotta, raggiungendo in meno di 15 anni – il loro sviluppo su larga scala è iniziato verso il 2007 – quello che il nucleare ha ottenuto in 50.
Credo che risulti quindi chiaro che – come sostiene l’ad di Enel, Francesco Starace – sia necessario accelerare gli investimenti nelle rinnovabili: Terna afferma che ci sono richieste di connessione alla rete per 100 GW da rinnovabili, in attesa delle autorizzazioni necessarie, corrispondenti a investimenti privati dell’ordine di 100 miliardi.
Nell’attesa che il nuovo nucleare divenga disponibile, la decarbonizzazione non può aspettare.
(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)